Una seconda opportunità va concessa (concretamente, quasi) a tutti. La Raccomandazione della Commissione sul nuovo approccio al fallimento.

Con l’adozione, in data 12 marzo 2014, della Raccomandazione «su un nuovo approccio al fallimento delle imprese e all’insolvenza» (G.U.U.E. n. 74, 14 marzo 2014, serie L), la Commissione torna ad esaminare un campo, quello dell’armonizzazione di principi di natura sostanziale e processuale nell’ambito delle discipline concorsuali presenti all’interno dei vari Stati membri, che, a livello comunitario, è stato solcato già da tempo per via della crisi economica e finanziaria che negli ultimi anni ha coinvolto – e continua a coinvolgere – i Paesi dell’Unione europea.

Detta Raccomandazione, che si pone un duplice obiettivo, quello di «garantire alle imprese sane in difficoltà finanziaria […] l’accesso a un quadro nazionale in materia di insolvenza che permetta loro di ristrutturarsi in una fase precoce in modo da evitare l’insolvenza», e quello di «dare una seconda opportunità in tutta l’Unione agli imprenditori onesti che falliscono» (considerando n. 1), raccoglie i lavori della consultazione pubblica avviata nel 2013 dalla Commissione per verificare la possibilità di avvicinare le varie legislazioni in materia fallimentare, e si innesta nella piu’ ampia iniziativa che, in subiecta materia, era stata avviata con la Risoluzione del 17 novembre 2011 [P7_TA (2011) 0484], con la quale il Parlamento europeo ha chiesto alla stessa Commissione di presentare una o piu’ proposte legislative relative ad un quadro dell’UE in materia di insolvenza.

All’interno di tale programma si collocano, peraltro, la comunicazione del 12 dicembre 2012 [COM(2012) 573 final], con cui la Commissione evidenzia i settori nei quali le divergenze tra diritti fallimentari nazionali potrebbero compromettere la creazione di un quadro giuridico efficiente nel mercato interno, nonché il piano d’azione imprenditorialità 2020 [COM(2012) 742 final], con cui si invitano gli Stati membri a ridurre per quanto possibile il tempo di riabilitazione e di estinzione dei debiti nel caso di imprenditori onesti che siano falliti, riducendolo ad un massimo di tre anni entro il 2013.

Come per tutti i precedenti articolati – che, sempre nel contesto comunitario, hanno avuto ampia circolazione, specie quando di matrice accademica, sin dai Principles of European Insolvency Law del 2003 – viene adottato, per via delle inevitabili e talvolta profonde divergenze ancora presenti all’interno dei vari Stati membri, un approccio di soft-law, seppure nella recente Raccomandazione del 2014 gli Stati membri vengano espressamente invitati ad attuare entro il 14 marzo 2015 i principi in essa riportati, ed a comunicare alla Commissione le statistiche annuali sul numero di procedure di ristrutturazione aperte, sulla loro durata e sul loro esito.

Tra gli aspetti (tra i quali rientrano anche, a titolo esemplificativo, l’agevolazione dei negoziati nell’ambito dei piani di ristrutturazione e la tutela dei nuovi finanziamenti) sul cui recepimento la Commissione si riserva, dal canto suo, di valutare l’effettivo impatto interno, particolare rilievo assume quello della opportunità, concessa agli imprenditori falliti nel corso dell’attività imprenditoriale dagli stessi condotta, di intraprendere prontamente una nuova iniziativa economica.

In effetti, quelli della “seconda opportunità” e del “superamento della stigmatizzazione del fallimento aziendale” rappresentano obiettivi che pervadono la politica della Commissione già da tempo, ossia dall’elaborazione del piano d’azione per l’imprenditorialità [COM(2004) 70], successivamente rinnovato nel quadro della politica moderna per le PMI [COM(2005) 551].

A ben vedere, lo stesso spirito racchiuso nei vari consideranda della Raccomandazione de qua, ove si legge, tra l’altro, che gli effetti del fallimento, specie la stigmatizzazione sociale e «l’incapacità di far fronte ai propri debiti sono un forte deterrente per gli imprenditori che intendono avviare un’attività […] anche se è dimostrato che gli imprenditori dichiarati falliti hanno maggiori probabilità di avere successo la seconda volta», essendo opportuno «adoperarsi per ridurre gli effetti negativi del fallimento sugli imprenditori, prevedendo la completa liberazione dai debiti dopo un lasso di tempo massimo» (considerando n. 20), fa tesoro dei risultati emersi nell’ambito delle varie iniziative di cui sopra, avviate e condotte ormai da quasi un decennio.

E’ opportuno, al riguardo, menzionare alcuni dati e “linee-guida” presenti nella Comunicazione dell’ottobre 2007 [COM(2007) 584], da cui emerge, tra l’altro, che la “chiusura” delle imprese, la quale, nel 50% dei casi, si verifica entro i primi cinque anni di vita, rappresenta un elemento del tutto compatibile con lo sviluppo economico in un’economia globale e con il dinamismo aziendale, essendo la sperimentazione di qualche forma di insuccesso imprenditoriale connaturale e comune a tutti i “creatori di imprese”.

Considerato che solo il 5% dei fallimenti risulta fraudolento, e che il 79% dei cittadini dell’Unione sarebbe disposto a offrire una seconda possibilità all’imprenditore “honest but unfortunate” (il quale effettivamente risulta avere un superiore tasso di successo nel corso della nuova intrapresa economica), l’educazione allo spirito di imprenditorialità e l’introduzione di meccanismi incentivanti e di sostegno attivo agli imprenditori falliti possono stimolare un processo virtuoso piu’ adattabile non solo alla realizzazione dei principi sottesi alla creative disctruction di matrice schumpeteriana (Schumpeter, Teoria dello sviluppo economico, 1912), ma anche – e specularmente – ad una maggiore propensione all’assunzione di rischi e di self-employment, nonché di un ambiente piu’ favorevole alle piccole e medie imprese.

A tale impostazione risulta conformarsi il testo della Raccomandazione in commento che, nelle previsioni destinate alla liberazione dai debiti pregressi, suggerisce, tra l’altro, la concessione automatica, senza un ulteriore ricorso al giudice, di detto beneficio (discharge) in casi di meritevolezza (art. 31), una regolazione variabile dei termini e delle modalità di concessione del beneficio della liberazione dai debiti pregressi, al fine di dissuadere gli imprenditori ad agire «in modo disonesto o in mala fede, prima o dopo l’apertura della procedura fallimentare» (art. 32, lett. a), e la possibilità di escludere dalla liberazione specifiche categorie di debiti, quali quelli derivanti da responsabilità extracontrattuale (art. 33).

A ben guardare, se si volessero, sempre in tema di esdebitazione, ricercare i punti di unione tra i principi e i criteri individuati nella Raccomandazione e le pregresse esperienze regolatorie, questa volta a livello nazionale, si potrebbe pervenire in molti casi alla conclusione che tali interventi di matrice comunitaria, pur prefiggendosi lo scopo di innovare ed armonizzare le varie discipline concorsuali dei vari Stati membri, in realtà racchiudono indirizzi programmatici che già da tempo sono stati adottati e recepiti proprio da gran parte degli stessi Stati, attraverso un processo di armonizzazione spontanea del quale l’esdebitazione rappresenta una delle dimostrazioni piu’ significative.

Così, ad esempio, nell’opportunità di modellare regimi di concessione della esdebitazione a seconda del grado di meritevolezza del debitore fallito riecheggiano le stesse radici di questo beneficio di carattere patrimoniale, volto a stimolare una cooperazione del debitore con gli organi della procedura o con i propri creditori: l’espressione “stick and carrot” si trova utilizzata non solo negli scritti di diversi eminenti Studiosi del passato (Tabb, The Historical Evolution of the Bankruptcy Discharge, 1991; MacLachlan, Handbook on the law of Bankruptcy, 1956), ma anche in alcune sentenze di ordinamenti di common law [cfr. United States v. Kras, (1973) 409 U.S. 434], per poi essere ripresa, con gli adattamenti imposti dal periodo temporale attuale, nella redlich person dell’InsO 1994 o nelle condizioni soggettive di cui all’art. 142 del R.d. n. 267/1942.

In epoca altrettanto risalente si consolidano l’esigenza e gli obiettivi sottesi all’istituto dell’esdebitazione, ravvisati in quel “fresh new start” che orienti i falliti verso un nuovo progetto imprenditoriale in tempi rapidi ed adeguati per un pronto reinserimento nel mercato: l’espressione fresh start fu usata per la prima volta da Lord MacNaghten nella sentenza Hardy v. Fothergill [13 App. Cas. 351 (1888)], ben prima, dunque, della piu’ nota (e citata) sentenza Local Loan Co. V. Hunt [292, 54 S. Ct. 695, 78 L. Ed. 1230 (1934)].

Ebbene, proprio il consolidarsi, all’interno delle varie discipline concorsuali nazionali, di concetti e principi condivisi rende piu’ concreto e realizzabile il tentativo di “ulteriore” ravvicinamento di matrice comunitaria, consentendo di adottare non piu’ solo concetti generici od intendimenti di principio, ma anche indicazioni concrete e dettagliate, quali il lasso di tempo (individuato in tre anni dalla data di apertura del fallimento) entro cui dovrebbe trovare piena attuazione la riabilitazione dai debiti pregressi (art. 30).

Proprio questo aspetto, sul quale la Commissione pone particolare accento, rischia però di evidenziare le maggiori criticità e discrasie nell’implementazione, da parte dei vari Stati membri, della suddetta Raccomandazione.

In questo caso, senza necessità di volgere lo sguardo oltre Manica, né Oltralpe, le lungaggini dei processi – tali da rendere invalsa l’espressione (e lo strumento) di Italian torpedo – assumono connotati talvolta “grotteschi” quando si pensa alle procedure fallimentari, solo alla chiusura delle quali (o addirittura entro l’anno successivo), ai sensi dell’art. 143 della novellata legge fallimentare italiana, può essere instaurata la procedura per la concessione dell’esdebitazione.

Se la durata del fallimento e dei suoi effetti – ivi compresa la possibilità di ricominciare una nuova iniziativa economica senza il peso dei debiti pregressi – assurgono ad indice della qualità della normativa fallimentare e dell’efficacia del regime di insolvenza in un determinato paese (2004 EBRD Legal Indicator Survey for transition economies), le possibilità di conformazione ad un regime che consenta una “pronta ripartenza” per il soggetto fallito, da parte dell’Italia, appaiono alquanto remote, ove si consideri che con lo stesso Decreto Sviluppo (D.L. n. 83/2012) e con le modifiche apportate alla c.d. “Legge Pinto”, la durata dei procedimenti concorsuali viene considerata del tutto ragionevole laddove non ecceda un termine pari al doppio di quello previsto dalla Raccomandazione.

Invero, i dati emersi nel corso delle periodiche indagini condotte dalla Commissione – cfr. la citata Comunicazione COM(2007) 584 – i quali, quanto alla durata dei fallimenti, collocano l’Italia in una posizione assai piu vicina a quella dei Paesi meno “efficienti” (9,2 anni della Repubblica ceca) che a quella dei piu’ “virtuosi” (4 mesi dell’Irlanda), nonchè le statistiche periodicamente elaborate a livello nazionale inducono a dubitare, in generale, sia che i risultati prefissati con il processo di razionalizzazione ed ammodernamento della novellata legge fallimentare siano stati del tutto raggiunti sotto il profilo della durata e dell’onerosità delle procedure fallimentari e sia che, a seguito delle informazioni che dovranno essere fornite, entro il 14 marzo 2015, dagli Stati membri, le valutazioni della Commissione sull’impatto dei principi della Raccomandazione qui esaminata possano, con riferimento al nostro paese, risultare positive.

Vero è, però, che, con riferimento all’approccio dottrinario e giurisprudenziale degli ultimi anni in Italia, che per il periodo con cui si è addivenuti all’introduzione (nel 2005) dell’esdebitazione e per la configurazione della sua operatività, può essere senz’altro annoverata tra i paesi cc.dd. late comers, si è registrato un progressivo passaggio da un impostazione di (sospettoso) contrasto rispetto ad una concessione troppo permissiva di detto beneficio ad una sempre minore resistenza nel riconoscere (ed attuare) l’effettiva ratio sottesa a tale meccanismo, al quale è ormai attribuita una importante vocazione ad incentivare le condizioni di ripristino di una soggettività imprenditoriale ritenuta economicamente e socialmente utile.

Ed in tale percorso non sono mancati, avendo anzi svolto un ruolo spesso funzionale nell’inquadramento sistematico e dogmatico dell’esdebitazione, un riferimento ed un confronto con altri paesi al cui interno tale strumento ha assunto da tempo una dinamicità del essenziale ed immanente al diritto concorsuale (si veda, al riguardo, la sentenza a Sezioni Unite della Corte di Cassazione, n. 24215/2011, con cui, per chiarire quando la condizione oggettiva di cui all’art. 142, secondo co., l.fall., debba intendersi realizzata, è stata adottata un’interpretazione coerente con il favor per l’istituto formulato dalla legge delega).

E’ pertanto auspicabile che, in quest’ottica, alcuni aspetti della Raccomandazione de qua relativi alla configurazione ed all’operatività dell’esdebitazione possano costituire un viatico per un ulteriore intervento da parte del legislatore.

Al riguardo, se delle summenzionate “linee-guida”, (i) quella relativa ad una opportuna differenziazione di trattamento a seconda della meritevolezza o meno del debitore può considerarsi in parte realizzata attraverso le diverse condizioni soggettive contemplate sempre dall’art. 142 l.fall., mentre (ii) quella attinente al termine temporale (i.e., il decorso del triennio dall’apertura della procedura) risulta difficilmente attuabile, in quanto la concessione del beneficio prima della chiusura del fallimento determinerebbe un conflitto difficilmente sanabile con gli artt. 42 e 46 l.fall. ed il sotteso assioma del desaissement, (iii) un regime di concessione automatica, senza «l’obbligo di rivolgersi nuovamente al giudice» (art. 30 Racc., cit.), noto altrove come “automatic discharge” potrebbe essere realizzabile senza comportare uno snaturamento dell’istituto ma, anzi, un’ampliamento della sua efficacia.

Anche in questo caso, peraltro, non mancherebbe la possibilità di “mutuare” regole e regimi da ordinamenti stranieri (quali quello inglese o nordamericano) dove, già da tempo, il “moral judgement” propedeutico alla concessione della discharge è implicitamente demandato al giudice senza necessità di un’apposita richiesta da parte del fallito, al quale viene così risparmiata quella adverse publicity o quel “discredito morale” che potrebbero costituire un (ingiustificato) deterrente per la richiesta del suddetto beneficio, preservando al contempo gli interessi degli altri soggetti coinvolti.