Verso il Presidenzialismo à la turca: la Grande Assemblea Nazionale di Turchia approva (e rinvia a referendum) la riforma costituzionale

Dopo un breve iter parlamentare cominciato alla metà di dicembre 2016 presso la Grande Assemblea Nazionale di Turchia, una maggioranza relativa, composta dagli esponenti dell’AKP (Adalet ve Kalkinma Partisi – Partito della Giustizia e dello Sviluppo) e dai deputati del MHP (Milliyetçi Haraket Partisi – Partito del Movimento Nazionalista) ha approvato la riforma costituzionale per la modifica della forma di governo turca, muovendo così il primo passo per la transizione dal parlamentarismo, instaurato alla fondazione della Repubblica (1924), al presidenzialismo.

Si tratta dell’epilogo di una vicenda che ha origini ormai risalenti allo scorso decennio. Sin dalla sua ascesa al potere nel 2002, infatti, l’AKP aveva promesso al popolo turco una riforma costituzionale che avrebbe garantito stabilità attraverso il rafforzamento del ruolo del Governo e del Presidente della Repubblica. Una prima evoluzione in questo senso si era avuta nel 2007 quando, nella difficoltà, poi superata, di eleggere Abdullah Gul quale successore del Presidente Sezer, l’AKP era riuscito a far approvare un emendamento costituzionale per l’elezione diretta, e non più parlamentare, del Presidente della Repubblica e la riduzione del suo mandato da sette a cinque anni. Sebbene questa riforma avesse già “attenuato” il parlamentarismo turco, l’AKP ha continuato a perseguire l’obiettivo di una evoluzione in senso più propriamente presidenziale. Per questo motivo, all’indomani del colpo di stato del 15 luglio 2016 e in un periodo di insicurezza generato dai frequenti attacchi terroristici realizzati sia dallo Stato islamico che dai ribelli curdi, il partito di Governo ha deciso di utilizzare il forte sostegno popolare di cui gode per presentare in Assemblea la proposta di riforma che qui si discute. Una riforma che era stata già più volte avanzata durante i dibattiti per la definizione di una nuova Costituzione che si svolgono sin dal 2012 e che avevano sempre visto la dura contrarietà delle opposizioni, in primo luogo del CHP (Cumhuriyet Halk Partisi – Partito Repubblicano del Popolo).

Anche in questo caso, il confronto non è stato sempre sereno. Dopo i momenti di concordia e unità nazionale seguiti al golpe, le opposizioni hanno reagito alla proposta dell’AKP con durezza e con tentativi di ostruzionismo che sono sfociati in vere e proprie risse in Parlamento. Più che i membri dell’AKP, le cui posizioni erano chiare da tempo, l’opposizione ha condannato il sostegno che la riforma ha ottenuto dal MHP, al punto di adombrare possibili accordi circa la concessione di incarichi di governo in cambio del voto favorevole. Ai 316 voti favorevoli espressi dai rappresentanti dell’AKP, infatti, si è dovuto aggiungere il sostegno di alcuni deputati del MHP, i cui 39 parlamentari si sono rivelati fondamentali, pur tra alcune defezioni protette dal voto a scrutinio segreto, per consentire che la riforma fosse approvata con un supporto superiore ai 330 voti favorevoli sui 550 deputati che compongono il Parlamento monocamerale turco, necessari affinchè il pacchetto di emendamenti fosse rinviato a referendum. La Costituzione turca attualmente in vigore, approvata nel 1982 a seguito di colpo di stato militare, prevede, infatti, che nel caso in cui i voti favorevoli non raggiungano i 367 su 550 deputati la proposta di riforma costituzionale possa entrare in vigore solo a seguito di una approvazione in via referendaria. La battaglia politica si sposta dunque dalle sale parlamentari alle piazze, dove le opposizioni sembrano avere il sostegno della popolazione, al momento apparentemente più propensa alla salvaguardia del sistema parlamentare; tuttavia, gli esponenti dell’AKP hanno già preannunciato che si batterranno per convincere i cittadini della bontà della riforma per la stabilità e il rilancio economico del paese. In attesa del referendum, che dovrebbe svolgersi all’inizio dell’aprile 2017, si propone dunque una breve analisi della legge approvata in Parlamento.

Il pacchetto di 18 articoli prevede modifiche che interessano i tre rami del potere. In primo luogo, si aumenta dagli attuali 550 a 600 il numero di deputati della Grande Assemblea Nazionale e si riduce dai 25 ai 18 anni l’età necessaria per l’elettorato passivo. Le elezioni parlamentari, inoltre, dovrebbero avere luogo ogni 5 anni, contestualmente a quelle per il Presidente della Repubblica. Restano nelle mani del Parlamento la funzione legislativa ed il potere di controllo sull’Esecutivo attraverso mozioni e commissioni d’inchiesta.

Quanto al potere giudiziario, si dispone la definitiva abolizione dei tribunali e dei giudici militari, secondo un percorso di limitazione del ruolo dell’esercito che l’AKP ha avviato da tempo, cui si affianca la previsione della possibilità che la Commissione statale per le ispezioni possa condurre ispezioni relative alle forze armate, in una chiara inversione di tendenza rispetto alla tutela garantita a queste ultime dalla Costituzione del 1982. La riforma prevede, inoltre, una nuova modifica della composizione della Corte costituzionale, il numero dei cui componenti era stato elevato a 17 dalla riforma costituzionale del 2010 e che adesso verrebbe ridotto a 15. In linea con i desiderata dell’AKP è anche la modifica della composizione del Consiglio Superiore della Magistratura, che cambierebbe la sua denominazione in Consiglio dei giudici e magistrati e che vedrebbe ridotti i suoi componenti da 22 a 13 (5 scelti dal Presidente della Repubblica e 6 eletti ogni quattro anni dal Parlamento, cui si aggiungono il Ministro della Giustizia e il suo sottosegretario) e affidata la sua presidenza al Ministro della Giustizia. Proprio questa scelta è stata aspramente contestata dalle opposizioni, che segnalano una rischiosa commistione tra il potere esecutivo e quello giudiziario; al contrario, per i sostenitori dell’emendamento, essa rappresenterebbe una garanzia dalle deviazioni del potere giudiziario e dalle possibili ingerenze nelle competenze degli altri poteri dello Stato.

La riforma modifica, infine, la disciplina relativa allo stato di emergenza, prevedendo che il Parlamento abbia tre mesi per approvare il decreto presidenziale di proclamazione dello stesso e che il Presidente della Repubblica possa associarvi una chiamata di massa alla leva militare, qualora ritenuto necessario in base alle circostanze. La previsione di nuove norme in materia sembra particolarmente attuale se si ricorda che la zona sudorientale del paese è ricorrentemente soggetta a questa misura per il contrasto del terrorismo curdo e che, dal 22 luglio 2016, l’intera Turchia è sottoposta ad uno stato di emergenza che ancora perdura, associato alla sospensione della CEDU ai sensi dell’art. 15 della Convenzione stessa.

Nonostante tali interventi non siano di minore rilievo, al centro della riforma si pone tuttavia la modifica del ruolo e delle competenze del Presidente della Repubblica. Qualora la popolazione turca dovesse approvare la riforma in via referendaria, la figura del Presidente del Consiglio sarebbe definitivamente abolita con un trasferimento di poteri al Presidente della Repubblica, che sarebbe assistito nel proprio incarico da un numero variabile di vicepresidenti di propria nomina. Per la messa in stato di accusa di questi ultimi, del Presidente e del suo Gabinetto si prevede, inoltre, una procedura particolarmente rinforzata. In primo luogo, occorre che la richiesta di messa in stato di accusa sia approvata dalla maggioranza assoluta dei parlamentari prima che la proposta sia discussa entro un mese ed approvata dei tre quinti dell’Assemblea. In base alla composizione di quest’ultima si dovrà quindi procedere alla formazione di una Commissione ad hoc composta da 15 parlamentari che, entro un termine di due mesi estendibili non oltre i tre, dovrà inviare una informativa al Parlamento, che avrà 10 ulteriori giorni per inviare, con una maggioranza di due terzi dei voti a favore in votazione a scrutinio segreto, al giudizio della Corte suprema le più alte cariche dello Stato. Per la durata di questo procedimento non sarà possibile procedere con le elezioni anche quando precedentemente calendarizzate. Per la scelta dei candidati, inoltre, si prevede che possano avere accesso alle elezioni presidenziali solo coloro che abbiano già servito il paese come deputati e provengano da un gruppo parlamentare o da un partito che abbia ottenuto centomila voti nelle precedenti elezioni e abbia superato la soglia del 5%. Sia al Presidente che al Parlamento è riconosciuto il potere di indire nuove elezioni. Differentemente da quanto previsto attualmente, il Presidente non sarebbe più tenuto a dimettersi dalle cariche ricoperte nel proprio partito di appartenenza, ponendo così fine ad un lungo dibattito avviatosi con l’elezione di Erdogan nel 2014, che ha rifiutato di abbandonare il proprio ruolo di leader dell’AKP e ha continuato a partecipare alle differenti campagne elettorali che hanno caratterizzato il suo mandato. Tra gli accresciuti poteri del Presidente della Repubblica rientra anche la possibilità di presentare una proposta di legge di bilancio che la Commissione bilancio del Parlamento sarebbe tenuta a discutere e a sottoporre al voto dell’Assemblea. La riforma prevede, inoltre, che il Presidente possa nominare gli alti funzionari pubblici. Al Presidente spetta, infine, il potere di emettere decreti collegati all’esercizio del potere esecutivo.

Se in occasione del referendum la riforma dovesse essere approvata, le prossime elezioni presidenziali, previste per il 2019, potrebbero consentire ad Erdogan, che avrebbe titolo a ricandidarsi, di rivestire nuovamente la carica di Presidente ma con più vasti poteri, che potrebbe detenere, in ragione della riforma, anche per un ulteriore mandato. È questo il presupposto che ha consentito ad alcuni analisti e alle forze dell’opposizione politica di denominare la riforma “sultanista” piuttosto che presidenzialista, ritenendo che essa consenta la definitiva instaurazione di un regime monocratico. I sostenitori della riforma, al contrario, ritengono che essa sia l’unica soluzione capace di porre fine all’instabilità politica che ha lungamente caratterizzato il paese nello scorso secolo e che è sembrata riproporsi in occasione delle elezioni del giugno 2015. Nell’assenza di una chiara maggioranza espressa dalle urne, infatti, le forze politiche si sono rivelate incapaci di costituire una coalizione, lasciando il paese in una incertezza conclusasi solo con il rinnovato sostegno all’AKP in occasione delle successive elezioni del novembre dello stesso anno.

In realtà, ciò che appare controverso, da un punto di vista strettamente giuridico, è la limitata presenza di contrappesi che la riforma propone piuttosto che il contestato rafforzamento dei poteri presidenziali, di massima conforme agli altri presidenzialismi. Il ruolo carismatico di Erdogan sulla scena politica turca e il forte sostegno popolare di cui gode fanno infatti temere per l’affermazione di una Presidenza incontestata e incontestabile; non possono tuttavia tacersi alcune critiche nei confronti delle opposizioni, che appaiono sempre più prive di una reale alternativa politica da contrapporre al progetto della Nuova Turchia che l’AKP propone da tempo e di esprimere una leadership capace di contrastare, anche mediaticamente, quello che potrebbe diventare il leader di più di un ventennio nella storia della quasi centenaria Repubblica turca.

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