Corte costituzionale e corte internazionale di giustizia: il diritto alla penultima parola (sulla sentenza 238 del 2014)

Con la sentenza n. 238 del 2014 la Corte costituzionale ha reso a tutti noto che la pistola dei controlimiti non solo è carica, ma spara davvero. La sentenza presenta innumerevoli sfaccettature, e altrettante incertezze quanto alle sue conseguenze. Di una sola cosa possiamo essere certi: sul caso pioverà un alluvione di commenti. La pronuncia è infatti idonea a richiamare attenzione da ogni settore del diritto: dai costituzionalisti agli internazionalisti, dai civilisti ai penalisti, dagli storici ai filosofi del diritto… Questo coefficiente moltiplicativo non renderà facile seguire la discussione in materia, e d’altro canto la renderà particolarmente interessante.

Su queste pagine le danze sono state aperte da Filippo Fontanelli e Paolo Passaglia, che non per caso hanno incrociato la prospettiva del diritto internazionale a quella del diritto pubblico. L’ambizione del contributo che aggiungo è perciò davvero limitata. A partire dai commenti già apparsi, che hanno aperto la discussione, emergono infatti già fin d’ora alcuni punti cospicui che probabilmente ritorneranno nei mille rivoli del dibattito che si svilupperà. Qui cercherò di ordinare alcuni di questi punti cospicui, aggiungendone forse qualcuno e niente di più, rinviando all’ottima sintesi di cui al commento di Filippo Fontanelli per i fatti di causa, e il contesto in cui si inseriscono.

Un primo punto appare comune ai due commenti, ed è assai saggio sotto al profilo metodologico. In due parole: usare prudenza. Posto che con le pistole ci si può fare assai male, è consigliabile approcciarsi con cautela alla pronuncia della Corte costituzionale. Prima di definire la sentenza storica, memorabile, epocale, vittoria-del-diritto-sulla-forza è preferibile capire che piega prenderanno gli eventi.

Non è però imprudente fissare alcuni punti fermi, pur provando a trattenersi dalle tentazioni dell’entusiasmo o del pessimismo. Il primo punto fermo, sottolineato dal commento di Fontanelli, è che la sentenza integra un illecito internazionale. Commette un torto a qualcuno, in questo caso alla Repubblica federale di Germania. E con ciò apre due strade parallele. Laddove pare aver finalmente dato giustizia a chi da decenni la reclamava (gli attori del giudizio a quo), apre un’altra posizione di ingiustizia, disattendendo apertamente un sentenza della Corte internazionale di giustizia (CIG) che dava ragione alla Germania. Le due strade – chiamamole quella di Angela Merkel e quella del sig. Luigi Ferrini – portano in direzioni molto diverse, e non perfettamente prevedibili, ma certamente continuano e sono lunghe. E per di più il barometro sembra mostrare cattivo tempo all’orizzonte di entrambe le rotte. Se seguiamo la strada dell’illecito internazionale, esiti più o meno catastrofici sono ipotizzabili senza eccessivi sforzi di fantasia. La Germania è nelle condizioni di ricorrere al Consiglio di Sicurezza «il quale ha facoltà, ove lo ritenga necessario, di fare raccomandazioni o di decidere circa le misure da prendere perché la sentenza abbia esecuzione» (art. 94, comma 2, Statuto ONU). E facendo uno sforzo di immaginazione ulteriore si potrebbe prospettare il ricorso a contromisure da parte della Germania, a fronte della deliberata violazione da parte dell’Italia dell’obbligo internazionale di adeguarsi alle sentenze della CIG. Prospettive, queste, non proprio auspicabili per l’Italia, né per la comunità internazionale nel suo complesso.

Se invece prendiamo la prospettiva del signor Ferrini, e di molti signori Ferrini (e discendenti), le cose stanno più o meno in questo modo. Per decenni le battaglie legali hanno avuto lo stesso esito: tutti i giudici e le parti in causa hanno detto al signor Luigi che aveva – approssimando molto – ragione, che era stato vittima di orrendi crimini di guerra e contro l’umanità, ma che non avrebbe potuto vedere il suo risarcimento. Ora nella prospettiva del signor Ferrini si è finalmente aperta la strada del risarcimento. È vero? Probabilmente no, ma fa bene Fontanelli a sottolineare che è del tutto lecito immaginarsi che i Ferrini d’Italia pretendano di veder finalmente realizzate le proprie pretese risarcitorie, e che è altrettanto lecito che la Germania – sentenza della CIG alla mano – si rifiuti di pagare. Si aprono così scenari non meno catastrofici: all’ipoteca posta su Villa Vigoni (riconosciuta come illecito internazionale) potrebbero aggiungersi altre simili garanzie su beni tedeschi in Italia, fino a ipotizzare il non molto confortevole orizzonte dell’ipoteca delle sedi diplomatiche e patrimonio connesso, giungendo alla violazione di un’altra consuetudine consolidata a tutela della sovranità degli Stati. In nome della tutela dei diritti fondamentali e contro i crimini di guerra l’ordinamento ha già fatto trenta, perché non fare trentuno?

Che il futuro veda il ricorso della Germania al Consiglio di Sicurezza dell’ONU, la predisposizione di contromisure, o l’ipoteca di sedi diplomatiche e beni di proprietà della Repubblica federale tedesca, il seguito “giudiziale” delle parallele storie di illeciti non sembra condurre a niente di buono.

Questo è quindi un punto qualificante della discussione: dove voleva arrivare la Corte costituzionale? È da escludersi che alla base delle prima sentenza di accoglimento di tal genere possa esserci un principio astratto di giustizia. Che le truppe tedesche abbiano commesso odiose atrocità nel territorio italiano, tra il 1943 e il 1945, non è mai stato un punto controverso. In tempi recenti (Dichiarazione Congiunta sul vertice italo-tedesco a Trieste, 18 novembre 2008) i due Stati riconoscevano  «pienamente le gravissime sofferenze inferte agli italiani in particolare nelle stragi e agli ex-Internati Militari Italiani e ne conserva la memoria». In quella stessa dichiarazione si legge quindi che «l’Italia rispetta la decisione tedesca di rivolgersi alla Corte Internazionale di Giustizia per una pronuncia sul principio dell’immunità dello Stato. L’Italia, anche come parte contraente, come la Germania, della Convenzione Europea sulla composizione pacifica delle controversie del 1957, e come Paese che fa del rispetto del diritto internazionale un cardine della propria condotta, considera che la pronuncia della Corte Internazionale sull’immunità dello Stato sia utile al chiarimento di una complessa questione».

Tornando alle intenzioni della Corte, questo basti a escludere che il fine ultime possa essere una simbolica riaffermazione dei torti subiti. Procedendo per presunzioni la Corte costituzionale sembra possa aver avuto in mente due diversi obiettivi. Uno molto ampio, l’altro molto concreto. Quello molto concreto: la bussola della Corte sembra essere l’effettiva ristorazione dei danni. Per i motivi citati sopra, e ben evidenziati da Fontanelli, non sembra però molto verosimile che ciò avvenga seguendo la strada giurisdizionale (ri)aperta dalla sentenza della Corte. Non pare insomma che il sig. Luigi Ferrini abbia oggi più possibilità di ieri di veder pagato il suo risarcimento.

L’obiettivo più ampio potrebbe essere quello di innescare una modifica della consuetudine internazionale in materia. E qui va ordinato un altro punto qualificante della discussione che la sentenza innesca. In tal direzione sembra condurre la citazione dei lontani precedenti in materia di immunità internazionale, quando la giurisprudenza italiana e la tesi italo/belga portarono la comunità internazionale a mutare in senso restrittivo l’interpretazione fino a quel tempo vigente dell’immunità internazionale. Se questo è l’obiettivo (e in tal caso, ispirandosi alla prassi recente del Bundesverfassungsgericht, bene avrebbe fatto la Corte a corredare immediatamente la sentenza di una traduzione ufficiale in lingua inglese) ha ragione Fontanelli a dubitare che il mezzo sia idoneo allo scopo, avendo peraltro la Corte stessa espressamente escluso che la sorte della consuetudine sia affar suo («lasciando agli organi internazionali la ricognizione della prassi ai fini della rilevazione delle norme consuetudinarie e della loro evoluzione», punto 3.3 c.i.d.).

Che l’obiettivo della Corte non sia invece quello di (ri)affermare la sua prerogativa a dire l’«ultima parola»? L’aspetto, nel bilancio motivazionale della decisione, sembra effettivamente trovare molto spazio. La sentenza offre infatti una compilazione «apprezzabilmente “didattica”» (così la definisce Paolo Passaglia) della storia giurisdizionale dei controlimiti. Utilizza per la prima volta proprio lo stesso termine “controlimiti”, finora molto usato in dottrina, ma comparso soltanto ai margini di due pronunce della Corte. E ribadisce una comprensione unitaria del concetto, che spazia dai limiti alla revisione costituzionale, fino ai controlimiti “comunitari”, “concordatari” e “internazionali”.

Ecco un altro punto sul quale la discussione si svilupperà auspicabilmente in lungo e in largo. La Corte pretende l’ultima parola, marcando fortemente la sua posizione: si pone al centro del controllo di costituzionalità, mai così accentrato (con una ricostruzione, come nota Paolo Passaglia, a tratti sorprendentemente rigida) e ultimo baluardo della Costituzione. La Corte ha dunque l’ultima parola nel cosiddetto dialogo tra le Corti. Il problema è che pare già del tutto evidente, per i motivi menzionati sopra, che l’ultima parola non è ancora stata detta. E il problema, più precisamente ancora, è che seguendo le strade parallele e opposte che si sono sopra delineate l’ultima parola probabilmente non esiste.

In realtà anche la Corte sembra essere ben consapevole che l’ultima parola non esiste, ma esiste semmai soltanto il volume con cui le parole sono pronunciate. L’approccio della Corte mi pare nasconda in realtà dei profili più miti di quanto non si sia portati a ritenere da una prima valutazione della sentenza. Solo a prima vista infatti sembra potersi dire che la Corte abbia sistemato una volta per tutte i principi supremi al di sopra dell’immunità internazionale. A ben vedere le cose sembrano stare un po’ diversamente. È vero infatti che la Corte afferma espressamente che spetta a lei verificare la compatibilità delle norme internazionali da immettere ed applicare nell’ordinamento interno (comprese le norme internazionali consuetudinarie) con i «principi qualificanti e irrinunciabili dell’assetto costituzionale e quindi, con i principi che sovraintendono alla tutela dei diritti fondamentali» (punto 3.1. c.i.d.). Questa verifica è però ispirata alle logiche del bilanciamento, mediante il quale la Corte è chiamata ad accertare che nel caso concreto venga garantita l’intangibilità dei principi fondamentali dell’ordinamento interno, ovvero ne sia ridotto «al minimo il sacrificio» (punto 3.1 c.i.d.). Un “piccolo” sacrificio è dunque ammissibile, e nella sentenza stessa la Corte pare darne alcune ipotetiche giustificazioni: ove sussistesse «un interesse pubblico potenzialmente preminente su un principio, quale quello dell’art. 24 Cost., annoverato tra i “principi supremi” dell’ordinamento costituzionale» (punto 3.4 c.i.d.) le ragioni dell’immunità potrebbero prevalere. In poche parole: anche i principi supremi possono soccombere nelle dinamiche del bilanciamento. Ma non è questo il caso.

Ecco dunque un altro punto fondamentale. Perché non è questo il caso? Su questa domanda possono innescarsi cortocircuiti ordinamentali davvero formidabili. La risposta della Corte alla domanda è frammentata in vari passaggi della sentenza, ma è riassunta nel passaggio in cui la Corte afferma che «l’immunità dello Stato straniero dalla giurisdizione del giudice italiano consentita dagli artt. 2 e 24 Cost. protegge la funzione, non anche comportamenti che non attengono all’esercizio tipico della potestà di governo, ma sono espressamente ritenuti e qualificati illegittimi, in quanto lesivi di diritti inviolabili, come riconosciuto, nel caso in esame, dalla stessa CIG» (punto 3.4 c.i.d.). La Corte sembra dunque distinguere nel merito tra immunità buone e immunità cattive, ponendosi nei fatti in contrasto con l’interpretazione della Corte internazionale di giustizia più di quanto non affermi in sede di “premesse” («l’interpretazione da parte della CIG della norma consuetudinaria sull’immunità degli Stati dalla giurisdizione civile degli altri stati per atti ritenuti iure imperii è un’interpretazione particolarmente qualificata, che non consente un sindacato da parte di amministrazioni e/o giudici nazionali, ivi compresa questa Corte», punto 3.1 c.i.d.).

È infatti opportuno tenere conto che nelle dinamiche di questo bilanciamento, su un piatto della bilancia si trovano il diritto alla tutela giurisdizionale e i diritti inviolabili dell’uomo. Senza dubbio principi costituzionali “pesanti” nella prospettiva della Corte costituzionale. Ma nell’altro piatto della bilancia si trova il principio di apertura dell’ordinamento di cui all’art. 10 Cost., non solo topograficamente collocato tra i principi fondamentali di un ordinamento costituzionale che guarda con favore a ogni ordinamento «che assicuri la pace e la giustizia fra le Nazioni» e «promuove e favorisce le organizzazioni internazionali rivolte a tale scopo».

Così, attraverso il principio di apertura dell’ordinamento, nell’altro piatto della bilancia dovrebbe entrare il principio di sovrana eguaglianza degli Stati, in cui il regime delle immunità trova giustificazione e che trova in quelle condizioni di parità tra le diverse parti delle organizzazioni internazionali a cui l’Italia partecipa una piena assonanza costituzionale (d’altra parte la CIG aveva espressamente sottolineato l’importanza dei principi in questione nella sua sentenza del 3 febbraio 2012, affermando che «the Court considers that the rule of State immunity occupies an important place in international law and international relations. It derives from the principle of sovereign equality of States, which, as Article 2, paragraph 1, of the Charter of the United Nations makes clear, is one of the fundamental principles of the international legal order. This principle has to be viewed together with the principle that each State possesses sovereignty over its own territory and that there flows from that sovereignty the jurisdiction of the State over events and persons within that territory», così al punto 57).

Come se non bastasse, la pesatura che la Corte costituzionale opera dei principi sul primo piatto della bilancia non sembra essere per forza pacifica. È vero infatti che il ricorrente ha subito una lesione di quel fondamentale diritto che vuole sia assicurato «a tutti e sempre, per qualsiasi controversia, un giudice e un giudizio» (così corte cost., sent. n. 18 del 1982)? Il difetto di giurisdizione non è in fin dei conti fondato su una sentenza di un giudice, pronunciata sulla base del diritto?

La Corte sembra adottare un diverso ragionamento in ragione del fatto che in questo caso la domanda di risarcimento origina da fatti che sono pacificamente qualificati come crimini contro l’umanità. Ma che ne sarebbe se simili domande di risarcimento fossero connesse a fatti non pacificamente qualificati come crimini contro l’umanità?

Si torna dunque alla domanda di cui sopra. Perché non è questo il caso in cui i principi supremi possono sopportare una limitazione? Si dirà: è il bilanciamento, bellezza. E probabilmente non c’è altro da aggiungere. Salvo il fatto che il bilanciamento in questione è una partita che si gioca su diversi tavoli: quello internazionale, dove la Germania ha già vinto – non 7 a 1 – ma 12 a 3 (questa la maggioranza con cui i giudici hanno votato la sentenza del 3 febbraio 2012 che riconosceva sussistente l’immunità internazionale nel caso in discussione); sul tavolo della Corte europea dei diritti dell’uomo, che soltanto il 14 gennaio scorso aveva ritenuto sussistente l’immunità internazionale in un caso simile (Jones v. UK) e sui tanti tavoli nazionali che potrebbero aprirsi ove altri Stati seguissero la strada della Corte costituzionale.

E questo è un altro punto sul quale merita e meriterà porre attenzione. Tra i nuovi tavoli che potrebbero aprirsi potrebbe esserci il tavolo libico, ove i discendenti di coloro che furono vittime di crimini contro l’umanità per mano dei soldati italiani potrebbero essere ora indotti a portare l’Italia davanti al giudice civile per ottenere il risarcimento dei danni? E il tavolo tedesco, ove i milioni di tedeschi espulsi dalla Polonia nell’immediato secondo dopoguerra potrebbero essere indotti a chiedere i danni ai vicini polacchi? La Corte pone chiaramente attenzione a puntellare i suoi argomenti con specificità che non li rendano circolabili con troppa disinvoltura (deve trattarsi di gravi violazioni dello ius cogens, non deve esservi altro rimedio, gli illeciti devono essere accertati dalla CIG stessa…), ma non è detto che ciò sia sufficiente a impedire che letture accomodanti conducano a radicare azioni di risarcimento fino ai discendenti del povero Abele.

Aver aperto un nuovo tavolo proprio su una partita già recentemente persa, direttamente o indirettamente, per ben due volte (e su tavoli pesanti come quello della CIG e della Corte EDU) comporta quantomeno dei rischi.

Qui c’è un altro punto che può qualificare il dibattito. Il fatto che la Corte costituzionale abbia scelto di correre tale rischio nella difesa di principi – quali la tutela giurisdizionale e i diritti inviolabili dell’uomo – verso i quali l’ordinamento costituzionale italiano non registra una posizione di particolare sensibilità distingue questo caso da esempi in qualche modo simili di rivendicazione di sovranità costituzionale, quale l’Identitätskontrolle di cui al Lissabonurteil del Bundesverfassungsgericht (evocato, quanto ad audacia della decisione, nel commento di Passaglia). In quel caso il tribunale costituzionale federale tedesco ha voluto affermare una peculiarità dell’ordinamento costituzionale tedesco, e della sua tradizione costituzionale. In questo caso le cose stanno diversamente: il diritto alla tutela giurisdizionale, così come i diritti inviolabili dell’uomo e la tutela della dignità umana non sono patrimonio particolare del solo ordinamento italiano. Nel caso di specie, ironia della sorte, è vero semmai il contrario: proprio la tutela della dignità umana è fondamento ultimo del Grundgesetz e assume una posizione del tutto particolare in quell’ordinamento. La cacofonia ordinamentale non è perciò determinata dallo spartito. Diritto alla tutela giurisdizionale, tutela dei diritti umani, tutela della dignità umana sono note che si leggono negli spartiti degli ordinamenti costituzionali italiano e tedesco, dell’UE e dell’ordinamento internazionale. Ciononostante la cacofonia esiste, come testimoniato dalla stessa CIG che nella sua sentenza del 2012 aveva fatto chiaramente intendere che il sussitere dell’immunità non cambiava di una virgola la necessità di provvedere alla riparazione dei danni dei ricorrenti.

C’è infine un altro tavolo, che sta fuori dalle Corti, e che la stessa CIG aveva indicato e ci porta verso l’ultimo punto cospicuo che prendo in esame in queste pagine: quello del negoziato bilaterale («[the Court] considers however that the claims arising from the treatment of the Italian military internees referred to in paragraph 99, together with other claims of Italian nationals which have allegedly not been settled — and which formed the basis for the Italian proceedings — could be the subject of further negotiation involving the two States concerned, with a view to resolving the issue», punto 104 della sentenza citata). Dopo la sentenza della Corte costituzionale quello sembra ancora – e anzi a maggior ragione – essere l’unico tavolo dove la questione può davvero trovare una soluzione effettiva. Se la sentenza della Corte costituzionale italiana possa rappresentare un incentivo alle parti in causa a seguire la strada già indicata dalla CIG, o se invece si tratterà di un azzardata mossa su uno scacchiere, apparentemente assai sfavorevole in partenza lo si vedrà relativamente presto. Certamente prima del formarsi di una nuova consuetudine in materia di immunità degli Stati esteri dalla giurisdizione civile per gli atti compiuti iure imperii.

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