La condizionalità nell’Unione, i carrarmati fuori dell’Unione

La Corte di giustizia, con una coppia di sentenze “manifesto” pronunciate lo scorso 16 febbraio 2022, ha respinto i ricorsi di Ungheria e Polonia, con i quali i due stati membri, spesso tristemente accomunati da simili destini nella recente storia dell’Unione, contestavano la legittimità del regolamento 2020/2092, chiedendone l’annullamento.
I ricorsi, assai articolati, fondavano le loro doglianze su una lunga serie di ragioni giuridiche, che includevano il difetto di competenza ad adottare il regolamento; la violazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità; la violazione dell’art. 296, par. 2, TFUE per insufficiente motivazione del regolamento 2020/2092; la violazione dell’art. 269, par. 1, TFUE, stante il fatto che il regolamento, strumento di diritto derivato, avrebbe definito il concetto di Stato di diritto, di cui alla fonte di diritto primario contenuto nell’art. 2 TUE; la violazione dell’art. 7 TUE, il cui meccanismo di protezione dei «valori» fondamentali dell’Unione sarebbe stato eluso da un meccanismo avente il medesimo obiettivo; la violazione dell’art. 4, parr. 1 e 2, seconda frase, e dell’art. 5, par. 2, TUE; la violazione dell’art. 4, par. 2, prima frase TUE, recante il principio della parità di trattamento.
La coppia di pronunce gemelle si appresta a essere oggetto di un flusso alluvionale di commenti, per i tanti aspetti che tratta e per le tante impegnative prese di posizione che la Corte di giustizia ha assunto, o per le sue eventuali mancate prese di posizioni ancora più nette, a seconda della prospettiva che vorranno adottare i diversi commentatori (a prima lettura già Baraggia, Mori, Pech, Sacchetti, Salmoni, Drinóczi e Faraguna).
Con questo breve commento, vorremmo limitarci a mettere sul tavolo del dibattito alcune considerazioni che emergono sull’utilizzo del meccanismo della condizionalità a tutela dei principi dello Stato di diritto, per collocarli – da una parte – in “retrospettiva”, guardando a quella che è stata la giurisprudenza sovranazionale in materia, anche sulla base dell’esperienza della Commissione di Venezia, e in “prospettiva”, guardando ai drammatici sviluppi che interessano i confini esterni dell’Unione.
Al centro del conflitto riguardante Polonia e Ungheria e deciso con le sentenze in commento sta il principio dello Stato di diritto, il cui rispetto la Corte Europea di giustizia vede come oggetto di un obbligo di risultato per gli Stati membri dell’Unione Europea che discende direttamente dalla loro adesione all’Unione stessa. Che si parli di obbligo di risultato è sintomo interessante dell’idea che la Corte ha dell’entità e ampiezza dell’obbligazione ricadente sugli Stati. Essa non costruisce quest’obbligo in termini assoluti e stringenti, ma ammette che – come sempre di fronte ad un principio – nell’adempiervi gli Stati godono di una qualche discrezionalità anche in considerazione delle peculiarità del loro proprio sistema giuridico.
La flessibilità di questo atteggiamento va tuttavia letta tenendo in considerazione l’utilizzo che la Corte fa del canone di condizionalità che è visto come il motore di un meccanismo volto a saggiare l’osservanza del principio dello Stato di diritto da parte degli Stati. Gli Stati membri hanno dovuto sottostare agli effetti di quel meccanismo all’atto della loro adesione all’Unione, nel senso che la loro candidatura poteva trovare accoglimento se, e alla condizione che i loro ordinamenti giuridici soddisfacessero i requisiti previsti dai Trattati, e in primis – per quanto qui interessa – il principio dello Stato di diritto. Nella presente vicenda il meccanismo di condizionalità veniva chiamato a operare a valle dell’adesione senza avere l’ampiezza di allora in quanto esso era volto a garantire il rispetto del detto principio ai soli circoscritti e limitati fini della corretta e legittima gestione dei bilanci degli Stati interessati in vista della fruizione del beneficio di finanziamenti provenienti dal bilancio dell’Unione. In questa specifica circostanza l’Unione non pretende – dice la Corte – di sottoporre a giudizio l’identità nazionale degli Stati nel suo complesso né di riproporre nei termini del tempo dell’adesione l’operatività del meccanismo di condizionalità a pena della rottura del rapporto con l’Unione. L’Unione a tutela della sua stessa identità, cui la Corte da particolare risalto, pretende invece che le istituzioni degli Stati soddisfino, per esigenze limitate e circoscritte, l’obbligo di risultato che grava sugli Stati in materia di Stato di diritto.
A tale riguardo la Corte esclude che il vincolo al principio dello Stato di diritto non soddisfi quelle esigenze di certezza che la giurisprudenza della stessa Corte esige proprio a garanzia dell’osservanza del principio dello Stato di diritto, nel senso che la regolamentazione dei rapporti fra Unione e Stati deve passare attraverso norme chiare e precise la cui applicazione porti a risultati prevedibili. Citando documenti ben noti  ben noti della Commissione di Venezia (tra i quali il Rule of Law Report e la Rule of Law Checklist),  la Corte afferma che quello che è uno dei principi ordinamentali fondamentali dell’Unione non solo è agevolmente ricostruibile partendo da altri principi dell’Unione egualmente citati in apertura dei Trattati, ma ha la sua fonte in valori comuni ed applicati anche dagli Stati membri nei loro ordinamenti. Il che consente di concludere che non ci troviamo di fronte al frutto di fantasiose elaborazioni di scelte politiche degli operatori costituzionali dell’Unione, ma al risultato di processi interpretativi che affidano alle tecniche proprie del legal reasoning l’individuazione dei principi fatti propri dall’ordinamento dell’Unione e dagli Stati membri accettati sulla scorta delle tradizioni comuni che legano questi stessi Stati membri. Ciò avviene, infatti, con argomentazioni di progressiva generalizzazione sempre riscontrabili quando si ragiona della individuazione di principi generali del diritto (sul punto ci sia consentito rinviare a Bartole).
Il meccanismo condizionale posto a tutela del principio dello Stato di diritto può certo avere i suoi difetti e i suoi malfunzionamenti che, tuttavia, vanno considerati nell’ambito della funzione costituzionale fondamentale che tale meccanismo assume, ossia vigilare sul rispetto delle condizioni che la limitazione di sovranità cui gli stati hanno acconsentito a partire dal secondo dopoguerra.
Non si può perdere questo punto di partenza nell’analizzare il meccanismo e nel denunciarne difetti e malfunzionamenti: gli sviluppi più recenti che interessano i confini dell’Unione (e, forse non a caso, proprio i confini di Ungheria e Polonia) ahinoi aiutano a ricordarlo in modo particolarmente drammatico. Polonia e Ungheria, uscendo dal patto di Varsavia, hanno consapevolmente accettato di limitare la loro sovranità aderendo all’Unione, e conformando le loro strutture costituzionali a tali limitazioni di sovranità.
I fatti di Ucraina provano meglio di ogni analisi giuridica per quale ragione il prezzo di questa “nuova” limitazione di sovranità fosse considerato un prezzo congruo da pagare, anche per quegli Stati che solo dopo il crollo del muro di Berlino sembravano avere finalmente ottenuto una piena capacità di autodeterminarsi nelle relazioni internazionali.
Queste considerazioni, tuttavia, potrebbe indurre a ritenere frettolosamente che la crisi Ucraina andrebbe risolta con un istantaneo ingresso del paese aggredito nell’Unione europea. Tuttavia, proprio gli sviluppi ungheresi e polacchi sembrano suggerire che questa sarebbe una strada scellerata, e in tal senso sembrano essere rassicuranti le prime reazioni dei vertici delle istituzioni europee.
La condizionalità, infatti, è efficace e nasce innanzitutto nel processo di adesione alle organizzazioni internazionali e sovranazionali, e proprio mentre si attribuiscono nuove missioni allo strumento, è ancor più importante che la condizionalità si prenda sul serio nel suo contesto naturale, ossia il processo di adesione all’Unione.
Semmai, l’uso “nuovo” che di quello strumento emerge dalle vicende qui commentate, testimonia, a nostro avviso, uno sviluppo divenuto inescapabile a causa dell’impercorribilità del meccanismo di tutela “politica” dei principi fondamentali dell’Unione di cui all’art. 7 TUE, paralizzato dalla regola dell’unanimità.
Come ci insegna la storia e la comparazione, quando un meccanismo costituzionale rimane paralizzato per troppo tempo, le esigenze che avrebbe dovuto servire trovano altro spazio nella creatività dell’ordinamento. La sorte dell’art. 7 TUE ci ricorda in certa parte quella dell’articolo V della Costituzione degli Stati Uniti del 1787. L’articolo V disciplina, o meglio avrebbe dovuto disciplinare la revisione costituzionale, e affida agli Stati federati una posizione fortissima di opposizione a qualunque ipotesi di revisione. Il meccanismo, nato all’interno di un assetto federale assai più periferico, ha finito per essere sostituito da meccanismi diversi per garantire l’adeguamento della Costituzione federale a mutate esigenze sociali, economiche e politiche (concretizzandosi tali meccanismi in quelle trasformazioni costituzionali che Bruce Ackerman ha così ben descritto nella sua celebre trilogia: I II III). Ciò è avvenuto principalmente a causa della sua inidoneità a consentire modifiche della Costituzione che fossero idonee a garantire un assetto assai più centralizzato dei rapporti tra centro e periferia.
In modo non dissimile, l’art. 7 TUE, a causa della palese inidoneità del meccanismo ivi regolato a raggiungere il suo scopo di tutela dei principi fondamentali dell’Unione, sembra essere ineluttabilmente destinato all’anacronismo costituzionale, e a presidio di quelle esigenze si è finito per ricorrere ad altri metodi: in questo snodo, in particolare, attraverso un ricorso straordinariamente forte alla condizionalità.
Ciò non significa che la Corte di giustizia abbia voluto eludere l’art. 7 TUE, e abbia così indebolito la vigenza dei Trattati. Tutt’al contrario, ci pare che la Corte di giustizia abbia approcciato il tema con un’apprezzabile elevazione del tono costituzionale del suo ragionamento. Ciò emerge in maniera particolarmente netta nella parte in cui la Corte, per la prima volta in modo tanto esplicito, si riferisce all’identità costituzionale dell’Unione. Il concetto di identità costituzionale negli ultimi decenni è stato sempre più soggetto a forti manipolazioni interpretative da parte di attori politici e Corti di alcuni Stati membri, tanto da aver indotto qualcuno a ritenerlo un concetto ineluttabilmente pericoloso e da respingere. La Corte di giustizia è intervenuta con fermezza per porre strumenti interpretativi utili ad arginare quelle manipolazioni, mediante un’interpretazione normativa del concetto di identità costituzionale (e di Costituzione in generale). La Corte di giustizia, nelle pronunce in commento, ha adottato un approccio autenticamente pluralista, ponendo la tutela delle identità costituzionali degli Stati membri sullo stesso piano costituzionale della tutela dei principi fondamentali dell’Unione, che ne connotato la sua identità costituzionale. In altre parole, ha giustamente escluso che sotto la bandiera della tutela dell’identità costituzionale di Ungheria e Polonia possano essere fatte passare violazioni dei principi fondamentali dello Stato di diritto. La Corte di giustizia ha affermato ciò che qualunque autentica Corte costituzionale dovrebbe affermare: che le identità costituzionali vanno protette finché siano identità… costituzionali, e non identità “incostituzionali”.


Roma locuta, Taricco finita

“Per questi motivi … la Corte costituzionale dichiara non fondate le questioni sollevate”. La sentenza n. 115 del 2018 ha scritto l’ultimo capitolo della saga Taricco, con una decisione ormai prevedibile nel suo esito. La Corte di giustizia si era infatti espressa in senso largamente accomodante (sentenza del 5 dicembre 2017, causa c-42/17, M.A.S. M.B.) sul rinvio pregiudiziale promosso dalla stessa Corte costituzionale (ordinanza 24/2017), offrendo le condizioni di una pace giurisdizionale assai vantaggiosa. Le tappe precedenti della saga sono note e qui ci limitiamo a riprenderle assai schematicamente: la Corte di giustizia, sollecitata dal Tribunale di Cuneo in sede di rinvio pregiudiziale, aveva dapprima (sentenza dell’8 settembre 2015, causa c-105/14, c.d. Taricco I) ritenuto che le norme del Trattato ostassero all’applicazione della normativa italiana sul computo dei termini massimi della prescrizione per alcuni reati potenzialmente lesivi degli interessi finanziari dell’Unione. La Corte di giustizia aveva in quell’occasione determinato quella che la Corte costituzionale chiama, nell’ultima sentenza della saga, “regola Taricco”. A norma della regola Taricco, il giudice comune era chiamato a disapplicare la normativa nazionale sulla prescrizione qualora questa impedisse di infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione, o in cui preveda, per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dello Stato membro interessato, termini di prescrizione più lunghi di quelli previsti per i casi di frode che ledono gli interessi finanziari dell’Unione. La sentenza Taricco I aveva indotto alcuni giudici italiani a chiamare in causa la Corte costituzionale, ritenendo che l’applicazione della “regola Taricco” conducesse a una violazione del principio di legalità in materia penale, ovvero di un principio facente parte dell’identità costituzionale, e perciò resistente al primato del diritto dell’Unione. La questioni di legittimità costituzionale promosse da diversi giudici, tra cui anche la Corte di Cassazione, avevano infuocato il dibattito tra gli addetti ai lavori in Italia – assai meno al di fuori dei confini nazionali – dividendo la dottrina tra chi riteneva doveroso che la scure dei controlimiti calasse immediatamente per mano dei giudici della Corte costituzionale italiana, e chi invece riteneva non si fosse di fronte a una violazione di un principio supremo dell’ordinamento. La Corte costituzionale aveva infine adottato una strada intermedia, sottoponendo un nuovo rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia con il quale si metteva quest’ultima nelle condizioni di disinnescare il potenziale conflitto con l’identità costituzionale italiana, offrendo alla Corte di giustizia una ricomposizione interpretativa del conflitto che conducesse a esiti compatibili con i principi supremi dell’ordinamento italiano. La Corte di giustizia, con la sua seconda sentenza della saga (sentenza del 5 dicembre 2017, causa c-42/17, M.A.S. M.B. nota anche come Taricco II), ha teso la mano alla Corte costituzionale italiana, sostanzialmente benedicendo la ricomposizione interpretativa prospettata dai giudici romani e facendo molti passi indietro rispetto al punto cui era giunta con la sentenza Taricco I.
Rinviando ad altra sede considerazioni più approfondite sui termini della “riappacificazione” tra Corte costituzionale e Corte di giustizia, qui ci si limita a osservare come il riallineamento della giurisprudenza della Corte di giustizia sia passato attraverso un progressivo riavvicinamento dei parametri di giudizio. In questa operazione le argomentazioni attorno all’identità costituzionale hanno certamente giocato un ruolo importante, che però non è il caso di enfatizzare esageratamente. Da un parte, infatti, la Corte costituzionale aveva chiarito nella sua ordinanza di rinvio che “il principio di legalità penale riguarda anche il regime della prescrizione” (ord. 24/2017, punto 4), valorizzando una caratteristica senz’altro peculiare dell’ordinamento giuridico italiano, nel quale la “Costituzione italiana conferisce al principio di legalità penale un oggetto più ampio di quello riconosciuto dalle fonti europee” (ivi, punto 8). Dall’altra parte nella stessa ordinanza di rinvio la Corte costituzionale aveva sottoposto alla Corte di giustizia la necessità di valutare il rispetto del principio di determinatezza, offrendo alla Corte di giustizia di ragionare su un terreno più familiare al diritto dell’Unione, terreno che nella sentenza Taricco I era stato trascurato, ovvero il requisito della determinatezza delle norme penali. In quel frangente, la Corte costituzionale aveva ipoteticamente ragionato a prescindere dalla ricostruzione della natura della prescrizione (“anche se si dovesse ritenere che la prescrizione ha natura processuale…”, punto 9), osservando come l’attività del giudice chiamato ad applicare le norme sulla prescrizione deve comunque dipendere da disposizioni legali sufficientemente determinate, e rimarcando quanto questo principio non fosse un elemento peculiare dell’ordinamento italiano, bensì un “tratto costitutivo degli ordinamento costituzionale degli Stati membri di civil law”. La riformulazione della questione in questi termini ha offerto alla Corte di giustizia la possibilità di ragionare in termini parzialmente diversi rispetto ai profili che erano già stati presi in considerazione nella sentenza Taricco I. In virtù di questo supplemento argomentativo, la Corte di giustizia ha potuto ri-considerare la questione sotto al triplice profilo della irretroattività, prevedibilità e determinatezza della regola Taricco, finendo per accogliere la rilettura della Corte costituzionale sotto a tutti e tre i profili.
La Corte di giustizia aveva colto al balzo la possibilità di muoversi entro il perimetro del diritto europeo, evitando assai saggiamente di cimentarsi con le specificità dell’identità costituzionale italiana, nonostante in quella direzione puntassero le improvvide conclusioni dell’avvocato generale Bot. Muovendosi sul labile confine che separa overruling e distinguishing, la Corte di giustizia aveva valorizzato in modo significativo la nuova prospettazione delle questioni che derivava dalla Corte costituzionale, e che – rispetto al rinvio pregiudiziale del Tribunale di Cuneo – aveva permesso di fare emergere problematiche prima invisibili. In questo modo la Corte di giustizia ha reso evidente quanto, all’interno delle dinamiche del c.d. dialogo tra Corti spesso pervaso dal dilemma del diritto “all’ultima parola”, possa essere invece cruciale il “diritto alla prima parola”, ovvero la capacità di impostare i termini del conflitto. Accostando le sentenze Taricco I e Taricco II della Corte di giustizia si rende evidente infatti come il diverso confezionamento della medesima questione, nonché la diversa autorevolezza del giudice che promuove il rinvio pregiudiziale, possano essere fattori che determinano esiti radicalmente diversi delle questioni stesse.
La riconsiderazione dell’impatto della regola Taricco rispetto a tali parametri dava luogo a una “regola Taricco II” piuttosto macchinosa: la Corte di giustizia non aveva infatti rinunciato a riaffermare la vigenza della regola Taricco I (ovvero: disapplicare le norme sulla prescrizioni alle condizioni ivi specificate), “a meno che una disapplicazione siffatta comporti una violazione del principio di legalità dei reati e delle pene a causa dell’insufficiente determinatezza della legge applicabile, o dell’applicazione retroattiva di una normativa che impone un regime di punibilità più severo di quello vigente al momento della commissione del reato” (Taricco I, para. 62). Paradossalmente, la Corte di giustizia riaffermava la vigenza di una regola ritagliata per l’ordinamento italiano e contestualmente confermava alla Corte costituzionale che la regola stessa doveva non ritenersi applicabile… nell’ordinamento italiano.
A ben vedere, in realtà, tra l’affermazione della regola della disapplicazione in Taricco I, e l’affermazione dell’eccezione alla disapplicazione in Taricco II, rimaneva qualche interstizio problematico. La Corte di giustizia aveva infatti trattato diversamente la violazione del divieto di irretroattività rispetto alla violazione del requisito della determinatezza, per quanto si trattasse pur sempre di emanazioni del principio di legalità. Infatti, la Corte di giustizia aveva chiarito che soltanto “in virtù del divieto di retroattività in malam partem della legge penale, la ‘regola Taricco’ non può essere applicata ai fatti commessi anteriormente alla data di pubblicazione della sentenza che l'ha dichiarata”, trattandosi di “un divieto che discende immediatamente dal diritto dell'Unione e non richiede alcuna ulteriore verifica da parte delle autorità giudiziarie nazionali” (sentenza Taricco II, para. 60); per ciò che concerne il principio di determinatezza, la Corte di giustizia aveva invece ritenuto che spettasse al giudice nazionale verificare se la verifica della sussistenza delle condizioni per l’operare della regola Taricco I (l’impedimento a infliggere sanzioni effettive e dissuasive in un numero considerevole di casi di frode grave che ledono gli interessi finanziari dell’Unione) conducesse a una situazione di incertezza nell’ordinamento giuridico incompatibile con il principio di determinatezza.
In altre parole, la “regola Taricco II” consisteva in un’automatica deroga alla regola Taricco I nel caso in cui l’applicazione di quest’ultima avesse effetti retroattivi in malam partem, mentre necessitava di una verifica del giudice nazionale per ciò che concerne il rispetto del principio di determinatezza.
A rigore, questa formulazione della regola Taricco II poteva essere più che sufficiente a offrire le adeguate rassicurazioni alla Corte costituzionale. Quest’ultima aveva infatti “chiesto conferma” (esplicitamente in questi termini: ord. 24/2017, punto 7) di poter disapplicare la regola Taricco I (ovvero: disapplicare la… disapplicazione della normativa sulla prescrizione), qualora avesse effetti lesivi dei principi supremi dell’ordinamento, circostanza già inequivocabilmente accertata dalla Corte stessa nella sua ordinanza di rinvio.
La Corte costituzionale avrebbe infatti potuto persino dichiarare le questioni inammissibili per difetto di rilevanza: tutti i casi da cui originavano le questioni di legittimità costituzionale riguardavano fatti antecedenti la pronuncia Taricco I, e perciò casi nei quali la sentenza Taricco II escludeva la disapplicazione senza lasciare nessun margine di interpretazione al giudice nazionale. La Corte costituzionale avrebbe pertanto potuto semplicemente prendere atto di questa sopravvenuta specificazione e del relativo automatismo, e rimettere gli atti ai giudici che avevano sollevato le questioni di legittimità costituzionale, affinché questi prendessero – automaticamente – a loro volta atto della specificazione della Corte di giustizia. La Corte costituzionale è stata invece di diverso avviso, e mediante un’elegante forzatura del requisito della rilevanza, ha chiarito che ragionare nei termini sopra descritti “significherebbe comunque fare applicazione della ‘regola Taricco’, sia pure individuandone i limiti temporali”, mentre la Corte riteneva che “indipendentemente dalla collocazione dei fatti, prima o dopo l’8 settembre 2015, il giudice comune non può applicare loro la ‘regola Taricco’, perché essa è in contrasto con il principio di determinatezza in materia penale, consacrato dall’art. 25, secondo comma, Cost.”. In altre parole, la Corte costituzionale ha fatto un passo in più rispetto a Taricco II: la regola Taricco I non solo è inapplicabile retroattivamente, ma è inapplicabile tout court. Il che equivale a dire che, con la sua sentenza finale, la Corte costituzionale ha voluto affermare che nell’ordinamento italiano è inapplicabile tanto la “regola Taricco I”, quanto la “regola Taricco II”.
Non è un passo in più di poco conto, seppure venga elegantemente edulcorato da una motivazione elegantemente dialogante. Cominciando dalla coda, si legge uno sforzo assai chiaro di sgombrare il campo da possibili fraintendimenti dello spirito con cui la Corte costituzionale ha ingaggiato questo confronto con la Corte di giustizia: nell’ultimo paragrafo del considerato in diritto si legge infatti che “l’inapplicabilità della ‘regola Taricco’ […] ha la propria fonte non solo nella Costituzione repubblicana, ma nello stesso diritto dell’Unione” (sent. 115/2018, para 14 c.i.d.). Non siamo perciò di fronte all’applicazione di controlimiti costituzionali, ma tutt’al contrario di fronte alla “scoperta” di un’irenica convergenza tra ordinamento costituzionale e ordinamento europeo. A questa scoperta ha condotto l’identità costituzionale, ma soltanto come grimaldello ermeneutico che ha permesso di estrarre anche dall’ordinamento dell’Unione le ragioni giustificative della limitazione dell’applicazione della (o meglio, dell’impossibilità di applicare la) regola Taricco I.
A impedire del tutto l’applicazione della regola Taricco I vi è infatti il radicale “deficit di determinatezza” (sent. 115/2018, para. 11) che caratterizza sia la regola Taricco I “in sé” (ibidem), sia “l’art. 325, paragrafi 1 e 2 TFUE” (ibidem), ovvero la disposizione del Trattato sulla base della quale la Corte di giustizia aveva estratto la regola Taricco I. La regola Taricco I è infatti “irrimediabilmente indeterminata nella definizione del ‘numero considerevole di casi’ in presenza dei quali può operare, perché il giudice penale non dispone di alcun criterio applicativo della legge che gli consenta di trarre da questo enunciato una regola sufficientemente definita” (sent. 115/2018, para. 11). E, “ancor prima, è indeterminato l’art. 325 TFUE, per quanto qui interessa, perché il suo testo non permette alla persona di prospettarsi la vigenza della ‘regola Taricco’” (ibidem).
Questo deficit di determinatezza pesa nella duplice direzione di privare il destinatario della norma della certezza della prevedibilità delle conseguenze penali delle proprie azioni, nonché della necessaria conformità alla legge dell’attività giurisdizionale, resa possibile soltanto mediante la produzione di regole adeguatamente definite per essere applicate. Segue una glorificazione della centralità del principio di determinatezza nel diritto penale che –come osservato dai commentatori più attenti già negli episodi precedenti della saga – non è poi così frequente leggere nella giurisprudenza “interna” della Corte costituzionale, ma che in questo caso viene opposta fieramente extra moenia, rimarcandone la riconducibilità di questa lettura con la tradizione giuridica continentale.
C’è probabilmente un’ottima ragione per cui la Corte costituzionale ha preferito non imboccare la strada minimalista, ma valutare piuttosto tutti i profili della questione, compresi quelli che riguardavano il rispetto del principio di determinatezza, sebbene l’accertamento degli effetti retroattivi in malam partem avrebbe potuto essere sufficiente a risolvere le questioni pendenti. La regola Taricco II, come si è visto, prevedeva un vaglio del giudice nazionale per la valutazione del rispetto del principio di determinatezza. In virtù di tale vaglio, la regola poteva avere l’effetto di affidare al giudice comune la valutazione sulla compatibilità del diritto dell’Unione con un principio supremo dell’ordinamento. In tal modo si sarebbe finito per diffondere il sindacato di compatibilità con i principi supremi dell’ordinamento, contravvenendo a uno dei pochi punti fermi della giurisprudenza della Corte costituzionale in materia di controlimiti, ovvero il carattere rigorosamente accentrato di tale controllo. La Corte costituzionale ribadisce in questa sentenza con fermezza che spetta invece a essa stessa “in via esclusiva il compito di accertare se il diritto dell’Unione è in contrasto con i principi supremi dell’ordine costituzionale e in particolare con i diritti inalienabili della persona” (sent. 115/2018, punto 8), riprendendo non soltanto quanto già affermato nell’ordinanza di rinvio pregiudiziale. Questa posizione non soltanto è in linea con quanto sostenuto negli altri segmenti di giurisprudenza sui controlimiti (così, ad esempio, su controlimiti e diritto internazionale consuetudinario, nella sentenza 238/2014, punto 3.2 c.i.d.), ma pare anche in linea con le recenti innovazioni sulla giurisprudenza sull’inversione della doppia pregiudizialità in caso di asserite violazioni di diritti garantiti dalla Costituzione e della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (sent. 269/2017): in contesti diversi e con strumenti diversi, la Corte costituzionale pare comunque intenzionata a profondere uno sforzo deciso per rivendicare il suo centrale ruolo nella tutela dei principi e diritti fondamentali della Costituzione italiana.
L’approccio della Corte italiana non pare però limitarsi a una strategia meramente difensiva. La sentenza 115 ha anche uno slancio costruttivo, nella misura in cui contempla, eccome, la possibilità di un diritto penale europeo, allontanandosi in questo dalla chiusura del Tribunale costituzionale di Karlsruhe, che nel suo Lissabon-Urteil aveva ritenuto il diritto penale sostanziale materia off-limits per il diritto europeo. La sentenza della Corte costituzionale, invece, indirizza il diritto penale europeo verso una certa matrice continentale a base legislativa, intervenendo in un momento cruciale di sviluppo del diritto penale europeo.
In una certa misura, sorge anche il sospetto che l’intera saga Taricco fosse fondata su una certa plasticità della materia trattata, all’incrocio tra una competenza concorrente e l’esercizio soltanto parziale di primi passi di armonizzazione, nonché di una giurisprudenza – Taricco I – tutt’altro che consolidata. A queste condizioni, la resistenza del giudice costituzionale italiano poteva avere possibilità di successo ragionevoli. A ben vedere, le condizioni ricordano la posizione della Corte rispetto alla giurisprudenza della Corte EDU, e la discussa presa di posizione del 2015, con la quale la Corte aveva lasciato ai giudici comuni un margine di disobbedienza nel caso in cui si trovassero a maneggiare una giurisprudenza della Corte di Strasburgo non ancora consolidata.
Mutatis mutandis, la Corte costituzionale avrebbe azzardato una risposta altrettanto netta se si fosse trovata di fronte a una giurisprudenza consolidata della Corte di giustizia sulla lettura dell’articolo 325, e non invece di fronte a una prima, e invero piuttosto mal motivata sentenza della Corte di giustizia? Si entra qui nel terreno della mera speculazione, che ci è fortunatamente consentita dalla sede in cui ci esprimiamo: con questa cautela, ci sentiremmo di dire che la Corte costituzionale italiana avrebbe probabilmente – e giustamente – usato più prudenza ove si fosse trovata ad eccepire un’interpretazione consolidata del diritto dell’UE. D’altronde, calibrare la giurisprudenza rispetto allo stato di consolidamento interpretativo della giurisprudenza degli altri giudici è una pratica che la Corte costituzionale ha coltivato fin dalla dottrina del diritto vivente, seppur in tutt’altro contesto e a tutt’altri fini.
La sentenza che chiude la saga Taricco è quindi una pronuncia ricchissima di spunti di riflessione, e l’ultimo sul quale ci soffermiamo è indotto non tanto da quel che c’è, ma da quel che non c’è nella motivazione. Stupisce infine la scomparsa dall’ultimo capitolo di questa saga di ogni riferimento alle responsabilità cui è chiamato il legislatore. L’ordinanza che aveva promosso il rinvio pregiudiziale aveva fissato alcuni punti importanti in materia. Per quanto infatti si ritenesse che la regola Taricco fosse un’inammissibile forzatura interpretativa, la Corte costituzionale non aveva tuttavia ignorato i problemi di compatibilità del regime italiano sulla prescrizione rispetto al diritto dell’Unione. Nell’ordinanza 24 si legge infatti che “resterebbe in ogni caso ferma la responsabilità della Repubblica italiana per avere omesso di approntare un efficace rimedio contro le gravi frodi fiscali in danno degli interessi finanziari dell’Unione o in violazione del principio di assimilazione, e in particolare per avere compresso temporalmente l’effetto degli atti interruttivi della prescrizione” (punto 7). Su questo fronte, la Corte stessa segnalava la necessità di valutare se le novelle legislative successivamente apportate alla normativa in questione, ma non applicabili a fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge, fossero sufficienti a risolvere il problema di compatibilità con il diritto dell’Unione per il futuro. E, nel caso in cui l’esito di questa indagine fosse negativo, la Corte costituzionale stessa segnalava con decisione l’urgenza di un intervento del legislatore “per assicurare l’efficacia dei giudizi sulle frodi in questione” (punto 8).
Anche la Corte di giustizia, nella sua risposta alla Corte costituzionale, aveva ritenuto di chiamare in causa il legislatore. Nella misura in cui la CGUE aveva riconosciuto al giudice nazionale di non disapplicare le disposizioni del codice penale in questione, qualora la disapplicazione contrasti con il principio di legalità dei reati e delle pene, neppure qualora la disapplicazione consentisse di rimediare a una situazione nazionale incompatibile con il diritto dell’Unione, la medesima Corte di giustizia aveva chiarito che “spetta allora al legislatore nazionale adottare le misure necessarie” (punto 61). La Corte di giustizia aveva anzi chiarito che “spetta, in prima battuta, al legislatore nazionale stabilire norme sulla prescrizione che consentano di ottemperare agli obblighi derivanti dall’articolo 325 TFUE” (punto 41), chiarendo inoltre che “in linea generale” il fatto che il legislatore “proroghi un termine di prescrizione con applicazione immediata, anche con riferimento a fatti addebitati che non sono ancora prescritti, non lede il principio di legalità dei reati e delle pene” (punto 42).
La sentenza “finale” della Corte costituzionale è invece tutta racchiusa nel circuito giurisdizionale, e si risparmia qualunque considerazione sugli obblighi del legislatore a mettere mano a una materia nella quale le disfunzionalità vengono vanamente denunciate da molto tempo, e nel cui quadro la vicenda Taricco poteva rappresentare un buon motivo per indurre dall’esterno una riforma legislativa che evidentemente dall’interno ha difficoltà a essere realizzata. Il legislatore potrebbe però essere chiamato a intervenire dall’attivazione di una procedura di infrazione, che rimane a rigore una via percorribile, tanto più al termine di una saga nella quale tanto la Corte di giustizia, quanto la Corte costituzionale italiana hanno in fin dei conti riconosciuto che il regime della prescrizione in questione finisce per essere lesivo degli interessi finanziari dell’Unione europea. E al di là degli interessi finanziari dell’Unione, il legislatore avrebbe sufficienti ragioni di intervenire pensando agli interessi finanziari del bilancio italiano, la cui violazione si realizza in misura proporzionalmente assai maggiore, posto che soltanto una piccola parte dell’imposta evasa avrebbe finanziato il bilancio dell’Unione, e la parte rimanente avrebbe finanziato il bilancio nazionale, fornendo i necessari mezzi per dare concreta garanzia e tutela a quei diritti fondamentali per i quali la Corte costituzionale è giustamente preoccupata di ribadire il suo centrale ruolo di salvaguardia.


La saga Taricco a una svolta: in attesa della decisione della Corte Costituzionale

La sentenza con cui la Corte di Giustizia dell’Unione europea ha replicato all’ordinanza della Corte costituzionale italiana sul caso Taricco (C-42/17, M.A.S. e M.B.) è destinata ad assumere un rilievo centrale nei prossimi sviluppi dell’integrazione giurisdizionale europea. I contributi pubblicati nel Forum di discussione avviato dalla Rivista di diritti comparati riflettono sui principali nodi problematici di tale sentenza, anche in vista della prossima decisione della Corte costituzionale.


La sentenza del Bundesverfassungsgericht sul caso OMT/Gauweiler

Il Tribunale costituzionale federale tedesco (BVerfG), con la sua decisione del 21 giugno 20161 , ha adottato una sentenza mista di inammissibilità e rigetto dei ricorsi individuali diretti e del conflitto tra poteri aventi a oggetto il programma noto con l’acronimo OMT (“Outright Monetary Transactions”) della Banca Centrale Europea (BCE). Se questo dispositivo era abbastanza prevedibile, le motivazioni della sentenza scrivono comunque un’altra pagina importante di quella giurisprudenza “europea” del BVerfG che fin dalle sentenze della saga Solange ha avuto un ruolo cruciale nel processo di sviluppo dell’Unione europea. La sentenza è in tutto e per tutto un nuovo capitolo di quella narrazione, di cui adotta lo stile, non solo e non tanto per il volume della parte motiva, che si articola in 220 paragrafi e si avvicina per dimensioni al Lissabon-Urteil del 20092 , ma anche e forse soprattutto per l’ampiezza del respiro motivazionale.


Corte costituzionale e corte internazionale di giustizia: il diritto alla penultima parola (sulla sentenza 238 del 2014)

Con la sentenza n. 238 del 2014 la Corte costituzionale ha reso a tutti noto che la pistola dei controlimiti non solo è carica, ma spara davvero. La sentenza presenta innumerevoli sfaccettature, e altrettante incertezze quanto alle sue conseguenze. Di una sola cosa possiamo essere certi: sul caso pioverà un alluvione di commenti. La pronuncia è infatti idonea a richiamare attenzione da ogni settore del diritto: dai costituzionalisti agli internazionalisti, dai civilisti ai penalisti, dagli storici ai filosofi del diritto... Questo coefficiente moltiplicativo non renderà facile seguire la discussione in materia, e d’altro canto la renderà particolarmente interessante.

Su queste pagine le danze sono state aperte da Filippo Fontanelli e Paolo Passaglia, che non per caso hanno incrociato la prospettiva del diritto internazionale a quella del diritto pubblico. L’ambizione del contributo che aggiungo è perciò davvero limitata. A partire dai commenti già apparsi, che hanno aperto la discussione, emergono infatti già fin d’ora alcuni punti cospicui che probabilmente ritorneranno nei mille rivoli del dibattito che si svilupperà. Qui cercherò di ordinare alcuni di questi punti cospicui, aggiungendone forse qualcuno e niente di più, rinviando all’ottima sintesi di cui al commento di Filippo Fontanelli per i fatti di causa, e il contesto in cui si inseriscono.

Un primo punto appare comune ai due commenti, ed è assai saggio sotto al profilo metodologico. In due parole: usare prudenza. Posto che con le pistole ci si può fare assai male, è consigliabile approcciarsi con cautela alla pronuncia della Corte costituzionale. Prima di definire la sentenza storica, memorabile, epocale, vittoria-del-diritto-sulla-forza è preferibile capire che piega prenderanno gli eventi.

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