Ancora sul negazionismo, ma del genocidio armeno. Considerazioni a margine della sentenza della Grand Chambre nel caso Perinçek c. Svizzera (15 ottobre 2015).

Negare la qualifica di genocidio allo sterminio sofferto dal popolo armeno a partire dal 1915 costituisce una forma di incitamento all’odio e integra la diffusione di un’ideologia anti-democratica e antisemita cosi come negare Auschwitz?

No, ha detto il giudice di Strasburgo.

Con una pronuncia raggiunta con una maggioranza di dieci giudici, la Grand Chambre della Corte europea dei diritti dell’uomo (d’ora in avanti Corte Edu), il 15 ottobre 2015 ha confermato la violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (d’ora in avanti Cedu) da parte della Svizzera per la condanna inflitta a Doğu Perinçek, colpevole del reato di discriminazione razziale per aver affermato che il massacro degli armeni non poteva essere considerato un genocidio.

Tale pronuncia avrebbe dovuto dissipare molti dei dubbi legati alla “posizione privilegiata” della protezione della memoria dell’Olocausto, alcuni dei quali facevano ritenere l’esistenza di genocidi più o meno gravi e più o meno importanti, il cui riconoscimento era strettamente legato, secondo le critiche giunte tanto da storici, quanto da giuristi, a dinamiche legate alle lobby di potere in Europa.

Ma ricostruiamo tanto i fatti, quanto l’argomentazione – piuttosto ricca, anche se a tratti non condivisibile – sviluppata dal giudice europeo.


I fatti sono ormai notori: Perinçek, cittadino turco, storico e presidente del Partito Turco dei Lavoratori (partito di estrema sinistra) in alcune conferenze tenutesi in Svizzera tra maggio e settembre 2005, parlando dei crimini commessi nel 1915 e negli anni successivi dall’Impero Ottomano contro il popolo armeno, aveva contestato la qualificazione giuridica di tali fatti come genocidio. Secondo lo storico, il parlare di quegli avvenimenti come di un genocidio costituiva una “menzogna internazionale”, in quanto dietro agli stessi non vi sarebbe mai stata l’intenzione di distruggere il popolo armeno, quanto piuttosto esigenze di natura bellica.

Condannato dalle autorità svizzere in applicazione dell’art. 261 bis, alinea 4 del Codice penale svizzero, che punisce “Chiunque, pubblicamente, mediante parole, scritti, immagini, gesti, vie di fatto o in modo comunque lesivo della dignità umana, discredita o discrimina una persona o un gruppo di persone per la loro razza, etnia o religione o, per le medesime ragioni, disconosce, minimizza grossolanamente o cerca di giustificare il genocidio o altri crimini contro l’umanità”, Perinçek aveva proposto ricorso per violazione, tra gli altri, dell’art. 10 della Cedu.

La seconda sezione della Corte aveva accolto il ricorso, affermando che una condanna per negazionismo come quella imposta dalle autorità svizzere rappresentava una limitazione ingiustificata della libertà di espressione (sentenza Perinçek c. Svizzera, 17 dicembre 2013). Contro tale decisione il Governo svizzero presentò ricorso alla Grand Chambre, conformemente a quanto previsto dall’art. 43 della Cedu.

Un primo punto che mi pare degno di essere sottolineato, riguarda la delimitazione – un poco scivolosa – dell’ambito di competenza della Corte stessa, spesso accusata di volersi sostituire agli storici: la Corte sottolinea che non le spetta determinare se i massacri e le deportazioni di massa sofferte dal popolo armeno ad opera dell’Impero Ottomano a partire dal 1915 possano qualificarsi come genocidio. Tanto meno può entrare nel merito dell’opportunità politica di una normativa che, come l’art. 261 del Codice penale svizzero, prevede la punizione di coloro che per motivi di discriminazione razziale, etnica o religiosa disconoscono, minimizzano grossolanamente o cercano di giustificare il genocidio o altri crimini contro l’umanità. La Corte può solo valutare se nel caso concreto portato alla sua attenzione l’applicazione della normativa nazionale viola una delle disposizioni della Cedu e, con riferimento al caso di specie, deve verificare se la condanna di Perinçek è stata fatta in modo conforme all’art. 10 o no. Applicazione che evidentemente ha provocato una ingerenza nel diritto alla libera espressione del ricorrente.

Ripercorrendo le tappe del test elaborato fin dal caso Handyside (Handyside c. Regno Unito, del 7 dicembre 1976) per valutare la convenzionalità della limitazione nel godimento ed esercizio del diritto alla libera espressione che, come indicato nel secondo comma dell’art. 10, deve essere prevista dalla legge e costituire una misura necessaria in una società̀ democratica per il raggiungimento di uno dei fini specificamente indicati nel testo della norma, la Corte ha affermato che la condanna di  Perinçek aveva rispettato il principio della riserva di legge: secondo la Corte, infatti, il ricorrente avrebbe potuto prevedere in modo ragionevole le conseguenze legate alle sue dichiarazioni.

Inoltre, si trattava di una misura diretta a soddisfare un interesse legittimo, rappresentato dalla protezione dei diritti degli altri (escludendo invece la legittimità dell’altro fine proposto dal Governo svizzero: la difesa dell’ordine). In particolare, si sarebbe trattato – dice la Corte – dei diritti non tanto delle vittime dirette (dato che si tratta di fatti accaduti ormai un secolo orsono), quanto dell’intero popolo armeno i cui componenti, ed in particolare coloro che hanno vissuto direttamente o indirettamente la diaspora, hanno costruito la propria identità collettiva sull’essere stati vittima di un genocidio.

Fin qui nulla di nuovo. È nella valutazione della necessità di tale condanna in una società democratica che cominciano i dubbi. Per la prima volta in un caso di negazionismo e di limite alla libertà di espressione per casi di hate speech, la Corte propone che tale valutazione si compia avendo riguardo alla cornice disegnata dal bilanciamento tra l’art. 10 e l’art. 8: libertà di espressione, da un lato, e diritto alla vita privata e familiare, diretto a proteggere la dignità delle vittime, dall’altro. Tanto la Commissione europea quanto la Corte, anche se con alcune sfumature, hanno sempre applicato ai casi di negazionismo dell’Olocausto l’art. 17 della Cedu: la clausola di abuso del diritto. Tale disposizione, applicata direttamente o come criterio ermeneutico dei requisiti richiesti dall’art. 10, determinava uno sbarramento per il caso: non si entrava nel merito della questione, concludendo per l’inammissibilità del ricorso (si vedano, ex plurimis, della Commissione Edu, T. c. Belgio, 14 luglio 1983 e Otto E.F.A. Remer c. Germania, 6 settembre 1995 e della Corte Edu, Witzsch c. Germania, 20 aprile 1999).

Cornice che la Corte Edu usa per ricostruire il contesto nel quale le dichiarazioni di Perinçek dovevano essere considerate: si trattava di dichiarazioni rese in quanto politico, toccavano tematiche di pubblico interesse e, nelle parole e nei toni utilizzati, non vi era traccia alcuna di mancanza di rispetto o di odio nei confronti delle vittime.

E tali considerazioni sarebbero state sufficienti per convincerci ed escludere che l’intenzione di Perinçek fosse quella di discriminare o di incitare all’odio.

Ma la Corte, per rafforzare la sua posizione, ritiene doveroso sottolineare le differenze di trattamento rispetto alla negazione dell’Olocausto: oltre che essere cronologicamente più recente, con riferimento al genocidio nazista esiste una sorta di presunzione giurisprudenziale per ragioni legate a motivazioni contestuali e storiche, secondo la quale la sua negazione costituisce una forma di incitamento all’odio razziale. E tale presunzione è ancora più forte, in quegli Stati che hanno avuto una certa partecipazione in tali atrocità (come Austria, Belgio, Germania e Francia), i quali oggi sentono una speciale responsabilità morale nel prendere le distanze con diversi mezzi, inclusa la previsione di normative che puniscono varie forme espressive tra le quali la negazione del genocidio stesso.

Tale circostanza, dice la Corte, non si presenta nel caso di specie: da un lato, la Svizzera non ha ricoperto nessun ruolo, né diretto, né indiretto nel genocidio armeno e, dall’altro lato, il clima politico a livello di convivenza con i rappresentanti armeni non era teso né prima, né come conseguenza delle dichiarazioni di Perinçek. Ancora meno la sua condanna può essere giustificata facendo riferimento alla situazione politica in Turchia o alle obbligazioni internazionali assunte dal Governo svizzero. E ciò a maggior ragione se si considera che manca un consenso europeo circa l’adozione di normative che puniscono la negazione di determinati eventi storici.

Credo che si tratti di una decisione condivisibile nel merito, ma alcuni punti dell’argomentazione lasciano perplessi. Condivisibile è la considerazione secondo la quale, l’intenzione di Perinçek non era quella di incitare all’odio o di discriminare le vittime del genocidio, né di negare lo sterminio degli armeni e quindi la sua condanna penale era ingiustificata.

Meno convincente risulta la necessità che la Corte ha manifestato, al fine di rafforzare e forse giustificare la sua posizione, di sottolineare le differenze di trattamento rispetto al negazionismo dell’Olocausto. Si tratta di un’argomentazione che potrebbe farci ritenere che, anche nel caso in cui le dichiarazioni di Perinçek fossero state nel senso di negare in toto il genocidio armeno, senza semplicemente limitarsi a negare a quei fatti la qualificazione giuridica di genocidio, la soluzione proposta dalla Corte Edu non sarebbe stata poi tanto diversa.