«Tanto peggio per i fatti». Sipario sulla Presidenza Voßkuhle: il caso Quantitative Easing di fronte al Bundesverfassungsgericht

1.La scadenza del mandato dell’attuale Presidente del Bundesverfassungsgericht certo non passerà inosservata. Era Vicepresidente quando, da Presidente del Secondo Senato, firmò il Lissabon Urteil, avviando una fase di grande attivismo del Tribunale di Karlsruhe in materia europea (e non solo). I controlli di identità, nella forma dell’esame ultra vires e di identità in senso stretto, progressivamente si sono definiti e precisati, divenendo sempre più, potenzialmente, una minaccia anche per l’uso parallelo dei cataloghi così come delineatosi a partire da Solange II. In tal senso si può fare riferimento a una celebre decisione del dicembre 2015 su un mandato d’arresto europeo. Altra svolta, tutt’altro che indolore, fu la decisione di esercitare direttamente il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, prima nel caso OMT, poi nel caso QE, sempre con riferimento ad omissioni degli organi costituzionali interni in difesa delle prerogative della democrazia a livello statale e dello stato di diritto (o più esattamente del Rechtsstaat). Probabilmente, gran parte del problema è proprio a questa altezza: nella difesa “lancia in resta” della mittelbare Demokratie, secondo i paradigmi della Mittelbarkeitslehre, dimostrando continuamente una marmorea sfiducia non tanto verso la capacità dell’Unione di difendere i diritti fondamentali, ma di essere veramente democratica, in quanto e nella misura in cui strutturalmente e funzionalmente caratterizzata da vari deficit in tal senso.

A novembre, le affermazioni del Primo Senato nelle sue dirompenti decisioni sul diritto all’oblio devono aver rotto il già fragile equilibrio che reggeva la cautela che aveva in qualche modo guidato l’azione delle maggioranze nel Secondo Senato in questi anni, portando i giudici a ritenere colma la misura. Del resto, la forza, in particolare, della sentenza Recht auf Vergessen II è tale da suscitare, inevitabilmente, una reazione. In quelle decisioni, la difesa dei bilanciamenti intra-sistemici atterra sul desiderio di puntellare la dottrina della mittelbare Drittwirkung nazionale così come elaborata storicamente nella dogmatica tedesca. E se quella decisione è stata guardata in modo interlocutorio a livello europeo, troppi i dati da considerare in concreto nella esperienza di là da venire, essa appare segnata da una solida continuità proprio con l’idea di difendere il parallelismo tra i parametri. I controlli di identità, invece, come dimostra OMT, preludono a una chiara rottura di quel parallelismo, minando tale tutt’altro che armonica suddivisione di compiti e prospettando un assetto in cui gli atti di istituzioni europee possono ben essere parametrati a quei principi immodificabili del Grundgesetz che ne costituiscono l’identità costituzionale. In effetti, uno scenario più simile a Solange I che non a Solange II. Se il passato è solo il prologo, c’è molto da aspettarsi.

Nella decisione del 5 maggio (qui), come si dirà, il Tribunale afferma con veemenza come il modo in cui la Corte di Giustizia ha utilizzato il controllo di proporzionalità appare sostanzialmente privo di significato («im Grunde leerlaufen»), non garantendo un reale controllo sugli attori istituzionali coinvolti al punto da giustificare una rottura del principio di attribuzione. Sembrano, in definitiva, i due Senati seguire due strade almeno in parte divergenti e potenzialmente conflittuali, nella misura in cui il Secondo preferisce porre il parallelismo dei parametri in sordina, ampliando i casi sottoponibili a controllo di identità, mentre il Primo punta ad estendere il suo ruolo di costruttore comprimario di una solida Grundrechtsgemeinschaft, per quanto tutt’altro che pacificata e piena di ostacoli. Ma tutto ciò ci porterebbe troppo lontano.

Prima di entrare brevemente nel merito, ancora in via preliminare, tuttavia, è necessario richiamare un’altra recente decisione del BVerfG, Secondo Senato, meno commentata, ma non per questo meno problematica sul cammino dell’integrazione europea. È la pronuncia, del 13 febbraio, che aveva ad oggetto la legge di ratifica sul Tribunale dei brevetti: con essa, il BVerfG ha dichiarato l’incostituzionalità della legge impugnata in quanto non approvata con la maggioranza dei 2/3, così come prescrive l’art. 23 GG, equiparando quel Trattato che ne era alla base al trasferimento di diritti di sovranità, pur essendo solo collegato indirettamente al diritto europeo in senso stretto.

2.Tornando ai temi del nostro breve commento, dopo la sentenza Weiss del 2018 della Corte di Giustizia, che aveva ritenuto conforme al diritto dell’UE il QE, toccava ora di nuovo al BVerfG esaminare la compatibilità del Quantitative Easing con l’identità costituzionale tedesca. Per la metà di marzo era originariamente fissata la decisione. Poi, probabilmente vista l’emergenza sanitaria in atto e il fermento della BCE nel lancio del nuovo programma di acquisti di titoli di debito statale, la decisione è stata rinviata al 5 maggio: data di nascita di Karl Marx, ma soprattutto, ancora per poco, una data che ricade sotto la Presidenza di chi il controllo di identità lo ha plasmato e chiarito negli anni e che, adesso, lascia una Corte forse più debole nella sua volontà di potenza, per quanto abbia dimostrato di essere, appunto, potentissima. Del resto, in tedesco, Gewalt significa proprio sia violenza, sia potere.

Prima di tutto non può non osservarsi che nella sua decisione del 5 maggio, il Bundesverfassungsgericht si dimostra un giudice abituato, con le sue Urteilsverfassungsbeschwerden, a rimproverare gli altri attori giurisdizionali che esercitino in modo inappropriato la loro funzione sotto un profilo costituzionale. Come lascia trasparire l’art. 92 GG è un giudice in senso stretto, pur essendo anche organo costituzionale. La Corte di Giustizia, nell’ambito di un rinvio pregiudiziale, diventa così di fatto giudicabile nel suo processo argomentativo, al punto che l’esito del suo giudizio è considerato ultra vires. Qualcosa di simile, alla fine evitato, era accaduto nella celebre sentenza Honeywell del 2010 del Bundesverfassungsgericht. Quest’ultimo, in seguito, aveva fortemente ridimensionato il suo potere di esaminare autonomamente la correttezza della giurisprudenza europea, specialmente nel quadro dei ricorsi individuali per violazione del giudice naturale (art. 101 GG).

Nella decisione sul QE, tuttavia, i giudici di Karlsruhe passano dagli angoscianti “ja, aber” cui ci avevano abituato, a un rumoroso giudizio di incostituzionalità. Questa è una novità, non si può negarlo. Incostituzionalità, tuttavia, del tutto peculiare. Essa investe, infatti, non tanto, per ora, direttamente la politica monetaria della BCE, alla quale entro tre mesi è fatto onere di spiegare meglio in punto di proporzionalità le sue ragioni per superare una incostituzionalità al momento presunta (o meglio sospesa). È invece sicuramente ultra vires, come accennato, proprio la sentenza della Corte di Giustizia che, nel 2018, in ben trenta paragrafi (71-100), aveva cercato di dar conto dei motivi che rendevano proporzionate le eventuali ingerenze sulla politica economica del QE. Evidentemente tutto ciò non è bastato e, laddove la Corte di Giustizia è stata carente nel chiedere, ora la BCE deve rispondere al BVerfG. È chiaro che può decidere di non assecondare questo ordine. In tal caso, tutti si assumeranno le rispettive responsabilità: la BCE subendo l’immediata interruzione della partecipazione della Bundesbank al QE; il BVerfG accettando un eventuale procedimento di infrazione o comunque le possibili conseguenze della sua decisione per la Germania.

A quel riconoscimento all’attore istituzionale europeo, operato in Weiss, di «un ampio potere discrezionale» (Rn. 73; poi richiamato anche al Rn. 91), risponde il BVerfG con una forte stigmatizzazione nella decisione sul QE del peculiare esame meno intenso rispetto a quello condotto in altri ambiti analiticamente esaminati (si parla di una «Selbstbeschränkung des Gerichtshofs»). I giudici di Karlsruhe spiegano analiticamente, infatti, come andrebbe maneggiato senza meno il controllo in punto di proporzionalità perché sia compatibile con lo standard costituzionale tedesco. E pertanto il BVerfG ha ritenuto di chiarire, dettagliatamente, per quali ragioni gli effetti indiretti sulla politica economica rappresentano una sorta di male necessario, da contenere nei limiti della stretta necessarietà, rispetto al fine perseguito di politica monetaria e che tali effetti indiretti vanno tutti presi in considerazione, dandone conto in un bilanciamento complessivo. Sin dalla sentenza Pringle, del resto, la tensione tra le possibili interferenze tra le due politiche rappresenta un tema cruciale, la cui giustiziabilità andava in qualche modo resa operativa, anche perché tutto sommato proceduralizzabile e in fondo al di fuori di rigidi aut-aut.

Se con riferimento a un possibile “sviamento di potere” (artt. 119 e 127 TFUE), la Corte di Giustizia è avvisata del suo dovere di esercitare un controllo ben più penetrante sulle motivazioni prodotte dalla BCE, probabilmente rinnovando anche periodicamente un esame sulla permanenza delle condizioni che ne giustificano la proporzionalità, nell’esaminare la possibile violazione di un divieto di finanziamento monetario dei disavanzi statali (art. 123 TFUE) il BVerfG sembra accontentarsi, pur manifestando in più punti una certa insofferenza verso l’approccio accondiscendente della Corte di Giustizia, di quanto affermato in Weiss. Non vengono pertanto individuati i presupposti per accertare una violazione manifestamente evidente. Eppure, proprio qui, nelle pieghe di questi lunghi e tecnici passaggi, si annida un rischio ben più significativo: traslare le condizioni pensate per il vecchio QE, considerandole come le uniche che ne rendono ammissibile la compatibilità con i Trattati, sul nuovo, che in questa chiave appare decisamente problematico. Se fosse così, il prossimo ricorso individuale potrebbe avere effetti ben più radicali: insomma, in cauda venenum?

3.Si dice che Hegel, avvertito che era stato scoperto un pianeta tra Marte e Giove, abbia risposto, avendo sostenuto il contrario, che se i fatti non si accordano con la teoria, tanto peggio per i fatti. Appare immediato immaginare che il Tribunale di Karlsruhe abbia privilegiato la teoria alla realtà. Forse troppo. E, infatti, se si guarda al problema di come giuridicizzare e rendere sindacabile la tensione tra politica economica e politica monetaria, non può sottovalutarsi come tecnicamente la sentenza appaia di grande eleganza formale. Il possibile e temuto rilievo per cui questa sentenza del BVerfG potrebbe indebolire gli sforzi della Corte di Giustizia, in effetti quasi sola, nel quadro delle procedure di infrazione, nel difendere la Rule of Law (cfr. qui), ci porterebbe fuori strada, ma rappresenta senz’altro un altro argomento forte di chi sostiene che il principio realtà avrebbe meritato forse un po’ più di flessibilità, se non bastava la crisi economica in atto.

È probabile che il Bundesverfassungsgericht – oltre a ribadire che non è possibile mutualizzare il rischio tra stati, e probabilmente non sarebbe sufficiente neanche una semplice modifica del Grundgesetz essendo in gioco il 79 III sotto questo profilo – si sia limitato a chiarire che adesso ha uno strumento per controllare che quelle sovrapposizioni tra mezzi e fini, che di fatto consentono a una politica di avere ricaduta sull’altra, siano in qualche modo controllabili caso per caso. Del resto, difendendo il principio di attribuzione, si protegge, seppur senz’altro in modo colpevolmente asimmetrico, la democrazia rappresentativa statale.

Come spesso accade nella giurisprudenza tedesca, la Verhältnismäßigkeit rappresenta lo strumento ideale per raggiungere questo obiettivo. L’alto livello di giurisdizionalizzazione sul punto ha portato alla conclusione che alcune sovrapposizioni possono essere tollerabili. Ma se davvero è ammissibile considerare politica monetaria una azione che appare riferibile anche alla politica economica, l’intervento deve essere del tutto limitato, nel rapporto mezzi/fini, al minimo indispensabile. In un contesto in cui a livello sovranazionale la BCE, nonostante il dialogo monetario, appare senza dubbio godere di uno statuto di indipendenza non paragonabile a quelle banche centrali nazionali rispetto alle quali ogni parlamento, nel rispetto delle sue prerogative e delle norme costituzionali, può con legge intervenire a modificarne le responsabilità, serve un potere che si erga a “custode” dell’idea per cui l’Unione, a Trattati invariati, non è una Solidargemeinschaft, ma deve restare una Stabilitätsgemeinschaft. Se non lo fa la Corte di Giustizia, altri se ne occuperanno.

Ecco perché nella benevolenza della Corte di Giustizia sembra possibile individuare il vero bersaglio di questa decisione, per ora seria ma non ancora grave nelle sue implicazioni attuali. In tal modo, ancora una volta, il Tribunale si pone a baluardo della legalità e, in particolare, della legalità costituzionale, facendosi acceleratore delle “istanze controdemocratiche” che, a livello nazionale, rivendicano il loro diritto a partecipare affinché la responsabilità per l’integrazione, nel bene e nel male, venga realmente espletata da parte dei vari organi costituzionali coinvolti, garantendo, al di là della loro capacità di incidere in sede parlamentare, alle forze societarie e di minoranza di agire comunque in modo efficace (per un approfondimento, sul concetto di Controdemocrazia così come applicato in questi tornanti, se si vuole, qui).

Forse, in conclusione, qualcosa si è rotto. Forse questa decisione rappresenta una cesura o una manifestazione di forza e insofferenza. Sicuramente però il Tribunale eleva un monito alto e preciso a evitare sotterfugi e decidere finalmente di seguire “vie novelle”, senza avvantaggiarsi di clausole e codicilli, ma imponendo alla politica di assumersi di fronte ai propri elettori la responsabilità di andare avanti (o no). E, a questa altezza, la sfida è, ancora una volta, alla politica come dimostra il severo monito a Bundestag e Governo a decidersi finalmente di fare il loro dovere nel vigilare sull’Integrationsprogramm. Dove non possono, solidalmente, arrivare gli stati e le istituzioni europee a Trattati invariati, forse può, intanto, fare qualcosa il bilancio dell’UE. Può essere che, per il Secondo Senato, se cambiano i fatti, il diritto deve seguire. Altrimenti, tanto peggio per i fatti.

 


“Risocializzare l’Europa”. La dimensione sociale europea tra economia di mercato e integrazione sovranazionale

Il lavoro affronta il tema della dimensione sociale europea, analizzando, in una prospettiva storica, le modalità con cui nel tempo i diritti sociali hanno trovato spazio e protezione, in particolare attraverso l’esame della giurisprudenza della Corte di Giustizia e l’uso che si è fatto della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in tale ambito. L’articolo si sofferma quindi sui recenti documenti delle istituzioni europee che mirano ad inserire nell’ordinamento europeo i principi del Trattato sulla stabilità, il coordinamento e la governance nell’Unione economica e monetaria (art. 16 TSCG), sul processo volto a determinare uno strumento di convergenza in materia sociale e sul significato del Pilastro europeo dei diritti sociali. Nelle conclusioni, attraverso l’analisi del ruolo che lo stato membro può svolgere nel contesto europeo, si cerca infine di sottolineare la centralità dell’Unione europea per l’esistenza stessa della statualità alla luce del Trilemma di Rodrik.


European political parties and European public space from the Maastricht Treaty to the Reg. No. 1141/2014

The article, using a historical perspective, analyses the role and the functions of European political parties. Focusing on the different nature of national political parties and European political parties, the article describes the attempts to regulate political parties at the European level as a tool to enhance European democracy and to shape a European public sphere. In this perspective, the emerging role of political parties at the European level is analysed from the first election of the European Parliament, through the Tsatsos’s Report. Subsequently, the Treaty of Nice and Regulation 2004/2003 are considered. Furthermore, the article focuses on the new regulation concerning political parties at the European level by taking into consideration Regulation n. 1141/2014. Moreover, the new Authority for European political parties and European political foundations and its powers are examined. Some final remarks concern the “lead candidates” innovation and the European electoral law.


Ragionando sul volume di Marco Benvenuti Libertà senza liberazione. Per una critica della ragione costituzionale europea (Editoriale scientifica, Napoli 2016)

Con l’appannarsi di quella legittimazione costruita sulla base dei risultati conseguiti, è tornata al centro dell’attenzione la ricerca di una teoria della legittimazione democratica delle politiche dell’Unione europea. Il peculiare modello di sviluppo finora intrapreso, tuttavia, lungi dall’essere assiologicamente neutrale, sembra aver lasciato una traccia molto forte. Proprio le strade finora seguite, infatti, paiono aver favorito un progressivo irrigidimento del rapporto tra responsiveness e accountability, con il conseguente aggravarsi di quella sensazione di “intreccio inestricabile” rispetto al quale sembra sempre più difficile individuare un livello di governo imputabile per le varie politiche poste in essere.
In questa prospettiva, dalla lettura del libro di Marco Benvenuti, Libertà senza liberazione, si esce con una duplice consapevolezza. Da un lato, infatti, si rafforza la sensazione che si stia ormai chiudendo una fase di lungo “interregno”, ovvero di un momento in cui, gramscianamente, «il vecchio muore e il nuovo non può nascere» (109). È dunque ormai necessario operare delle scelte che diano risposte adeguate alla nuova fase storica.
Dall’altro lato, si delinea con chiarezza la circostanza per cui il modo in cui gli assetti istituzionali a livello sovranazionale hanno finora operato sta incidendo in profondità su quelle più intime contraddizioni che gli stati nazionali hanno cominciato a manifestare sin dagli anni Settanta. A questo doppio movimento vengono naturalmente opposte delle forme di “resistenza”. Ne è un esempio il sempre più frequente ricorso allo strumento dei c.d. “controlimiti” da parte delle corti costituzionali nazionali. Queste risposte, tuttavia, che sembrano proiettare sul processo di integrazione il paradigma delle dinamiche conflittuali tra realtà distinte come chiave di interpretazione dei rapporti tra ordinamenti, lasciano spesso sottotraccia, o comunque non sempre pienamente tematizzati, profili cruciali per la costruzione di una vera comunità politica europea.
Consapevole della complessità della fase attuale, il volume si concentra in particolare su alcuni anni recenti della storia europea, gli anni della crisi, per proporre «un percorso di disincantamento nei confronti dell’Unione europea» (2). In questa prospettiva, vengono contestate quelle letture che sembrano dimenticare ciò che l’ordinamento sovranazionale realmente è, per guardarlo come «si vorrebbe che fosse», criticando quella visione di un’Unione europea cui sarebbe possibile estendere i metodi, i modelli, le categorie del diritto costituzionale (3). In particolare, poi, nel focalizzare la propria attenzione sull’articolarsi ondivago di un processo di integrazione provato da molti anni di crisi, non solo economica come giustamente viene rilevato (30), l’autore analizza criticamente le contraddizioni e i limiti degli interventi che si sono susseguiti nel tempo a livello europeo, denunciandone una possibile ricaduta sui tratti caratterizzanti il compromesso costituzionale novecentesco.
Il volume, il cui sottotitolo è Per una critica della ragione costituzionale europea, è suddiviso in tre capitoli, cui si aggiunge un poscritto in cui l’autore riflette, alla luce di quanto sostenuto nei capitoli precedenti, sul referendum tenutosi nel Regno Unito avente ad oggetto la proposta di uscita dall’Unione europea e la sentenza del Tribunale costituzionale tedesco in materia di Outright Monetary Transactions (OMT) del 21 giugno 2016.
Nel primo capitolo, viene messo in luce come, sin dalle prime fasi, non sia possibile individuare, a livello europeo, una autentica dimensione sociale europea. Ciò appare una potenziale contraddizione rispetto all’idea per cui la Costituzione italiana avrebbe invece tracciato, secondo le parole di Leopoldo Elia, cui il titolo del volume si ispira, un «programma di “liberazione nella libertà”». In realtà, viene subito ricordato che tale preoccupazione, almeno in una prima fase del processo di integrazione, può essere ridimensionata: nei primi anni, il mercato comune si andava infatti a sommare alle realtà nazionali. Si sarebbe così delineato quell’equilibrio che, secondo una fortunata formula, cercava di conciliare i principi keynesiani a livello nazionale, per affermare il libero mercato e i principi smithiani all’estero. Certo «una combinazione» più che un compromesso (12), ma in una cornice tendenzialmente rispettosa del piano costituzionale. Anche qui, tuttavia, riecheggia nella scelta del vocabolo utilizzato l’eco del pensiero di Elia, che, come noto, valorizzando il compromesso alto raggiunto in Costituente, ammoniva come esso non fosse una semplice combinazione, per di più definita «deteriore». Ma dal titolo affiora anche la sensazione che, sullo sfondo, si possa scorgere quel tema della critica di matrice marcusiana che, in generale, individuava nella civiltà un fattore di repressione della libertà, nell’uomo un soggetto da liberare e, soprattutto, considerava lo «stato del benessere…uno stato in cui regna l’illibertà», con ciò perseguendo l’obiettivo di demistificare quanto realizzato dalla «tarda società industriale» insieme all’azione dello stato.
In una serrata critica a quello che viene definito una forma di “ipercostituzionalismo”, ovvero quella tendenza a proiettare sul piano del diritto europeo le chiavi del diritto costituzionale e a considerare al contempo solamente «“parziale”» il diritto costituzionale statale, è in particolare la libertà di circolazione dei capitali la lente attraverso cui vengono letti gli sviluppi del processo di integrazione dell’Unione europea: se ne invoca, infatti, un ridimensionamento, rilevandosi la centralità che essa ha assunto nel tempo. Ed è proprio l’insieme di questi sviluppi che, del resto, avrebbe messo in discussione persino gli insoddisfacenti termini di quella combinazione tra Smith e Keynes, ponendo le basi per un indebolimento del progetto stesso di liberazione incorporato nella Costituzione italiana.
Nel secondo capitolo viene tratteggiato il complesso svolgersi dei processi con cui si è tentato, sia su un piano congiunturale sia strutturale, di rispondere alla crisi economica. Questi provvedimenti, considerati complessivamente coerenti con un’idea di integrazione negativa, tradiscono una scelta per una sostanziale continuità istituzionale che impedisce di configurare come un momento costituzionale l’attuale fase. Viene così evidenziato il progressivo «(dis)ancoraggio del processo di integrazione europea dalla dimensione costituzionale», confermato anche dall’emergere di alcune “parole nuove”, che, connotando le politiche dell’UE, assumono una valenza assiologica pervasiva e performativa: sperimentalismo, condizionalità, reversibilità, automatismo.
Partendo dalle origini della crisi, dalla c.d. Strategia di Lisbona, dalla Strategia Europa 2020 e dal Patto per la crescita e l’occupazione, di cui si mettono in luce tutti i limiti, viene nell’insieme tratteggiato un percorso complesso e intricato in cui si fanno passo dopo passo più chiare le molte contraddizioni emerse negli ultimi anni: dalle implicazioni della fondamentale (ma sempre più complicata) distinzione tra politica monetaria e politica economica e dalla denuncia delle ambiguità del concetto di economia sociale di mercato, passando per il ruolo della BCE e della Corte di Giustizia, alla messa in discussione dell’idea di solidarietà e al progressivo inaridirsi della partecipazione politica, fino alle riforme a livello sovranazionale con riferimento alle politiche di bilancio, alle modalità di salvataggio finanziario degli Stati destinatari di aiuti e alle contestate azioni di condizionamento “irrituale”. E così quello che è stato definito l’ipercostituzionalismo si delinea in realtà come un tentativo di de-costituzionalizzazione che allontana il processo di integrazione da quel Sonderweg che si era a lungo immaginato potesse essere il destino dell’Unione europea.
Nel terzo capitolo, infine, il 2015 è efficacemente definito come «un anno vissuto pericolosamente» (107). Qui sono in particolare approfonditi alcuni problemi irrisolti, come la distinzione tra politica monetaria e politica economica, al fine di criticare le inadeguatezze del costituzionalismo multilivello e del pluralismo costituzionale nello spiegare le dinamiche dei rapporti tra ordinamenti. E, in questa prospettiva, al centro dell’attenzione dell’autore sono soprattutto il ruolo ricoperto dalla Banca centrale europea e gli sviluppi della crisi greca, cui segue una critica analitica del documento con cui si è tracciato un percorso per Completare l’Unione economica e monetaria dell’Europa.
Nel procedere della lettura e dell’analisi si fa sempre più netto il progressivo definirsi di una costante nelle molte vicissitudini trattate. Sono due le questioni che, su tutte, tendono solitamente a rimanere sullo sfondo e su cui invece l’autore richiama l’attenzione: la questione sociale e la questione democratica, entrambe componenti basilari su cui si è costruito lo stato costituzionale del Novecento. La profonda preoccupazione lascia in realtà spazio ben presto a una evidente forma di insoddisfazione per il percorso intrapreso dall’integrazione europea che sembra aver tradito quella componente di “riconoscimento” e di inclusione che ha segnato la storia delle rivendicazioni che hanno caratterizzato le battaglie per i diritti proprie del costituzionalismo.
Non è certo facile individuare una via d’uscita. Larry Siedentop, nel 2000, con il suo La democrazia in Europa, vedeva come sbocco necessario dell’integrazione un equilibrio di tipo federale e scorgeva nella scarsa tematizzazione della questione costituzionale e nell’eccesso di “economicismo” un punto di debolezza del processo di integrazione a partire almeno dal Trattato di Maastricht. La sua proposta era di articolare l’Unione europea sulla base di un ampio decentramento e ricostruire una solida partecipazione democratica ai vari livelli, individuando come un proprium della crisi dell’integrazione «la crisi del pensiero politico liberale» dovuta prevalentemente all’assenza di quelli che venivano definiti «i nostri Madison».
A venticinque anni dal Trattato di Maastricht, a dieci dal Trattato di Lisbona e a cinque dal Trattato rinominato Fiscal Compact, che, in teoria, potrebbe presto essere incorporato nei Trattati, gli elementi di debolezza presenti da tempo sono ancora più evidenti. E sembra aumentare la disaffezione verso l’Unione europea per come è diventata, fino a quelle visioni che propongono, evocativamente, proprio di Rottamare Maastricht. Del resto, il diffuso interesse che di recente si è appuntato sulla necessità di “democratizzare la democrazia”, che già aveva segnato i dibattiti che a partire dagli anni Settanta e Ottanta hanno riguardato a livello statale le forme di democrazia partecipativa e deliberativa (penso tra i moltissimi agli studi di Pateman e di Barber), investe nel suo complesso la riflessione sulla rifondazione dell’Unione europea anche in quei pensatori più attenti alla dimensione bottom-up della partecipazione popolare come Étienne Balibar. L’attenzione alla democrazia si nota poi, in modo non dissimile, in quei lavori più spiccatamente politici che raccolgono le riflessioni di Marsili e Varoufakis sul terzo spazio e le proposte di democratizzazione dell’Europa animate da Piketty. Ma il problema democratico emerge anche nella riflessione di Streeck e nella sua articolata critica alla moneta unica, contestualizzata in un più complessivo conflitto tra democrazia e capitalismo. L’interesse verso l’apertura di nuove forme di attivazione dal basso appare davvero, allora, un tema cruciale cui l’integrazione sovranazionale deve dare una risposta. Il rischio è, altrimenti, che l’abbandono del paradigma sorto a Maastricht, come momento di un più ampio processo volto ad approdare a una piena unione politica favorendo la costruzione di una autentica comunità democratica, non dia i frutti sperati, aprendo a un ritorno non tanto di una piena sovranità politica dei singoli stati nazione anche in ambito monetario, ma piuttosto a nuove forme di instabilità.
Non è facile, in questo quadro, decidere come procedere per riformare l’Unione europea. Marco Benvenuti avanza come soluzione, proponendo un approccio «realista» (183), l’esigenza di ripartire dalle costituzioni nazionali, con l’obiettivo di ottenere una più armonica gestione dei casi sempre più numerosi di “resistenza costituzionale”. L’obiettivo è costruire «un approccio all’ordinamento sovranazionale fondamentalmente intergovernativo […] ma di tipo nuovo, ossia declinato in forma “repubblicana”» (183). Allontanando l’Unione «da ogni reminiscenza costituzionale» si potrebbe garantire, nell’insufficienza degli assetti istituzionali europei, che il potere resti sempre controllabile a livello statale e che l’Unione si consolidi come una vera demoicracy, o, più precisamente, come «un “international association of democratic states”» (184).
Come accennato, l’idea di declinare in questi termini il futuro del processo di integrazione, tentando così di superare il democratic disconnect di Lindseth ma accantonando il dibattito sul democratic deficit, richiede però, in ragione «dell’irrompere del principio di realtà» (180), l’abbandono dell’ambizione di considerare pienamente consumatosi (e forse consumabile) un momento costituzionale per l’Unione europea. Il rischio è che questa scelta, che pure parte dalla necessità di rivitalizzare il principio democratico sia pur su scala nazionale, porti a un assetto in cui permangano irrisolte molte delle attuali contraddizioni, specialmente sul piano economico-sociale, come per esempio il problema di come risolvere alcune forme di dumping tra paesi membri o la competizione tra differenti sistemi tributari, di fatto arrivando a plasmare una Unione basata prevalentemente su un’integrazione amministrativa. Si rischia di mettere comunque in competizione una burocrazia sovranazionale e le varie democrazie nazionali. Da questo punto di vista, permarrebbe infatti la possibilità che il processo di integrazione possa continuare ad erodere gli spazi di decisione democratica e di partecipazione popolare alla decisione, a meno che non si riescano a garantire, in forme nuove, efficaci strumenti di collegamento tra responsiveness e accountability. In definitiva, in questa prospettiva, l’abbandono di una “ambizione costituzionale” come approdo del processo di integrazione europea potrebbe persino dare vita ad esiti inaspettati sul piano interno, che potrebbe non essere in grado di rispondere alle nuove domande. Incombe insomma minacciosa l’eventualità che, anche in questo modo, non si riesca a rispondere a quello che Peter Mair ha sintetizzato, con riferimento alla politica nazionale, come la “sindrome di Tocqueville”, ovvero quella circostanza per cui coloro i quali governano soffrono «una crescente incapacità di giustificare i propri privilegi in un contesto in cui svolgono funzioni sempre meno importanti» e che in fondo, a livello statale, è un dato che da tempo indebolisce le democrazie rappresentative nazionali. E, tuttavia, l’idea ha il pregio di portare con sé una forte dose di concretezza, non perdendo di vista lo stato delle cose, salvaguardando al contempo le conquiste fin qui ottenute e disegnando per il futuro un percorso che potrebbe garantire qualche ulteriore progresso, sia pur accantonando, almeno per ora, ambizioni maggiori.
In conclusione, è ormai piuttosto chiaro che la crisi vissuta in questi anni e la più generale insoddisfazione verso gli attuali assetti istituzionali che l’hanno caratterizzata preludono inevitabilmente a un cambiamento che chiuda un percorso che, come sostiene Tony Judt in Postwar, affonda le sue radici molto indietro nel tempo, ben prima della caduta del muro di Berlino, in quanto «l’Europa non sta rientrando nel suo inquietante passato di guerra: al contrario, ne sta uscendo» solo ora. Va dunque superata quella fase fondativa sintetizzata con l’idea per cui l’Europa, secondo Judt, «è stata la figlia insicura dell’ansia» e non il risultato di «un progetto ottimistico, ambizioso e lungimirante». Molto tempo, del resto, è ormai trascorso da quei primi passi avviati dopo la Seconda Guerra Mondiale. In questa prospettiva, ragionare sul quomodo, focalizzando l’attenzione sulla questione democratica e discutendo sulle basi su cui ricostruire una salda tenuta di democrazia e diritti sociali al fine di rafforzare le conquiste del costituzionalismo, appare davvero necessario per aprire, nello spazio pubblico, un dibattito consapevole e aperto.

 


L’«urgenza democratica» come sfida politica e istituzionale all’Unione europea: a proposito della proposta “Democratizzare l’Europa!” di Hennette, Piketty, Sacriste e Vauchez

Nel dibattito sulla condizione degli attuali assetti democratico-istituzionali dell’Unione europea e la loro riforma si sono di recente inseriti, con un evidente obiettivo politico (Piketty è consigliere del candidato alla Presidenza francese Benoît Hamon), gli autori di un’ambiziosa proposta che, intitolata Democratizzare l’Europa!, indica nel sottotitolo, al contempo, il contenuto e la finalità dell’iniziativa: Per un Trattato di democratizzazione dell’Europa (il T-Dem). Firmato da Stéfanie Hennette, Thomas Piketty, Guillame Sancriste e Antoine Vauchez il libro, pubblicato in Italia dalla casa editrice La Nave di Teseo (2017), introduce, articola e commenta una proposta di Trattato, il T-Dem (57 ss.), che si prefigge di superare le gravi tensioni che scuotono oggi l’Unione europea, mettendone in discussione financo la sopravvivenza (dal populismo, alle politiche di austerità, alla diseguaglianza). Inaugurando un percorso che, con l’obiettivo di realizzare una piena democratizzazione dell’Unione europea, dia vita ad una vera e propria Assemblea che coinvolga cittadini, istituzioni, forze della società civile e chiunque voglia prendervi parte, si vuole così progressivamente dare spazio a quel «contropotere rappresentato dai partiti e dai movimenti sociali» che avrebbe il compito di «rintracciare i percorsi della politica europea» per opporsi «all’alternativa funesta tra un ripiegamento nazionale privo di respiro e lo status quo delle politiche economiche di Bruxelles» (17). A tal fine, sin dalle prime pagine, si invocano maggiore responsabilità politica e l’esigenza di «uscire dall’opacità» (14).
Parallelamente, del resto, anche a livello europeo si avverte con una certa chiarezza il tentativo di individuare futuri possibili sentieri da intraprendere per superare l’attuale fase di crisi, che però non sembrano sempre del tutto convergenti. Mentre la Commissione, per esempio, nella prospettiva di inserire i contenuti del Fiscal Compact nei Trattati così come previsto dall’art. 16 del TSCG, pubblica una comunicazione intitolata The Fiscal Compact: Taking Stock, cui sono collegati un Report, redatto ai sensi dell’art. 8, sull’attuazione dell’art. 3 II e una serie di documenti che presentano lo stato di attuazione paese per paese, gli stati europei, come noto, hanno da ultimo tentato di rilanciare il progetto europeo con la Dichiarazione di Roma. La direzione indicata in questo documento, più nel dettaglio, individua quattro principali ambiti di azione: un’Europa sicura, un’Europa prospera e sostenibile, un’Europa sociale e un’Europa più forte sulla scena mondiale. Da tutto ciò si ha l’impressione, lasciando da parte le implicazioni e le prospettive di un inserimento dei contenuti del Fiscal Compact nei Trattati e pur salutando con un certo favore le affermazioni contenute nella Dichiarazione, che proprio la questione dell’idea di democrazia cui si vuole tendere nei prossimi anni e dei contenuti di cui si vuole riempiere un concetto che appare necessario tentare di definire meglio sembri rimanere un po’ sullo sfondo. Se non si considerano i riferimenti alla sussidiarietà, allo spazio che si riconosce «alle preoccupazioni espresse dai nostri cittadini» e al ruolo degli stati membri e dei loro parlamenti nei futuri processi decisionali, a parte un breve passaggio iniziale, infatti, nel testo della Dichiarazione si rinviene un richiamo espresso al tema della democrazia europea solo quando si legge che gli stati si impegnano a promuovere «un processo decisionale democratico, efficace e trasparente, e risultati migliori». E tuttavia, se il riferimento all’Europa sociale può in effetti sembrare strettamente intrecciato con la questione democratica, come in Europa si è sempre verificato sin dalle ottocentesche battaglie per il suffragio universale, nello spazio pubblico europeo il tema del futuro dell’integrazione europea pare quasi indissolubile dalla condizione e dalla concezione della democrazia europea, come già era accaduto al tempo in cui la discussione si era focalizzata sul processo di parlamentarizzazione. Del resto, il sistema politico è in trasformazione anche – e forse soprattutto – al livello dei singoli stati nazionali e l’affermazione di nuove richieste di partecipazione e incisive forme di protesta, che sono espressione dell’intensa irrequietezza che caratterizza la tensione tra l’esercizio della sovranità popolare e i suoi limiti, appare piuttosto evidente. Tentare di ripensare i meccanismi di funzionamento della democrazia in Europa, pertanto, non sembra soltanto un esercizio di stile o una provocazione politica, ma un passaggio politico ineludibile.
Il libro, in questa prospettiva, muove da una critica molto dura all’attuale assetto istituzionale europeo, di fatto denunciando uno scenario che invererebbe un quadro che Jurgen Habermas ha definito di «autocrazia postdemocratica» (13). Sarebbe oggi in atto, in questa prospettiva, un vero e proprio «ripudio della democrazia» (13), con una sostanziale esclusione dai circuiti decisionali dei Parlamenti nazionali e del Parlamento europeo. In tale scenario, gli autori denunciano nel loro lavoro «una vera urgenza democratica» che impone di «rivedere i processi decisionali che governano l’eurozona» (52) e da qui prendono le mosse per lanciare una proposta che, se pare davvero di difficile realizzazione, sembra poter avere sostegno sufficiente per rilanciare il discorso pubblico su un tema decisivo per gli sviluppi futuri dell’Unione europea. In questo breve post, pertanto, non si vuole compiutamente discutere la dimensione di concreta realizzabilità della proposta, né sotto un profilo giuridico né politico (per alcune critiche cfr. S. Platon su verfassungsblog), limitandosi a riportare i principali contenuti elaborati dagli autori. Si vuole d’altro canto offrire la possibilità di riflettere su un’idea che tenta di rimettere al centro della discussione il problema del deficit democratico, smarcandosi dalla robusta critica di origine tedesca e rilanciando una possibile linea di sviluppo che proceda anche in assenza della partecipazione della Germania al progetto. E infatti gli autori si pongono anche il problema del caso non ricorrano le condizioni politiche per cui questo Trattato venga siglato da parte di tutti gli stati dell’eurozona. In questa circostanza, nella bozza sottoposta all’opinione pubblica europea dagli autori, spicca con grande evidenza come un articolo del T-Dem preveda già che il Trattato entri in vigore se lo ratificano 10 paesi su 19, in rappresentanza di almeno il 70% della popolazione: si potrebbe insomma approvare senza la Germania (46-47).
Come accennato, prima dell’articolato (qui in inglese), vera e propria proposta costruita su cinque titoli (I- Oggetto e campo di applicazione; II- Patto democratico dell’eurozona; III- Poteri e compiti dell’Assemblea parlamentare dell’eurozona; IV- Coerenza e rapporto con il diritto dell’Unione; V- Disposizioni generali e finali) per un totale di 22 articoli, corredati di commenti, gli autori affrontano il problema della «fattibilità giuridica» del trattato T-Dem e delineano ruolo, funzione e poteri dell’Assemblea.
Sotto il primo profilo, valutata l’impossibilità di procedere a una revisione dei Trattati, il T-Dem garantirebbe un «rapido cambiamento politico» (30), utilizzando gli stessi strumenti che hanno portato all’adozione del TSCG e del TMES, ma con l’intento di perseguire «finalità ben diverse», ovvero «la democratizzazione della governance dell’eurozona», riformando anche «istituzioni le cui competenze sono state caratterizzate in maniera piuttosto informale (“summit dell’eurozona”, “Eurogruppo”…) in modo da renderle efficienti e responsabili» (31). Gli autori sanno, e lo affermano del resto, che in realtà «solo una revisione dei trattati europei consentirebbe di offrire all’eurozona il quadro istituzionale capace di correggere i difetti d’origine dell’Unione economica e monetaria». Il T-Dem, tuttavia, sembra loro una strada più facilmente percorribile per affermare quella che viene definita la «“condizionalità democratica”». E l’obiettivo, si legge, è duplice: da un lato, fare «in modo che le politiche di convergenza e di condizionalità oggi al centro della “governance dell’eurozona” siano portate avanti da istituzioni democraticamente responsabili, a livello europeo come a livello nazionale»; dall’altro, effettuare quei «passaggi necessari» che vedano la convergenza fiscale e il coordinamento economico e di bilancio «decisi con il diretto coinvolgimento dei rappresentanti nazionali» (53).
La scelta è considerata legalmente percorribile sulla base di argomentazioni che partono dall’analisi del caso Pringle e che si articolano sostenendo che essa non creerebbe alcun pregiudizio delle competenze dell’Unione. Più precisamente, il T-Dem sarebbe del tutto compatibile con l’assetto attuale in quanto quest’ultimo non investe «alcuna competenza esclusiva e riguarda solamente competenze condivise (coordinamento economico) la cui portata è prima di tutto istituzionale (migliorare gli standard democratici dell’eurozona)» (24). Secondo i proponenti, del resto, «nella misura in cui le parti contraenti del Trattato MES hanno potuto legittimamente creare […] l’istituzione denominata “Meccanismo europeo di stabilità” finalizzata al rafforzamento dell’UEM, le stesse parti contraenti sono legittimate a creare un’Assemblea parlamentare dell’eurozona, onde migliorare le procedure che governano il funzionamento della zona suddetta» (25).
Lasciando da parte riserve e possibili obiezioni in merito, il cuore della proposta si rinviene però senza dubbio nell’idea di istituire una Assemblea parlamentare. Gli autori ne prospettano diverse funzionalità a seconda che essa sia composta da un numero ridotto (intorno ai 100 componenti) o da un numero più esteso (intorno ai 400 membri). Ogni paese esprimerà un numero di rappresentanti pari alla percentuale di cittadini che lo popolano, designati dai vari parlamenti nazionali al loro interno in proporzione ai gruppi che li compongono. Un numero minimo di deputati (un seggio) sarà comunque previsto al fine di garantire una rappresentanza anche a quegli stati che non raggiungono l’1% della popolazione. Una delegazione di 1/5 dei deputati, selezionati nello stesso modo, sarà infine espressa dal PE (art. 4 T-Dem).
Con riferimento alle responsabilità dell’Assemblea, il T-Dem delinea una serie di funzioni e poteri che vanno dal potere legislativo, da esercitarsi congiuntamente con l’eurogruppo (art. 3) – di cui l’Assemblea determina il programma di lavoro semestrale e insieme al quale prepara le riunioni del Consiglio dei Capi di Stato e di Governo (art. 7) – a poteri di controllo nell’ambito del semestre europeo (art. 8) e delle procedure di assistenza finanziaria (art. 9), al coordinamento con la BCE (art. 10), che si vuole fare uscire «dal suo splendido isolamento» (74), a poteri di indagine e controllo in materia di governance dell’eurozona (art. 11), ad una competenza legislativa anche in materia di tassazione (art. 12). Spicca, poi, la competenza legislativa a emettere «le disposizioni in materia di condivisione dei debiti pubblici che superano il 60% del PIL di ciascuno stato dell’eurozona» (art. 12, co. 4). All’Assemblea è poi riconosciuto un potere di votare per «la scelta dei candidati al direttorio della BCE, alla presidenza dell’eurogruppo e alla direzione generale del MES» (art. 17).
Si delineano inoltre la procedura della disciplina legislativa ordinaria, cui prendono parte eurogruppo e Assemblea (art. 13), e un bilancio dell’eurozona, che punti a «favorire una crescita durevole, l’occupazione, la coesione sociale e una migliore convergenza delle politiche economiche e fiscali in senso all’eurozona» (art. 14) da adottarsi con una procedura ad hoc (art. 15). Alla coerenza e al rapporto con il diritto dell’Unione è dedicato l’art. 18, mentre le disposizioni generali e finali disciplinano le modalità di ratifica e di entrata in vigore.
Il testo, nella sua dimensione di proposta (e di protesta), esprime un sentimento di insofferenza, che sembra ormai piuttosto diffuso, nei confronti dell’attuale assetto istituzionale europeo, sospeso tra una pericolosa deriva post-democratica che erode i tradizionali canali di funzionamento delle democrazie rappresentative nazionali e si avvantaggia delle difficoltà che hanno i partiti politici a garantire forme di partecipazione ai cittadini nella determinazione della politica nazionale ed europea, e un progressivo indebolimento, dovuto non solo all’attuale congiuntura economica ma anche all’assetto istituzionale accolto nei trattati, di quella legittimazione fondata sui risultati che l’UE era riuscita a garantire negli anni.
In realtà, forse, le critiche all’opacità delle politiche democratiche europee, che pure centrano un nodo decisivo, sottovalutano alcune importanti conquiste che la rotta verso una più definita forma di democrazia europea ha ottenuto e sta cercando di stabilizzare che, senza alcuna pretesa di completezza, vanno dal riconoscimento di un ruolo più significativo ai partiti politici europei e dalla figura degli Spitzenkandidaten, all’attuale ruolo e alle modalità di elezione del PE, nonché alle forme della cooperazione interparlamentare e alle varie forme di dialogo che già prevedono una fitta rete di rapporti tra parlamenti nazionali e parlamento europeo e altre istituzioni europee. Per non tacere, infine, di quell’afflato verso forme di democrazia partecipativa che il Trattato di Lisbona ha riconosciuto e incentivato e che, fondate sulla trasparenza e sulla prossimità, si prefiggevano di stimolare la formazione di uno spazio pubblico discorsivo europeo. Con ciò non si vuole certo ridimensionare l’ipoteca che il crescente ricorso al diritto internazionale e al metodo dei memorandum rischia di imprimere sul futuro dell’integrazione in Europa. E tuttavia non può nascondersi come, posto che sul piano politico si sarebbe potuto tentare di perseguire scelte di merito diverse, nelle condizioni date, in assenza di una riforma complessiva dei Trattati, talvolta poche altre strade fossero percorribili sul piano giuridico (non è un caso che anche la proposta che si analizza propone il medesimo itinerario).
Da ultimo, nel merito, possono sorgere della perplessità con riferimento all’idea di una Assemblea, cui sono peraltro affidati poteri di grande rilievo, composta in definitiva da rappresentanti scelti sulla base di una delicata operazione di individuazione lasciata in gran parte, senza un pieno coinvolgimento del corpo elettorale, ai parlamenti nazionali (che per di più in taluni casi potrebbero vedere ridotta la loro rappresentanza a un solo deputato). E non è detto che tutto ciò, anche alla luce della complessiva situazione di difficoltà in cui versano da tempo le democrazie e le forze politiche a livello nazionale, possa davvero trasformarsi in un efficace canale di legittimazione della democrazia in Europa.
Nonostante le criticità rilevate e le altre eventuali obiezioni che si possono opporre alla proposta francese, da quanto riferito, essa ha senz’altro il merito di mettere in luce come gli sviluppi della questione democratica in Europa siano un tema cruciale che sarà decisivo per la legittimazione delle future politiche dell’Unione europea e più in generale per il processo di integrazione. E si trae anche conferma dell’impressione per cui, nello spazio tra un non più e un non ancora, il continente europeo continui a rappresentare un luogo di grande vivacità intellettuale dove è possibile ancora realizzare, attraverso l’incontro, in caso anche il conflitto, una effettiva e profonda trasformazione della realtà. Tentare di dare spazio ad una «natura prefigurante e progettuale dell’utopia» intesa come figura futuri concretamente realizzabile (Cacciari), che è prima di tutto critica dello status quo e dunque espressione del principio-libertà, è un merito che va pertanto riconosciuto a chi oggi studia le vicende della forma democratica in Europa, probabilmente nella consapevolezza che, nel tentativo di dare risposte alla crisi in atto, l’alternativa tra un ingenuo “andare avanti” e un polemico “tornare indietro” può sembrare mal posta. Sarà, infatti, in ogni caso impossibile ritornare sui propri passi per i vari stati dell’Unione europea, pensando così di ripristinare un perduto equilibrio novecentesco tra capitalismo e democrazia (Severino; da ultimo, Streeck), già profondamente eroso in alcune sue basilari precondizioni.


Rettificazione di sesso e “paradigma eterosessuale” del matrimonio: commento a prima lettura della sent. n. 170 del 2014 in materia di “divorzio imposto”

Con la sentenza n. 170 del 2014, la Corte si è pronunciata su quegli articoli (2 e 4) della l. n. 164 del 1982 che prevedono, nel caso di rettificazione legale del sesso, che il matrimonio contratto in precedenza cessi di produrre i propri effetti (sulla questione si veda di recente il primo numero della rivista Genius). La decisione, dunque, ha ad oggetto il c.d. “divorzio imposto” ed appare fortemente problematica sia nelle motivazioni, sia nel dispositivo. Non solo perché sembra propendere per la costituzionalizzazione del c.d. “paradigma eterosessuale”, ma anche in ragione del fatto che rinvia potenzialmente sine die gli effetti della dichiarazione di incostituzionalità in essa contenuta. Ed infatti la Corte costituzionale vede nell’obbligo di sciogliere il matrimonio una violazione dell’art. 2 della Costituzione nella misura in cui gli «artt. 2 e 4 della legge 14 aprile 1982 n. 164 […] non prevedono che la sentenza di rettificazione dell’attribuzione di sesso di uno dei coniugi […] consenta, comunque, ove entrambi lo richiedano, di mantenere in vita un rapporto di coppia giuridicamente regolato con altra forma di convivenza registrata, che tuteli adeguatamente i diritti ed obblighi della coppia medesima». Dopo aver escluso il riferimento agli altri parametri indicati dalla Corte di cassazione (artt. 2, 3, 24, 29 Cost. e, come parametri interposti, gli artt. 8 e 12 della Cedu in violazione degli artt. 10 e 117, co. 1, Cost.) e, in particolare, aver interpretato l’art. 29 Cost. in modo da valorizzare il c.d. “paradigma eterosessuale”, la Corte costituzionale fa perno dunque solo sull’art. 2 Cost., considerando il caso in esame, per quanto «sul piano fattuale innegabilmente infrequente»,  uno di quelli in cui si integra «la possibilità di intervenire a tutela di specifiche situazioni» sulla falsariga di quanto indicato nella sent. n. 138 del 2010.

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Considerazioni brevi a partire da «Il Governo multilivello dell’economia. Studio sulle trasformazioni dello Stato costituzionale in Europa» di Edoardo C. Raffiotta

Il libro di Edoardo Carlo Raffiotta, Il Governo multilivello dell’economia (Bononia University Press, Bologna 2013), indaga un tema di grande attualità e interesse scientifico secondo direttrici volte, come si legge nel sottotitolo, a studiare le trasformazioni dello Stato costituzionale in Europa. E, in questa prospettiva, il lavoro offre, con una particolare attenzione ai casi italiano, tedesco e spagnolo, una accurata analisi comparata del nuovo ordine economico che va delineandosi sotto le spinte della recente crisi economica e delle sue ripercussioni istituzionali.

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A proposito di Diritti in transito di Anna Lorenzetti: riconoscimento e tutela della diversità nel caso dei diritti delle persone transessuali

Il libro di Anna Lorenzetti, Diritti in Transito. La condizione giuridica delle persone transessuali (FrancoAngeli, 2013) offre una ricca e dettagliata visione d’insieme delle tutele e delle difficoltà di ordine giuridico che interessano il transessuale in Italia, mettendo in rilievo come, in questo ambito, fatto e diritto siano in un rapporto di continua tensione. Il diritto, infatti, non sempre sembra in grado di rispondere alla complessità che spesso scuote i paradigmi su cui si fondano molte delle precomprensioni e delle convenzioni giuridiche che il legislatore si limita a prendere come meri presupposti della sua azione e cui i fatti tendono però a sottrarsi. Il rischio è infatti che il fatto nuovo resti, ignorato, privo di qualsiasi tutela giuridica o peggio venga stigmatizzato: particolarmente problematica per esempio, insieme alla giurisprudenza recente in merito allo scioglimento del vincolo coniugale (su cui infra), l’ambivalente posizione dei giudici sull’obbligo di operazione chirurgica per poter procedere alla rettificazione (59 ss.). Ecco perché occorre chiedersi, come afferma l’Autrice, «se respingere un fatto, una persona, una condizione umana rientri nell’orizzonte costituzionale o si collochi esternamente ad esso» (231).

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Il paradosso di Zenone, ovvero dell’adozione successiva per le Unioni civili al vaglio del Bundesverfassungsgericht

Era una decisione che si aspettava, se non altro per il percorso di sviluppo che la giurisprudenza del Tribunale costituzionale tedesco ha ormai intrapreso da alcuni anni in materia di unioni civili (se si vuole, cfr. F. Saitto, Ianus n. 4-2011). Ed appare però, in questa prospettiva, una sentenza ancora una volta problematica e molto cauta, che non esalta il piano dei diritti delle coppie del medesimo sesso, stigmatizzando piuttosto le discriminazioni irragionevoli. Resta, per di più, ancora in vigore il limite delle adozioni congiunte da parte delle coppie di persone dello stesso sesso legate da un’unione civile su cui il BVerfG si sofferma solo per un cenno con la finalità di sostenere come tale decisione non apra comunque all’istituto dell’adozione congiunta.

Con la pronuncia in commento (BVerfG 1 BvL 1/11), emanata peraltro lo stesso giorno in cui la Corte EDU si pronunciava su una questione per molti versi affine, ma nei fatti diversa, condannando sul punto l’Austria (sul punto cfr. A. Lecis, Forum Quaderni Costituzionali), un ulteriore tassello si è mosso quindi nella direzione di una totale equiparazione giuridica tra matrimonio e unioni civili riducendo lo scarto tra le due discipline e di fatto sancendo, per l’ennesima volta, l’altissima problematicità della tutela del matrimonio attraverso lo strumento della garanzia di istituto che già emergeva con forza dirompente dalla giurisprudenza più recente.

Grazie a questa sentenza, l’adozione successiva, ovvero l’adozione da parte dell’altro partner, di un figlio già adottato dall’altro, dovrà essere ritenuta possibile e il legislatore dovrà regolarla entro il 30 giugno 2014 perché l’attuale normativa viola l’art. 3, Abs. 1 della Legge fondamentale sia nel raffronto dei rapporti dei figli tra loro, sia nel confronto tra coniugi e partner, sia tra diversi tipi di partner (essendo già oggi nella condizione di poter adottare il figlio naturale del proprio compagno). La prospettiva accolta, tuttavia, più che valorizzare i diritti dei partner, privilegia – come detto – il diritto dell’adottato a non essere discriminato ed è su questo punto che si sofferma con maggiore attenzione il Tribunale.

Ribadendo sul punto la sua giurisprudenza più recente, il Tribunale costituzionale ha sottolineato come, al di là del semplice divieto di arbitrio, la normativa oggetto del ricorso, vista la sua importanza, deve essere sottoposta a un controllo particolarmente stringente perché eventuali divergenze nel trattamento incidono su diritti particolarmente sensibili. E in questo senso, la dichiarazione di incostituzionalità dell’art. 9, Abs. 7 Lebenspartnerschaftsgesetz, nella parte in cui non consente l’adozione successiva di un bambino già precedentemente adottato dall’altro partner, sembra preludere ad un ulteriore e continuo ampliamento dei diritti per le coppie che hanno contratto tale tipo di unione. D’altronde, il Tribunale si era già pronunciato sull’art. 7, Abs. 2 nel 2009 (BVerfG 1 BvL 15/09) salvando in quel caso la norma sotto attacco nella misura in cui utilizzava il termine di genitore anche per il partner adottivo del figlio naturale del proprio compagno o della propria compagna (Stiefkindadoption). Tale possibilità era stata introdotta nel 2004, senza prevedere, però, anche il diverso caso dell’adozione successiva.

Entrando nel merito della decisione, nel caso in esame, il Tribunale esalta la sua capacità di astrazione concettuale e, da un lato, pur riconoscendo lo status costituzionale di famiglia anche alla famiglia di fatto e anche composta da persone dello stesso sesso,  ne ridimensiona i risvolti costituzionali esaltando la discrezionalità in proposito del legislatore ordinario; dall’altro, soffermandosi sui diritti del bambino, elude o, meglio, non prende di petto il tema forse più spinoso: la via prescelta consente infatti al Tribunale di non approfondire il tema della violazioni di eventuali diritti costituzionali del genitore partner di un’unione civile, trincerandosi dietro il formalismo sillogistico per cui si può essere genitori – e di conseguenza rivendicare diritti costituzionali derivanti da tale status – solo nel caso in cui esista un rapporto che vada oltre il dato socio-familiare e che giunga alla discendenza biologica o, almeno, a un qualche riconoscimento giuridico.

In tal senso, la pronuncia non sembra in alcun modo riconoscere un diritto costituzionale alla omogenitorialità, quanto semmai piuttosto, nel darlo quasi per sottinteso, ribadire, ottenendo in un certo qual modo il medesimo risultato, che eventuali discriminazioni, lungi dall’essere vietate tout court, debbono trovare però solide giustificazioni costituzionali che consentano effettivamente di riconoscere nella disciplina una qualche ragionevolezza, il cui controllo non può fermarsi – ci mancherebbe altro – ad un semplice Willkürverbot, ma deve essere effettuato nella forma dello scrutinio stretto. E d’altronde, sul punto il Tribunale è chiarissimo: il legislatore già adesso ammette che i bambini crescano in famiglie composte da partner del medesimo sesso in ragione dell’esistenza dell’adozione da parte dei singoli e ciò non può che far pensare che l’adozione sia considerata un istituto che è da intendersi comunque nell’interesse del minore. Non occorre in questo senso che si spenda a tutela dei diritti delle coppie di persone dello stesso sesso a diventare genitori. La prospettiva sempre privilegiata è quella del minore che però, sia pur indirettamente, produce infine il medesimo effetto: il Tribunale riporta come, sotto un profilo psicologico, per esempio, l’adozione successiva tendenzialmente produca stabilisierende entwicklungspsycologische Effekte.

Così posta la questione, la decisione permette di distinguere due piani. In un primo, il Tribunale si limita a riconoscere come, allo stato attuale, il divieto di adozione successiva strida del tutto con la normativa complessiva in quanto finisce per danneggiare il figlio, quando invece l’adozione è un istituto pensato per il suo bene e che trova nell’interesse del minore anche i suoi stessi limiti naturali. Sul punto però il Tribunale è al contempo anche cauto e ci tiene – come detto – a ribadire che il fatto che il bambino possa crescere e venir educato in un contesto omosessuale è già nelle cose, e in particolare in quel comma 6 dell’art. 9 della legge sulle unioni civili che delinea con chiarezza la possibilità che avvenga l’adozione di un bambino, sia pur del singolo, da parte di una persona unita in una unione civile.

Sul secondo piano del discorso, quello dei diritti delle coppie, poi, la sentenza non pare particolarmente innovativa sul piano dell’estensione e del riconoscimento diretto dei diritti delle coppie dello stesso sesso, cui non viene riconosciuto, nello specifico, un preciso ed autonomo diritto costituzionale, e però, al contempo, sembra preludere, con un’insolita pragmaticità, ad una sempre maggiore equiparazione del catalogo degli stessi a quelli riconosciuti alle coppie sposate da cui i diritti dei primi necessariamente rampollano. È davvero difficile, in questa prospettiva, vedere la differenza, che però c’è ed è sostanziale. Insomma, adelante con giudizio. Così a mio avviso è possibile spiegare il rigetto totale delle questioni concernenti l’art. 6 GG, che avrebbe dato già oggi un risvolto contenutistico chiaro e materialmente determinato, ma con il rischio drammatico di frustrare il difficile compromesso che si è andato definendo negli anni, e, invece, il più blando, ma al contempo più costituzionalmente gravido di promesse, accoglimento della questione sulla base dell’art. 3 che pone le basi di un’equiparazione per piccoli passi e per casi concreti, non chiudendo così su future possibili aperture all’adozione congiunta, questione comunque in tal modo abilmente evitata.

È certamente vero, dunque, che il Tribunale costituzionale sottolinea come il divieto di adozione successiva violi l’art. 3 GG perché discrimina non solo i bambini a seconda della famiglia in cui crescono, ma anche i partner delle unioni registrate, rispetto ai coniugi. Ma tale richiamo non sembra tanto sostanziale, quanto ancora una volta figlio di quella via prescelta dal Tribunale di riservarsi sempre, pur in un innegabile progressivo ampliamento del catalogo dei diritti, un’ultima parola sull’estensione e il riconoscimento dei diritti alle unioni registrate che non sono certo – in tal modo –  costituzionalmente necessitati.

E allora, se quanto detto è vero, il lento percorso scavato valorizzando il controllo di ragionevolezza, pur per molti versi dimostratosi, senza dubbio,  progressista, conciliante e aperto verso le unioni di persone dello stesso sesso, inaugurato ormai anni fa dal Tribunale costituzionale tedesco, sempre di più ricorda il paradosso di Zenone di Achille e la tartaruga, in cui Achille, alias le unioni civili, per quanto possa avvicinarsi, non potrà mai pienamente raggiungere la tartaruga, alias il matrimonio. Questi i rischi di una giurisprudenza costruita tutta sull’astrazione concettuale più difficile ormai da difendere – la garanzia di istituto – senza però, così facendo, avere l’ardire di negare i nuovi diritti che la società reclama.