Il tentativo secessionista “all’italiana” e la semi-indifferenza della politica nazionale

Ciò che altrove, in Europa, è considerata una questione che tocca le fondamenta del patto costituzionale nazionale, dello stare insieme, l’indipendenza tramite secessione di una regione da uno Stato sovrano (v. D. Haljan, Constitutionalising Secession, Oxford and Portland/OR, Hart Publishing, 2014,spec. pp. 50-52), in Italia è materia che non suscita neppure la benché minima discussione pubblica, aldilà delle sedi accademiche e giurisdizionali. Quasi che, degradando il problema costituzionale ad un elemento di folklore regionale o, peggio, sottacendolo del tutto, i rischi che si corrono in termini di lealtà alla Costituzione e di tenuta della Repubblica delle autonomie magicamente svanissero.

Mentre nel Regno Unito si riflette attentamente, anche nel Parlamento di Westminster, sull’esito negativo del referendum per l’indipendenza scozzese del 18 settembre 2014 e sulla opportunità di approfondire la devolution, conferendo ora nuovi poteri ad Holyrood (v. S. Scarinci, Scotland’s referendum for independence: a constitutional definition, diritti comparati.it, 19 settembre 2014); e in Catalogna, alla fine del 2014, il Presidente ed altri Ministri del governo autonomico sono stati messi sotto inchiesta da parte della Alta Corte di giustizia catalana per il ruolo giocato nel promuovere la consultazione popolare del 9 novembre 2014, con esito favorevole alla secessione, nonostante la Corte costituzionale avesse sospeso la convocazione del “referendum” (ricorsi n. 5829 e 6540 del 2014, su cui v. L. Cappuccio, Introduzione. La lunga e accidentata marcia della Catalogna verso una consultazione popolare sull’indipendenza, Il futuro politico della Catalogna, a cura di L. Cappuccio e G. Ferraiuolo, federalismi.it, 26 novembre 2014, pp. 4-5), in Italia il tentativo del Veneto di secedere dalla Repubblica è pressoché passato sotto silenzio nel dibattito politico nazionale, in particolare nelle sedi parlamentari.

Ciò lascia ancor più stupiti se si pensa che, mentre il Consiglio regionale del Veneto, il 19 giugno 2014, approvava sia la l.r. n. 15/2014 “Referendum consultivo sull’autonomia del Veneto”, sia la l.r. n. 16/2014 “Indizione del referendum consultivo sull’indipendenza del Veneto” (B.U.R. Veneto, Anno XLV – n. 62), il Senato era impegnato nel dibattito sul disegno di legge di revisione della Parte II della Costituzione (A.S. 1429) e, segnatamente, del suo Titolo V e del futuro Senato quale istituzione di raccordo tra il centro e le autonomie (cfr. C. Pinelli, Riforma del Senato, è tempo di cambiare approccio, Huffington Post, 13 maggio 2014).

La Regione Veneto, del resto, non è nuova a questo tipo di iniziative – ancorché in passato di tenore non altrettanto sovversivo dell’ordine costituzionale – già sanzionate dalla Corte costituzionale (v. sentenze nn. 470/1992 e 496/2000). Anche in questo caso la reazione istituzionale, largamente attesa peraltro, è stata l’impugnativa delle due leggi da parte del Governo dinanzi alla Corte l’8 agosto 2014 – proprio quando il Senato approvava in prima lettura il testo della riforma costituzionale – con ricorsi attualmente pendenti (nn. 67 e 68/14). Di elementi di dibattito sulle due leggi regionali in Parlamento e nell’opinione pubblica, ce ne sarebbero stati e potenzialmente ce ne sono diversi.

Innanzitutto, tali leggi sono state approvate in un susseguirsi di eventi convulsi, dal “plebiscito telematico” sul diritto all’autodeterminazione del Veneto, tenutosi tra il 16 e il 21 marzo 2014, alla “Dichiarazione di Indipendenza della Repubblica Veneta” resa pubblica online in esito a questo il 21 marzo 2014, all’arresto dei “Serenissimi” ad aprile 2014 che miravano a perseguire l’indipendenza della Regione dallo Stato italiano con metodi violenti. È del 2 gennaio 2015, poi, la notizia che la Delegazione dei Dieci – proclamatosi come il “primo organo istituzionale legittimo della Repubblica Veneta” – ha approvato i principi della Repubblica Veneta e indetto per il 15-20 marzo 2015 l’elezione dei deputati della Repubblica Veneta. Dunque, le attività volte a sovvertire l’unità e l’indivisibilità della Repubblica italiana (art. 5 Cost.) proseguono, come se nulla fosse, anche dopo l’approvazione delle leggi regionali e il ricorso del Governo alla Corte costituzionale.

La l.r. n. 15/2014, più moderata nelle pretese rispetto alla seconda legge, attribuisce al Presidente della Regione un mandato a negoziare con il Governo nazionale per definire il contenuto di un referendum consultivo regionale “circa il conseguimento di ulteriori forme di autonomia della Regione del Veneto” (art. 1). In caso di fallimento del negoziato o di mancato raggiungimento di un accordo entro centoventi giorni dall’approvazione della legge, il Presidente della Regione è autorizzato ad indire il referendum consultivo (art. 2). Il legislatore regionale si è preoccupato di inserire anche una clausola di copertura finanziaria per le spese referendarie (art. 4) e di prevedere le circostanze nelle quali il referendum dovrebbe svolgersi, vale a dire, sempre “d’intesa con le competenti autorità statali” (art. 3), fissarlo in occasione delle elezioni del Parlamento europeo, del Parlamento nazionale o di quelle regionali successive all’entrata in vigore della legge stipulando se del caso una apposita convenzione col Ministero dell’Interno per ripartirsi i costi comuni (!).

Ora, tuttavia, non risulta che i negoziati tra il Presidente della Regione e il Governo siano mai stati avviati, né che decorso invano il termine indicato all’art. 2, Il Presidente della Regione abbia indetto il referendum. I cinque quesiti referendari già prefigurati nella legge vertono sulla possibilità: di attribuire alla Regione ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia (Q. 1); di fare in modo che l’80% o più dei tributi riscossi in Veneto, anche se per imposte statali, sia utilizzata nell’ambito del territorio regionale e che il gettito derivante dalle fonti di finanziamento della Regione non sia soggetto a vincoli di destinazione (Q. 2, 3, 4); di rendere il Veneto una Regione a Statuto speciale (Q. 5).

Senza qui entrare nel dettaglio delle censure proposte dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri, peraltro in larga parte condivisibili rispetto agli artt. 116, 117 e 119 Cost., non si può non notare come i quesiti rispecchino delle richieste che la Regione Veneto da tempo avanza al Governo e che si scontrano con i nodi aperti della difficile attuazione dell’art. 116, terzo comma Cost., sin dalla sua entrata in vigore (cfr., in proposito il dossier dell’ISSiRFA); del federalismo fiscale e del problematico coordinamento della finanza pubblica; e, infine, delle Regioni a Statuto speciale oggi. La perdurante assenza di risposte concrete da parte dello Stato alle esigenze dell’autonomia regionale (la proposta di legge presentata dal Veneto ex art. 116, terzo comma, risale al 2006), può portare ad esiti inaspettati e preoccupanti, come quelli a cui stiamo assistendo.

Forse, almeno la legge n. 15/2014 qualche spinta al cambiamento l’ha fornita, pur sempre in sordina e senza che fosse evidenziato alcun esplicito collegamento tra certe reazioni istituzionali a livello nazionale e la legge veneta sul referendum regionale per garantirsi maggiori forme di autonomia. Per esempio, mentre nel disegno di legge di revisione della Costituzione presentato dal Governo si proponeva l’abrogazione dell’art. 116, terzo comma (M. Mezzanotte, La legge di stabilità 2014 e l’art. 116, comma 3, Cost., Forum costituzionale, 14 luglio 2014, pp. 9-10, che segnala anche le novità della legge di stabilità sul fronte dell’attivazione del Governo nella procedura per consentire un regionalismo differenziato); nel testo approvato poi dal Senato l’8 agosto 2014, il comma in questione non solo è mantenuto, ma la sua applicazione si estende anche alla materia del governo del territorio e si rende più agevole l’approvazione della legge rinforzata da parte del Parlamento, a maggioranza semplice anziché assoluta come è adesso, aggiungendo come requisito per la praticabilità della proposta che la Regione in questione rispetti l’equilibrio finanziario, come del resto già dispone l’art. 119 Cost. dopo la riforma costituzionale del 2012.

Un attacco diretto all’unità e indivisibilità della Repubblica italiana è rappresentato invece dalla l.r. n. 16/2014. Qui non solo la procedura di indizione del referendum consultivo per l’indipendenza del Veneto è puramente unilaterale – il Presidente della Giunta indice il referendum (art. 1) – ma il Presidente della Regione e quello del Consiglio regionale si attivano “per avviare urgentemente con tutte le Istituzioni dell’Unione europea e delle Nazioni unite le relazioni istituzionali che garantiscano l’indizione della consultazione referendaria” e “sono tenuti a tutelare in ogni sede competente, nazionale ed internazionale, il diritto del Popolo Veneto all’autodeterminazione” (art. 3). La proposta soggetta a referendum, “Vuoi che il Veneto diventi una Repubblica indipendente e sovrana? Si o No?” è approvata se al referendum partecipano la maggioranza degli aventi diritto – coloro che abbiano raggiunto la maggiore età iscritti nelle liste elettorali di un comune veneto – e se si raggiunge la maggioranza dei voti validi a favore (art. 1). Non si tratta quindi della semplice richiesta di una condizione di autonomia rafforzata, ma di una vera e propria secessione. Inoltre, contrariamente a quanto accaduto per l’attuazione della l.r. n. 15/2014, La Giunta ha proceduto tempestivamente, il 28 luglio 2014 all’adozione delle disposizioni in merito alla propaganda, alle procedure di voto e alla proclamazione ufficiale del risultato del referendum (deliberazione n. 1331), come richiesto dalla l.r. n. 16/2014 (v. anche la deliberazione ulteriore della Giunta, n. 1709 del 23 settembre 2014, sui profili economici e finanziari del referendum).

Rispetto ai precedenti decisi dalla Corte costituzionale (sentenze n. 470/1992 e n. 496/2000), la l.r. n. 16/2014 non mira neppure alla presentazione, a seguito dell’esito positivo del referendum, di una proposta di legge costituzionale; ad ogni modo, quand’anche la avesse prevista, alla luce della giurisprudenza della Corte la legge regionale sarebbe presumibilmente ritenuta comunque contraria a Costituzione, considerato che, come noto, la riforma costituzionale del 2001 non ha scardinato gli assetti dell’autonomia regionale, prefigurando per esempio forme di sovranità condivisa (sentenza n. 365/2007). Nella sentenza n. 496/2000 la Consulta aveva affermato infatti che “non è quindi consentito sollecitare il corpo elettorale regionale a farsi portatore di modificazioni costituzionali, giacché le regole procedimentali e organizzative della revisione, che sono legate al concetto di unità e indivisibilità della Repubblica (art. 5 Cost.), non lasciano alcuno spazio a consultazioni popolari regionali che si pretendano manifestazione di autonomia” (§ 5).

Anche con riferimento ai referendum regionali, la Corte aveva già sgombrato il campo da dubbi, più di vent’anni or sono: “nel rapporto con le istituzioni statali, sulle grandi questioni di interesse generale deve esprimersi, e nello stesso momento, l’intero corpo elettorale. Al referendum consultivo regionale, anche attesa la partecipazione della sola popolazione regionale, non può certamente darsi quello stesso spazio che potrebbe avere il referendum consultivo nazionale” (sentenza n. 256/1989, § 5). Da ciò deriva, per esempio, che la soluzione negoziale seguita nel Regno Unito per la Scozia, di rendere vincolanti per l’intero territorio nazionale gli esiti di un referendum regionale sulla secessione, in nessun caso potrebbe essere estesa all’Italia.

Neppure potrebbe darsi seguito alla soluzione proposta in Spagna dalla giurisprudenza costituzionale sul caso catalano. In virtù dell’interpretazione conforme a Costituzione fornita dal Tribunale costituzionale spagnolo a proposito della Resolución 5/X del Parlamento catalano, sulla “Declaración de soberanía y del derecho a decidir del pueblo de Cataluña”, non solo tale Risoluzione non è risultata contraddire la Carta fondamentale, ma anzi “esprime una aspirazione politica suscettibile di essere difesa nell’ambito della Costituzione “(STC 42/2014, §4, c), trad. mia): tale interpretazione consente, discutibilmente (cfr. sul punto, R. Ibrido, Il “derecho a decidir” e il tabù della sovranità catalana. A proposito di una recente sentenza del Tribunale costituzionale spagnolo,federalismi.it, 9 luglio 2014, pp. 17-19), al Parlamento catalano di presentare alle Cortes spagnole una proposta di revisione della Costituzione che preveda la convocazione di un referendum sulla indipendenza della Catalogna.

Nell’ordinamento italiano, al contrario, una legge di revisione costituzionale che consentisse la secessione di una Regione, anche se approvata mediante referendum costituzionale confermativo, sarebbe, con ogni probabilità, ritenuta contraria ai principi supremi della Costituzione, tra cui rientrano i principi di unità e indivisibilità della Repubblica quali limiti impliciti alla modifica della Legge fondamentale.

Ebbene, sarà forse per la fiducia riposta nel bastione della Costituzione italiana contro le tendenze disgregative della Repubblica e nella sua attenta opera di applicazione da parte della Corte costituzionale che il Parlamento italiano e il Governo hanno evitato, anche quando il tema è stato evocato nelle aule parlamentari (v. seduta dell’Assemblea della Camera dei deputati, seduta n. 291, 16 settembre 2014, res. sten., pp. 11 e 26), di stimolare ogni dibattito sulle ragioni e le tensioni che soggiacciono all’approvazione della l.r. 16/2014, con il supporto evidente della Giunta e del Consiglio del Veneto e non già di un manipolo di “Serenissimi”.

Come dimostra il caso del Regno Unito, che pure della sovranità del Parlamento (nazionale) ha fatto uno dei capisaldi della sua architettura costituzionale, se una democrazia è matura, può essere pronta a dibattere politicamente sulle opportunità e sul senso di essere “Stato”, con l’effetto che, “normalizzando” il discorso sulla secessione scozzese anziché trattarlo come un tabù, la stessa sostanza dello Stato democratico e pluralista, che senz’altro il Regno Unito è, pur con le sue molteplici differenze interne, movimenti autonomisti e nazionalisti, ne è uscita rafforzata.

Ancor prima della pronuncia della Corte costituzionale (la trattazione dei due ricorsi è al momento prevista per l’udienza pubblica del 28 marzo 2015) e sfruttando l’occasione fornita dalla riforma costituzionale in itinere come momento di riflessione su cosa è oggi e come vorremmo fosse domani la nostra Repubblica unica e indivisibile, l’auspicio per l’Italia è che la politica nazionale si riappropri della sua capacità di guidare un dibattito costruttivo sulle inevitabili tensioni tra Stato e Regioni che sono proprie di ogni sistema regionale e federale e non solo italiane, come il 2014 ha messo in evidenza, proponendo anche soluzioni sul piano istituzionale, per esempio attraverso il nuovo Senato. Sebbene la procedura seguita nel Regno Unito per la Scozia non sia costituzionalmente ammissibile in Italia, il metodo usato aldilà della Manica del dibattito e del confronto politico nelle opportune sedi istituzionali (Parlamento e sistema delle Conferenze) sulla questione del Veneto potrebbe evitare che all’indomani del voto del 15 marzo 2015 (v. supra) e delle elezioni del Presidente della Giunta e del Consiglio regionale previste a maggio 2015 ci si ritrovi a fare invece i conti con l’elezione dei deputati della “Repubblica Veneta” e con una Regione sempre più disconnessa dal “cuore” dell’unica Repubblica che la nostra Costituzione riconosce, quella italiana.