«Learning by engagement». Per un’etica del confronto costituzionale nell’era transnazionale

Negli Stati Uniti, negli ultimi anni, la riflessione sull’opportunità di richiamare il diritto straniero e il diritto internazionale nella giurisprudenza costituzionale si è affermata come un vero e proprio tema di scontro tra gli accademici e tra gli stessi giudici, espressione spesso di diversi se non opposti orientamenti politico-interpretativi. Dopo la sentenza Lawrence v. Texas (2003), la tensione è arrivata ad un punto tale che, con una proposta di legge (Constitution Restoration Act 2004), si è tentato di vietare ai giudici la possibilità di interpretare la Costituzione avvalendosi della giurisprudenza di Corti straniere, mentre in Texas v. Medellin (2008) la Corte ha stabilito che i giudici statali non devono considerarsi vincolati ad una decisione della International Court of Justice, in nome del principio di sovranità e dello stato federale. Ancor più di recente, in Oklahoma è stata approvata una proposta referendaria per vietare l’uso del diritto internazionale (e della Sharia) da parte delle Corti statali.
La comparazione giudiziaria veniva, e viene ancora vista con sospetto, ed in particolare il metodo comparativo, inteso come strumento di interpretazione, era ed è considerato in molti casi come una vera e propria minaccia all’identità costituzionale: in un contesto come quello statunitense, infatti, caratterizzato, da un lato, dalla percezione del proprio eccezionalismo, e, dall’altro, dal timore per una penetrazione dell’ordinamento nazionale da parte di giurisprudenze culturalmente e linguisticamente affini, il fenomeno appare quanto mai attuale, come testimoniato dalla enorme mole di interventi in dottrina sul tema.

In un quadro così articolato, si inserisce un recente libro di Vicky Jackson, Constitutional Engagement in a Transnational Era, Oxford University Press, Oxford-New York, 2010, che prende di petto il problema, suggerendo di considerare il diritto straniero e il diritto internazionale come una «lente critica» puntata sul proprio ordinamento (p. 130).

Il libro della Jackson è un lavoro contro l’horror alieni juris e contro l’idea che aprire a ciò che è altro da noi possa portare alla perdita della propria identità nazionale, che invece può solo migliorare dal confronto con il simile, per quanto necessariamente diverso. In questo quadro, la disposizione all’engagement può, come dimostra Jackson nel IV capitolo, aiutare ad interpretare meglio e a meglio definire i confini della propria identità nazionale (p. 108).
Il constitutional engagement è, dunque, una vera sfida costituzionale negli Stati Uniti: l’Autrice torna più volte sulle sue virtù, replicando tanto alle critiche finalizzate a cavalcare l’horror alieni juris, quanto alle obiezioni di chi, al contrario, prospetta la prevalenza del diritto internazionale. Tra le posizioni di resistenza e di chiusura netta e quelle di convergenza tout court, su cui si tornerà, la Jackson preferisce una terza via, quella dell’engagement, che consiste non tanto in quello che viene definito dialogo, quanto in un’apertura critica finalizzata alla migliore comprensione possibile della propria Costituzione e della propria tradizione costituzionale, per meglio comprendere istituti comuni e valori condivisi, per aprirsi a nuove prospettive (p. 117). Il dialogo, infatti, presuppone necessariamente una certa reciprocità, mentre l’engagement ne prescinde: si supera, così, un rigido sistema di gerarchia tra le fonti, in favore di una «persuasive authority», «non binding» (p. 71), chiave di volta dell’interpretazione costituzionale, orientata verso l’apertura ai diritti fondamentali (p. 188), sia pur secondo approcci compatibili con la storia e la cultura del proprio Paese.
Nel capitolo V, Jackson risponde alle critiche di chi sostiene che il judicial review of legislation, strumento tradizionalmente accolto con sospetto in ragione del suo effetto countermajoritarian, finirebbe, in un sistema in cui i giudici avessero il potere di riferirsi al diritto straniero, per urtare definitivamente con il principio democratico (p. 144); oppure per minare il principio della separazione dei poteri o i caratteri propri della struttura federale. Questo genere di obiezioni, attentamente considerate dall’autrice, non sono tuttavia ritenute sufficienti per escludere il diritto straniero come “fonte” di persuasione, in primo luogo di carattere culturale. Specularmente, la Jackson critica anche le posizioni favorevoli ad un’apertura incondizionata al diritto straniero ed internazionale, specialmente per quanto riguarda l’interpretazione dei diritti umani. Anche queste tesi, infatti, non sono ritenute convincenti, e se le prime vengono quasi “bollate” come una donchisciottesca battaglia contro i mulini a vento (perché è impossibile chiudersi al dato di fatto reale del fenomeno transnazionale), così queste, che pretendono di conferire giuridica vincolatività al diritto internazionale appaiono non calate sulla realtà storico-culturale statunitense, cui principalmente si rivolge il lavoro. La ricerca di soluzioni ai conflitti tra diritto interno e diritto transnazionale basate su criteri gerarchici, infatti, appare lontana da una concreta possibilità di imporsi in modo fruttuoso, a differenza di ipotesi che propongono un nuovo metodo interpretativo cultural-comparativo.
Secondo la Jackson, l’engagement rappresenta «a project of constitutional self-defintition, which also has the possibility of influencing and be influenced by, developing transnational norms». Il fine ultimo del libro risiede, dunque, nella volontà di diffondere nel dibattito statunitense la coscienza che «domestic constutions should be understood as inevitably in a relationship with international law and the constitutional approaches of other members of the international community» (p. 256). L’engagement, peraltro, emerge dalle pagine del libro anche come una sorte di dovere morale ed etico, dato che le democrazie costituzionali vivono in una sorta di «symbiotic relationship with each other» e ciò comporta che «each country […] has a stake in the success or failure of constitutionalism in other»: utilizzare il diritto straniero come “critical lens” per interpretare valori e bisogni interni, infatti, «may enable the constitutional democracies of the world each to improve their system» (pp. 130-131). Con riferimento al noto caso sulla pena di morte giovanile, ad esempio, la prospettiva di engagement adottata dalla Corte Suprema ha condotto ad un’interpretazione dell’8° emendamento come incompatibile con la previsione legislativa. E ciò perché i Giudici sono comunque sempre influenzati «by the world of ideas in which they live, a world interprenetrated with traveling sources of ideas» (p. 126).
Due – sostiene Vicky Jackson – sono le vie attraverso le quali l’engagement prende corpo: c’è, infatti, una via deliberativa, che non si fonda su norme costituzionali autorizzatorio ma procede dall’iniziativa dell’interprete, ed una relazionale, esemplificata dal caso sudafricano – la cui Costituzione obbliga i giudici a tener conto del diritto internazionale e facoltizza all’uso del diritto straniero (p. 78). Premessa ad un’interpretazione della Costituzione engaged con il diritto transnazionale è, comunque, una necessaria «deep contextual knowledge» (p. 188), ovvero quell’attenzione al contesto su cui tanto ha insistito Peter Häberle.
In questo quadro, le Costituzioni – che nelle società pluralistiche si sono affermate come garanzie di equilibrio ed espressione di tavole di valori, ponendo le basi di un processo di integrazione – divengono «sites of engagement», luoghi di mediazione del rapporto tra «domestic and transnational audiences», in primo luogo grazie al lavoro svolto dai giudici (p. 255).

Questa prospettiva non è poi così lontana dalla ricerca di una wertende rechtsvergleichung al centro del dibattito interpretativo europeo, che forse, su questi temi, appare più avanzato, avendo superato nel tempo pur forti resistenze culturali.
Dal libro della Jackson emerge infatti la mancata partecipazione degli Stati Uniti ad un ampio sistema sovranazionale di relazioni tra Stati, ampiamente diffuso in Europa a partire dal secondo dopoguerra. Ciò determina l’assenza di quello che, recentemente, Giuseppe de Vergottini ha definito «dialogo necessitato» (su cui cfr. la recensione di Giorgio Repetto): in Europa, la sfida lanciata dall’Autrice è in buona parte in atto e le Corti non si sono tirate indietro di fronte alla prospettiva dell’engagement.
Con riferimento alla dottrina italiana che più direttamente si è confrontata con i temi dell’interpretazione costituzionale alla luce dell’apertura al diritto internazionale e comparato, la prospettiva dell’engagement richiama da vicino la posizione accolta, tra gli altri, da Gustavo Zagrebelsky, il quale, in occasione del discorso pronunciato in Campidoglio per i 50 anni della Corte costituzionale, aveva individuato il richiamo al diritto straniero e sopranazionale come «uno strumento per intendere le nostre proprie costituzioni nazionali, attraverso il quadro di sfondo che dà loro un preciso significato in un determinato momento storico»: non un «cavallo di troia», dunque, ma una nuova chiave interpretativa. E d’altronde, «quando viene trasferita dal piano dell’ausilio o dell’ispirazione di processi di riforma su quello dei canoni dell’interpretazione del testo costituzionale … la comparazione scardina le gerarchie normative interne alla statualità» (P. Ridola, Diritto comparato e diritto costituzionale europeo, 2010, p. 193).