An elephant in a mousehole? La Corte Suprema e il divieto di licenziamento sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere

Con una decisione molto attesa, pubblicata il 15 giugno 2020, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha affermato che i licenziamenti discriminatori per ragioni fondate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere rientrano nell’ambito di applicazione del Titolo VII del Civil Rights Act del 1964, nella parte in cui esso vieta di discriminare la lavoratrice o il lavoratore «because of such individual’s […] sex» (per un primo commento, v. anche Sperti). L’effetto della decisione è quello di estendere al livello federale quanto già previsto in un numero significativo di stati, e cioè la tutela antidiscriminatoria delle persone LGBT+ sul luogo di lavoro: dopo cinque anni dalla sentenza Obergefell v. Hodges, sette da Windsor v. United States e diciassette da Lawrence v. Texas, giugno si conferma così «mese dell’orgoglio» anche per la Corte Suprema, che muove un ulteriore passo in avanti sulla strada del riconoscimento di piena pari dignità sociale alle persone LGBT+.
Peraltro, è interessante notare come – forse per la prima volta in una sentenza della Corte che riguarda la condizione delle persone LGBT+ – non si registrino, tra i giudici, divergenze in merito alla necessità di tutelare le persone omosessuali, bisessuali e transgender dalle discriminazioni sul luogo di lavoro: anche nei due dissent, infatti, tale esigenza è apertamente riconosciuta mentre i giudici divergono sulle modalità idonee al raggiungimento di tale obiettivo (e in particolare sulla possibilità di perseguirlo per via giudiziale). Uno scenario non scontato – se solo si pensa ai toni ben più accesi delle opinioni dissenzienti ancora in Obergefell – e in sintonia con un’evoluzione culturale probabilmente accentuata, per contrasto, dalle frequenti prese di posizione dell’attuale Presidente degli Stati Uniti in materia.
Come spesso avvenuto per decisioni miliari in materia di diritti fondamentali e inclusione di nuove soggettività nel panorama delle tutele offerte dall’ordinamento giuridico, anche in questo caso la sentenza incrocia questioni rilevanti nel dibattito nordamericano, come l’equilibrio tra ruolo della Corte Suprema e ruolo del Congresso (e, dunque, la tenuta stessa del principio di separazione dei poteri) e la controversia sui metodi di interpretazione. A questi due profili se ne aggiunge un terzo, che emerge con particolare evidenza dai due dissent (specie nell’opinione firmata dal giudice Kavanaugh) e riguarda la portata – e le implicazioni future – dell’interpretazione data alla clausola antidiscriminatoria: il tema, più in particolare, è quello dell’asserita assimilazione tra sesso, orientamento sessuale e identità di genere ai fini dell’applicazione della clausola, e dei suoi effetti.
Quanto al primo profilo, la contrapposizione tra opinione della maggioranza e dissent non potrebbe essere più netta. Se infatti Gorsuch, per la maggioranza, è molto chiaro nel ricondurre l’iter argomentativo nei limiti delle potenzialità interpretative del testo – con la significativa precisazione che «the limits of the drafters’ imagination supply no reason to ignore the law’s demands» (p. 2) – altrettanto netta è la posizione critica di Alito e Thomas, che aprono il proprio dissent affermando recisamente che «there is only one word for what the Court has done today: legislation» (p. 1). Analogamente, nelle prime righe del dissent di Kavanaugh risuona con forza la domanda «who decides?» (p. 1). Grande rilievo è dato, in entrambi i dissent, ai molti tentativi del Congresso di estendere la tutela antidiscriminatoria prevista dal Titolo VII, mai andati a buon fine: il Congresso, afferma Kavanaugh, sa bene come colpire le discriminazioni fondate su orientamento sessuale e identità di genere, lo ha fatto in molti casi, ma non ancora per quel che riguarda la protezione offerta dal Titolo VII del Civil Rights Act.
La controversia sul ruolo della Corte è ricondotta al tema dei confini dell’interpretazione piuttosto che, come avvenuto in passato, alla più ampia questione dell’individuazione della sede più idonea a dare risposta a domande di riconoscimento e protezione (e della ricerca di equilibri, in questa prospettiva, tra Corti e processo politico): non si riscontra, in altri termini, nulla di simile all’avvertimento con cui, cinque anni fa, si concludeva la sentenza Obergefell, e secondo cui «the dynamic of our constitutional system is that individuals need not await legislative action before asserting a fundamental right» (p. 24). Una differenza dovuta senza dubbio ai diversi contorni del caso all’esame – l’estensione di un diritto fondamentale, in Obergefell; la definizione della portata di una norma antidiscriminatoria, in Bostock – ma anche, almeno in parte, al diverso profilo culturale dei relatori.
In questa prospettiva, l’aspetto forse più significativo della decisione è l’uso peculiare che essa fa del testualismo, inserendosi in un dibattito divenuto di recente più vivace (legandosi anche, ad esempio, alla presa di posizione di Vermeule), e che vede contrapposte diverse declinazioni delle virtualità del testualismo stesso (e dei suoi complessi legami con l’originalismo): da quelle, classiche, di stampo conservatore a quelle – valorizzate dalla sentenza in commento – di carattere progressivo (sul punto, si rinvia alle interessanti riflessioni di Cezzi). Anche su questo profilo, la contrapposizione tra le diverse “voci” della decisione non potrebbe essere più aspra. L’opinione di maggioranza, da un lato, si sforza meticolosamente di condurre la propria operazione interpretativa nell’alveo della fedeltà al testo; i due dissent, dall’altro, criticano radicalmente tale approccio. E laddove Alito definisce senza mezzi termini l’operazione condotta dalla maggioranza nei termini di un atto di «pirateria» nei confronti del testualismo (p. 3), Kavanaugh si interroga – più in profondità – sulla correttezza dell’individuazione della portata della norma del Titolo VII, anche in relazione allo «ordinary meaning» della clausola e, soprattutto, al contesto in cui venne approvata e, per molti anni, applicata.
Tali critiche – venendo infine al terzo profilo – sembrano però provare troppo. L’opinione di maggioranza – contrariamente a quanto ritenuto nei dissent – non assimila il sesso all’orientamento sessuale e all’identità di genere, né le discriminazioni operate su questi diversi presupposti: non tenta di trovare an elephant in a mousehole (cfr. p. 19). Non siamo cioè in presenza – in termini più familiari alla nostra tradizione – di una interpretazione “estensiva” del termine sesso, volta a ricomprendere in esso le diverse nozioni di orientamento sessuale e identità di genere. L’operazione è più complessa, e viene condotta lungo due direttrici principali. Per un verso, la Corte enfatizza la soggettivizzazione della clausola antidiscriminatoria di cui al Titolo VII (che protegge individui, e non gruppi), mantenendo ben salda sullo sfondo l’analisi dell’effettivo impatto del trattamento discriminatorio sulla condizione di vita delle e dei ricorrenti. Per altro verso, ferma restando la specifica dignità delle diverse dimensioni di vita coinvolte, la Corte non può fare altro che interrogarsi sulla concreta dinamica della discriminazione, scomponendola dal punto di vista logico e ragionando sulla rilevanza del sesso nella decisione discriminatoria (se cioè esso sia elemento decisivo o meno e se possa dirsi, nella logica but-for che in presenza di un soggetto di sesso diverso, diversa sarebbe stata anche la decisione dell’employer). Non è dunque il significato del termine «sex» ad essere intaccato ed esteso fino ricomprendere orientamento sessuale e identità di genere; è la discriminazione sulla base del sesso a rappresentare, in qualche modo, un passaggio preliminare ed essenziale per la discriminazione basata su orientamento sessuale e identità di genere. In altri termini, nelle parole della Corte «we agree that homosexuality and transgender status are distinct concepts from sex […] but […] discrimination based on homosexuality or transgender status necessarily entails discrimination based on sex; the first cannot happen without the second» (p. 19). Una distinzione che Alito e Kavanaugh, seppur da diverse prospettive, non colgono, rimanendo ancorati ai canoni di una polemica tutta interna al “fronte” testualista.
Così circoscritta la portata dell’operazione interpretativa, non possono tacersi – al netto del concreto impatto che la decisione della Corte avrà sulla vita di milioni di lavoratrici e di lavoratori LGBT+ – alcune perplessità legate, per così dire, alla perpetuazione di una assenza. In altri termini, alle persone LGBT+ è accordata concreta protezione, ma la soluzione argomentativa prescelta dalla Corte rischia mettere tra parentesi il rilievo di orientamento sessuale e identità di genere come specifici «grounds» di discriminazione. Certo, era difficile procedere diversamente, volendo accordare tutele sostanziali; e certo, il risultato ha il pregio di includere anche quelle dimensioni di vita e di esperienza nell’ambito di applicazione della norma. Ma, per quel che riguarda le dinamiche di riconoscimento, l’operazione resta in qualche misura monca. Lo rivela, paradossalmente, il dissent di Kavanaugh laddove rivendica – seppur al fine di criticare l’opinione di maggioranza – la specificità storico-culturale delle lotte costruite per superare le diverse discriminazioni («Seneca Falls was not Stonewall», si legge a p. 13), e anche – aggiungiamo noi – la specificità esistenziale del vissuto di discriminazione.
Alzando lo sguardo dal testo, ci si può dunque domandare se un risultato tanto atteso non sia stato ottenuto al prezzo di una doppia neutralizzazione (esistenziale e storico-culturale), la quale – se non adeguatamente sorvegliata – rischia di condurre, in futuro, ad indebite assimilazioni.