Eliminating racial discrimination means eliminating all of it? La Corte Suprema e le azioni affermative nell’ammissione all’Università

Con la decisione in commento la Corte Suprema interviene in materia di azioni affermative nell’ammissione alle Università. Oggetto di giudizio erano, in particolare, i protocolli di ammissione alle Università di Harvard e North Carolina i quali – pur nel quadro di un approccio “olistico” alla persona del richiedente – attribuivano limitato rilievo anche alla appartenenza razziale. Tale limitata considerazione dell’appartenenza razziale era coerente con la consolidata giurisprudenza della Corte Suprema che, fin dalla sentenza Bakke del 1978, si era occupata della materia: non si trattava infatti di attribuzione di quote di ammissione sulla base della razza, né la considerazione dell’appartenenza razziale determinava alcun automatismo nella attribuzione di punteggi. Piuttosto, l’appartenenza razziale, ove volontariamente indicata, poteva assumere rilevanza nel quadro di un giudizio complessivo sul profilo della persona richiedente; e la misura rispettava, altresì, quanto richiesto dalla giurisprudenza della Corte in termini di ragionevole giustificazione e di adeguatezza dei criteri di giudizio rispetto allo scopo, specie in relazione alla loro flessibilità.
Ciononostante, con una decisione adottata con una maggioranza di sei contro tre, la Corte Suprema – pur senza dichiarare formalmente l’overruling dei propri precedenti in materia (si tratta fondamentalmente, oltre che della richiamata Bakke, delle decisioni Grutter v. Bollinger del 2003 e Fisher II del 2016) – ritiene che tale pur limitata considerazione dell’appartenenza razziale violi la Equal Protection Clause del XIV emendamento. Più specificamente – e in sintesi estrema – la Corte afferma, in primo luogo, che il criterio sino a quel momento ritenuto idoneo a giustificare la considerazione dell’appartenenza razziale – vale a dire l’interesse delle Università a garantire la diversity e il carattere plurale dell’ambiente di apprendimento – non può più essere convalidato, in ragione dell’impossibilità di valutare l’adeguatezza del mezzo rispetto allo scopo, dovuta alla non misurabilità dei suoi effetti: con affermazione fortemente criticata nel dissent della giudice Sotomayor, la maggioranza afferma in particolare che l’interesse perseguito sarebbe inescapably imponderable. In secondo luogo, sulla base di una lettura molto rigida della sentenza Grutter v. Bollinger, la Corte afferma che la misura viola il XIV emendamento anche sotto il profilo dell’assenza di un logical end point: essa, in altri termini, non prevede un termine finale per la sua efficacia. Ciò confermerebbe indirettamente, peraltro, la stessa non misurabilità degli effetti dell’azione affermativa (cfr. le pp. 30 ss. dell’op. magg.).
La decisione si presta a diversi livelli di lettura che, nella sintesi consentita dai limiti di questo intervento, cercherò di tratteggiare.
Vanno sottolineati, anzitutto, i toni del confronto tra maggioranza e minoranza che paiono trascendere in asprezza la pur marcata distanza tra le posizioni dei due gruppi di giudici: si pensi, solo per fare un esempio, al modo in cui l’opinione di maggioranza attacca i due dissent, accusando la minoranza liberal di essere portatrice di una ben precisa politica costituzionale (e legislativa) o ancora ai toni irridenti che il relatore riserva all’opinione della Justice Jackson alle pp. 39 ss., in relazione alle divergenti letture del dissent di Harlan nella decisione Plessy c. Ferguson. Allo stesso modo, il dissent di Sotomayor non risparmia attacchi molto pesanti all’opinione concorrente del giudice Thomas, accusandolo di basarsi su minimi riferimenti di letteratura e, soprattutto, sull’esclusiva autorità delle opinioni da lui stesso firmate in passato; e si pensi ancora al passaggio in cui Sotomayor accusa l’opinione di maggioranza di voler ipocritamente temperare gli effetti della propria decisione – attribuendo residua limitata rilevanza ai riferimenti alla razza eventualmente contenuti negli application essays – imbellettando, testualmente, un maiale (“is nothing but an attempt to put lipstick on a pig”: Sotomayor, dissenting, p. 47). Se pure il confronto acceso tra diverse posizioni non è nuovo nella giurisprudenza della Corte, pare di essere molto lontani – ormai – dal respectful dissenting che aveva caratterizzato storiche contrapposizioni (come quella, ad esempio, tra Antonin Scalia e Ruth Bader Ginsburg) e, soprattutto, pare di poter riconoscere in toni così aspri la traccia della contesa in atto sul ruolo della Corte Suprema e sulla crisi della sua legittimazione in un contesto di forte polarizzazione della società statunitense.
L’asprezza dei toni è tuttavia conseguenza anche dell’estrema delicatezza dell’oggetto della decisione che rinvia, in ultima analisi, a grandi alternative di principio sulla stessa interpretazione della Equal Protection Clause del XIV emendamento, nel suo rapporto con la storia e, più precisamente nel caso in esame, con i processi storici di razzializzazione della popolazione nera.
Come accennato, infatti, la decisione in commento rivede i contorni dello strict scrutiny relativo alla classificazione in base alla razza (coessenziale all’azione affermativa), negando la possibilità di assumere quale criterio di giustificazione l’interesse a promuovere la diversity dell’ambiente di studio. Sul punto, almeno tre osservazioni paiono utili a contestualizzare la portata dell’argomento.
In primo luogo – laddove la decisione in commento sembra sminuire l’interesse alla diversity secondo canoni propri della politics of identity – deve essere ricordato che, fin dalla decisione Bakke del 1978, il canone della diversity non è declinato in termini ideologici bensì viene legato funzionalmente alla libertà accademica e alla qualità dell’apprendimento nella misura in cui essa rafforza una atmosfera di “speculation, experiment and creation” (Bakke, p. 312) nella quale l’appartenenza razziale è uno soltanto dei fattori rilevanti; e che, nella decisione Grutter v. Bollinger – che tale canone aveva convalidato e rafforzato – di esso viene sottolineata con forza l’idoneità a produrre benefici “not theoretical, but real” (p. 330).
In secondo luogo, e ciononostante, deve essere sottolineata una certa fragilità del canone della diversity, legata soprattutto all’emersione – a partire dal dissent di Alito nella sentenza Fisher II – della questione della misurabilità del raggiungimento dell’obiettivo; senza dimenticare che, come accennato, proprio il profilo della misurabilità finisce per rendere centrale, nella decisione in commento, la questione del termine di efficacia delle misure. Un ulteriore profilo di debolezza del canone della diversity emerge peraltro dalla comparazione con l’altra ipotesi di giustificazione delle azioni affermative fondate sulla razza, come prospettata – minoritariamente – nella giurisprudenza della Corte a partire dall’opinione separata di Brennan, White, Marshall e Blackmun (così come da quella individuale di Marshall) nella decisione Bakke e oggi ripresa nel dissent di Sotomayor. Mi riferisco, in particolare, all’interesse a porre rimedio alla “societal discrimination” attraverso, appunto, azioni affermative. Un criterio mai accolto dalla Corte che – accanto, fino a oggi, alla promozione della diversity in ambito universitario – ha sempre circoscritto il carattere rimediale delle azioni affermative rispetto a puntuali episodi di discriminazione razziale, escludendone ogni potenzialità di carattere strutturale e sistemica.
Sottolineo questo aspetto perché esso si lega – in terzo luogo – a una vera e propria alternativa di principio (e di sistema) nell’interpretazione della Equal Protection Clause, che emerge con particolare evidenza, nella decisione in commento, dal raffronto tra le opinioni dissenzienti e l’opinione concorrente del giudice Thomas. Ciò che la Corte nega – per bocca della maggioranza e del giudice Thomas – è infatti qualunque virtualità rimediale e trasformativa della Equal Protection Clause: l’idea, cioè, che la costruzione di eguaglianza (anche attraverso azioni affermative) risponda a logiche di tipo aspirazionale (lo sottolinea esplicitamente Justice Jackson nel dissent) e, appunto, trasformativo.
Un’alternativa, questa, che risale per vero alle stesse confliggenti interpretazioni della legacy della sentenza Brown del 1954 sulla quale, non caso, maggioranza e dissenzienti si confrontano aspramente anche in questa occasione. Come affermato dalla giudice Sotomayor, in contrapposizione con l’opinione concorrente di Thomas, Brown non ebbe l’obiettivo di affermare una “formalistic rule of colorblindness” ma di trasformare e integrare il sistema scolastico e, con esso, la società statunitense (p. 12). A tale interpretazione di Brown – e dello stesso XIV emendamento – è proprio Thomas a contrapporre una serrata critica del paradigma antisubordinazione e, con esso, della possibilità di interpretare le dinamiche dell’eguaglianza alla luce dei contesti e dunque delle disuguaglianze strutturali o sistemiche (di cui dà invece una prova estremamente suggestiva, soprattutto per la dovizia di dati, il dissent di Jackson). Secondo Thomas, l’unica possibile lettura del XIV emendamento – in chiave originalista – è quella che dà adito a una colorblindness di carattere formale. Thomas – seguito in questo dall’opinione concorrente di Gorsuch – ritiene di ricavare tale lettura direttamente dall’opinione dissenziente di Harlan nella decisione Plessy v. Ferguson del 1896; ciò attira le critiche serrate dei dissenzienti, che contestano radicalmente la lettura in chiave formalistica di una opinione – quella di Harlan – che mirava a criticare la regola del separate but equal anzitutto a partire dai concreti assetti di subordinazione nelle relazioni tra razze, insistendo – in aperta contrapposizione con la maggioranza – proprio sulla capacità della Costituzione (e della legislazione) di trasformare e sovvertire tali assetti.
Secondo la decisione in commento, eliminare le discriminazioni razziali significa invece eliminarle completamente (all of it). Nessun trattamento differenziato è, insomma, ammissibile, “wheter intended to help or to hurt” (Thomas, concurring, p. 2).
Simile ricostruzione viene accusata, dalla minoranza, di superficialità e di flatness (Jackson, dissenting, p. 25). La Equal Protection Clause, secondo la minoranza, va letta in chiave trasformativa, attenta cioè alla correzione dei processi storici di razzializzazione – e cioè di concreta subordinazione e umiliazione – della popolazione nera: e in questa declinazione della Equal Protection Clause è riconosciuto un profilo di continuità che lega Brown a Bakke, Grutter e Fisher. Costruire l’eguaglianza richiede il riconoscimento delle disuguaglianze e il loro superamento, e non certo la loro cancellazione in termini formali.
La distanza, come si vede, non potrebbe essere maggiore e nasconde – a ben vedere – opzioni radicalmente diverse in merito alla stessa formula di convivenza. Da una parte, l’affermazione di un’eguaglianza solo formale, che affida il superamento delle disuguaglianze ai meriti individuali: ciò che importa non sono le barriere che i neri incontrano sul loro cammino, ma il modo in cui decidono di affrontarle (Thomas, concurring, p. 51). Dall’altra, una ben più esigente articolazione del rapporto tra eguaglianza ed esperienza giuridica (e politica), in cui coesione e giustizia sociale sono l’esito di una positiva azione politica, tradotta in strumenti giuridici efficaci e adeguatamente sintonizzati sulla realtà (Sotomayor, p. 48). Il discorso dovrebbe a questo punto allargarsi a ricomprendere il nesso tra le diseguaglianze razziali nell’accesso all’università e le caratteristiche strutturali del sistema universitario statunitense, intravisto soltanto – e assai parzialmente – nel dissent di Jackson e sottolineato da alcuni commentatori. Ciò esulerebbe dai limiti del presente scritto. Resta fermo, tuttavia, che anche tale aspetto andrà adeguatamente considerato, se si vorranno temperare gli effetti di quella “tragedy for us all” evocata dalla giudice Jackson (p. 29) e che questa decisione rischia, molto concretamente, di determinare.


Genitori in ogni paese: la Corte di Giustizia si pronuncia sulla tutela transnazionale delle famiglie arcobaleno nell’UE

Con la decisione in commento (V.М.А. c. Stolichna obshtina, rayon «Pancharevo», in causa C-490/20) la Corte di giustizia dell’Unione europea interviene su una vicenda – quella della circolazione degli status familiari dei partner di coppie omosessuali e delle loro figlie e figli – molto presente (e urgente) nell’esperienza giuridica degli stati membri. In particolare, la Corte estende alle/ai minori con genitori dello stesso sesso le tutele già assicurate a partire dalla sentenza Coman ai partner omosessuali, coniugati in uno Stato membro, nel caso di trasferimento della residenza in altro stato membro che non riconosca né tuteli la vita familiare delle coppie same-sex e delle famiglie omogenitoriali.
Il caso è quello di una minore nata in Spagna e ivi registrata come figlia di V.M.A., cittadina bulgara, e di sua moglie K.D.K., cittadina del Regno Unito, entrambe indicate come madri nell’atto di nascita. Trasferitasi dalla Spagna in Bulgaria, V.M.A. chiedeva alle autorità bulgare il rilascio di un documento di identità, previa trascrizione integrale dell’atto di nascita e, dinanzi al rifiuto oppostole, adiva il Tribunale amministrativo di Sofia. Quest’ultimo, investito della controversia, sollevava rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia chiedendo se le pertinenti disposizioni di diritto primario (in particolare l’art. 4.2 del TUE e gli artt. 20 e 21 del TFUE) e della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (in particolare gli artt. 7, 24 e 45) debbano essere interpretate nel senso di imporre alle autorità bulgare di riconoscere lo status filiationis attribuito in Spagna nei confronti di entrambe le madri.
La decisione si iscrive in un quadro evolutivo delle politiche dell’Unione che è sempre più sensibile al rafforzamento delle tutele per le soggettività LGBTIQ+, anche sul piano della tutela della vita familiare. Si pensi, per un verso, alla Strategia per l’uguaglianza delle persone LGBTIQ 2020-2025, comunicata dalla Commissione il 12 novembre 2020 e che prevede – al par. 3.2 – specifiche azioni per migliorare la protezione giuridica delle famiglie arcobaleno in situazioni transfrontaliere, alla luce del principio secondo cui “chi è genitore in un paese, è genitore in tutti i paesi”. Ma si pensi, più in generale, alle numerose prese di posizione della Commissione e del Parlamento in relazione alle ricorrenti violazioni dei diritti delle persone LGBTIQ+ in stati membri come Ungheria o Polonia le quali – profondamente legate alla situazione di sofferenza e fragilità delle garanzie dello stato di diritto in quei due paesi – sono state oggetto di attenzione specifica in ormai numerose risoluzioni del Parlamento europeo (si v. in particolare le risoluzioni del 18 dicembre 2019, del 11 marzo 2021 – con la proclamazione dell’UE come zona di libertà per le persone LGBTIQ; e ancora alle risoluzioni del 8 luglio 2021 e del 14 settembre 2021).
Anzitutto in questo quadro deve essere dunque letta la decisione in esame che, in quanto riguardante una fattispecie di circolazione degli status all’interno dell’UE, evoca il conflitto – e, correlativamente, la ricerca di un equilibrio – tra identità nazionale, per come rifratta nell’interpretazione del concetto di ordine pubblico, e tutela dei diritti fondamentali garantiti dal diritto UE, in uno con il superiore interesse del minore.
La decisione della Corte si pone in continuità con il precedente Coman e con la consolidata giurisprudenza in materia: ferma restando l’esclusiva competenza dello stato membro in merito all’an e al quomodo del riconoscimento della vita familiare omosessuale, sussiste l’obbligo di assicurare alla minore il pieno godimento dei diritti che discendono dal suo status di cittadina dell’Unione – a partire dalla libera circolazione nel territorio dell’UE – attraverso il riconoscimento del suo status di figlia di entrambe le madri.
A ciò non osta, in particolare, il contrasto di tale riconoscimento con l’ordine pubblico, invocato dal giudice del rinvio anche in relazione alla “tradizione costituzionale bulgara […] sia sotto il profilo puramente giuridico sia sotto il profilo dei valori, tenuto conto dello stadio attuale di evoluzione della società in Bulgaria” (cfr. par. 28). Come si legge al par. 55 della decisione, infatti, la nozione di ordine pubblico, ove invocata – come nel caso di specie – al fine di derogare a una libertà fondamentale garantita dal diritto UE “dev’essere intesa in senso restrittivo” e, soprattutto, “la sua portata non può essere determinata unilateralmente da ciascuno stato membro senza il controllo delle istituzioni dell’Unione”. In altri termini, il riferimento all’identità nazionale – che rimane libera di esprimersi negli assetti dati alla materia dal diritto interno dello stato membro – non può spingersi fino a pregiudicare, attraverso lo specifico rilievo del concetto di ordine pubblico, l’esercizio di diritti e libertà fondamentali garantito alla minore dal suo status di cittadina dell’UE. Se è vero, cioè, che la determinazione dello status delle persone – anche con riferimento al matrimonio e alla filiazione – rientra nelle competenze degli stati membri, è altrettanto vero che “nell’esercizio di tale competenza, ciascuno Stato membro deve rispettare il diritto dell’Unione e, in particolare, le disposizioni del Trattato FUE relative alla libertà riconosciuta a ogni cittadino dell’Unione di circolare e di soggiornare nel territorio degli Stati membri, riconoscendo, a tal fine, lo status delle persone stabilito in un altro Stato membro conformemente al diritto di quest’ultimo” (par. 52).
Parimenti rilevante, nell’iter argomentativo della Corte, la ricostruzione del complesso di diritti spettanti alla minore e l’iscrizione del medesimo – per un verso – nel quadro della nozione di vita familiare desumibile dall’articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali e, per l’altro, in relazione alla portata espansiva della cittadinanza dell’Unione.
Quanto al primo profilo, è senz’altro degna di nota l’interpretazione dell’articolo 7 della Carta alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Decisiva in questa prospettiva, anzitutto, la declinazione della nozione di vita familiare elaborata dalla giurisprudenza di Strasburgo che – in un luogo di una nozione impostata dogmaticamente – la interpreta quale “questione di fatto dipendente dalla realtà pratica di stretti legami personali” e che, in tale quadro, consente di ritenere che “la possibilità per un genitore e il figlio di essere insieme rappresenta un elemento fondamentale della vita familiare”. Egualmente rilevante, come ovvio, il riconoscimento – a partire dalla sentenza Schalk et Kopf v. Austria – che l’esperienza di vita delle coppie omosessuali (e poi anche delle famiglie a cui queste coppie danno vita) rientra a pieno titolo nella nozione di vita familiare (cfr. par. 61). La scelta di rendere esplicita l’interpretazione “convenzionalmente orientata” della Carta conferma le virtualità della relazione tra ordinamenti giuridici – come inverata nell’articolazione del parametro di giudizio – ai fini dell’allargamento degli spazi di libertà e di effettivo godimento dei diritti fondamentali; e conferma altresì che tale scelta argomentativa assume particolare rilievo, in chiave di rafforzamento della stessa legittimazione della decisione, in relazione ad aspetti del caso sui quali non si registri ancora un quadro interpretativo consolidato. Si noti, al riguardo, che l’interpretazione della Carta alla luce della Convenzione investe la nozione di vita familiare ma non anche, ad esempio, la portata degli articoli 24 e 45 della Carta, in materia di interesse della minore (sui quali maggiormente consolidato appare il quadro di riferimento).
Quanto al secondo profilo, la circostanza che la minore sia cittadina dell’Unione assume un rilievo centrale nell’iter decidendi e, a ben vedere, ne fonda e condiziona gli sviluppi. Infatti, è dal possesso della cittadinanza UE che discende la necessità di assicurare alla minore il godimento della fondamentale libertà di circolare nel territorio UE, in modo pieno ed effettivo e, soprattutto, adeguato alla sua esperienza di vita familiare (che essa, cioè, possa circolare liberamente con ciascuna delle sue madri). Nel prisma della cittadinanza – “status fondamentale dei cittadini degli Stati membri” (par. 41) – si registra così la faticosa emersione, nella cornice del processo di integrazione, dell’istanza individuale come nodo di resistenza rispetto al rilievo della posizione degli stati membri e dei loro interessi. Una dinamica già presente nella giurisprudenza eurounitaria sui diritti fondamentali, certo; ma che nella cittadinanza trova un momento di unificazione e interna armonizzazione.
Pur nella netta affermazione del principio, la Corte non si spinge tuttavia sino a imporre allo stato membro specifiche forme di riconoscimento dello status attribuito nello stato membro di provenienza. Infatti, la trascrizione dell’atto di nascita, afferma la Corte al par. 50, “può” (e non già deve) rappresentare lo strumento più idoneo per assicurare alla minore il diritto di circolare con entrambe le madri; e allo stesso modo, nel definire l’estensione dell’obbligo di riconoscimento posto in capo allo stato membro, la Corte precisa che esso non si spinge fino ad imporre di riconoscere il rapporto di filiazione “a fini diversi dall’esercizio dei diritti che a tale minore derivano dal diritto dell’Unione” (par. 57).
Ciononostante, la decisione in commento segna un significativo avanzamento nella tutela della vita familiare omosessuale nell’ordinamento dell’UE. E, soprattutto, fissa ancora una volta il punto di equilibrio tra salvaguardia dell’identità nazionale e della tradizione costituzionale interna e l’istanza di piena effettività dei diritti fondamentali, a netto favore di quest’ultima: un insegnamento che, in tempi di sovranismi, si spinge a ben vedere molto al di là del rilievo del caso dedotto in giudizio.


An elephant in a mousehole? La Corte Suprema e il divieto di licenziamento sulla base dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere

Con una decisione molto attesa, pubblicata il 15 giugno 2020, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha affermato che i licenziamenti discriminatori per ragioni fondate sull’orientamento sessuale e sull’identità di genere rientrano nell’ambito di applicazione del Titolo VII del Civil Rights Act del 1964, nella parte in cui esso vieta di discriminare la lavoratrice o il lavoratore «because of such individual’s […] sex» (per un primo commento, v. anche Sperti). L’effetto della decisione è quello di estendere al livello federale quanto già previsto in un numero significativo di stati, e cioè la tutela antidiscriminatoria delle persone LGBT+ sul luogo di lavoro: dopo cinque anni dalla sentenza Obergefell v. Hodges, sette da Windsor v. United States e diciassette da Lawrence v. Texas, giugno si conferma così «mese dell’orgoglio» anche per la Corte Suprema, che muove un ulteriore passo in avanti sulla strada del riconoscimento di piena pari dignità sociale alle persone LGBT+.
Peraltro, è interessante notare come – forse per la prima volta in una sentenza della Corte che riguarda la condizione delle persone LGBT+ – non si registrino, tra i giudici, divergenze in merito alla necessità di tutelare le persone omosessuali, bisessuali e transgender dalle discriminazioni sul luogo di lavoro: anche nei due dissent, infatti, tale esigenza è apertamente riconosciuta mentre i giudici divergono sulle modalità idonee al raggiungimento di tale obiettivo (e in particolare sulla possibilità di perseguirlo per via giudiziale). Uno scenario non scontato – se solo si pensa ai toni ben più accesi delle opinioni dissenzienti ancora in Obergefell – e in sintonia con un’evoluzione culturale probabilmente accentuata, per contrasto, dalle frequenti prese di posizione dell’attuale Presidente degli Stati Uniti in materia.
Come spesso avvenuto per decisioni miliari in materia di diritti fondamentali e inclusione di nuove soggettività nel panorama delle tutele offerte dall’ordinamento giuridico, anche in questo caso la sentenza incrocia questioni rilevanti nel dibattito nordamericano, come l’equilibrio tra ruolo della Corte Suprema e ruolo del Congresso (e, dunque, la tenuta stessa del principio di separazione dei poteri) e la controversia sui metodi di interpretazione. A questi due profili se ne aggiunge un terzo, che emerge con particolare evidenza dai due dissent (specie nell’opinione firmata dal giudice Kavanaugh) e riguarda la portata – e le implicazioni future – dell’interpretazione data alla clausola antidiscriminatoria: il tema, più in particolare, è quello dell’asserita assimilazione tra sesso, orientamento sessuale e identità di genere ai fini dell’applicazione della clausola, e dei suoi effetti.
Quanto al primo profilo, la contrapposizione tra opinione della maggioranza e dissent non potrebbe essere più netta. Se infatti Gorsuch, per la maggioranza, è molto chiaro nel ricondurre l’iter argomentativo nei limiti delle potenzialità interpretative del testo – con la significativa precisazione che «the limits of the drafters’ imagination supply no reason to ignore the law’s demands» (p. 2) – altrettanto netta è la posizione critica di Alito e Thomas, che aprono il proprio dissent affermando recisamente che «there is only one word for what the Court has done today: legislation» (p. 1). Analogamente, nelle prime righe del dissent di Kavanaugh risuona con forza la domanda «who decides?» (p. 1). Grande rilievo è dato, in entrambi i dissent, ai molti tentativi del Congresso di estendere la tutela antidiscriminatoria prevista dal Titolo VII, mai andati a buon fine: il Congresso, afferma Kavanaugh, sa bene come colpire le discriminazioni fondate su orientamento sessuale e identità di genere, lo ha fatto in molti casi, ma non ancora per quel che riguarda la protezione offerta dal Titolo VII del Civil Rights Act.
La controversia sul ruolo della Corte è ricondotta al tema dei confini dell’interpretazione piuttosto che, come avvenuto in passato, alla più ampia questione dell’individuazione della sede più idonea a dare risposta a domande di riconoscimento e protezione (e della ricerca di equilibri, in questa prospettiva, tra Corti e processo politico): non si riscontra, in altri termini, nulla di simile all’avvertimento con cui, cinque anni fa, si concludeva la sentenza Obergefell, e secondo cui «the dynamic of our constitutional system is that individuals need not await legislative action before asserting a fundamental right» (p. 24). Una differenza dovuta senza dubbio ai diversi contorni del caso all’esame – l’estensione di un diritto fondamentale, in Obergefell; la definizione della portata di una norma antidiscriminatoria, in Bostock – ma anche, almeno in parte, al diverso profilo culturale dei relatori.
In questa prospettiva, l’aspetto forse più significativo della decisione è l’uso peculiare che essa fa del testualismo, inserendosi in un dibattito divenuto di recente più vivace (legandosi anche, ad esempio, alla presa di posizione di Vermeule), e che vede contrapposte diverse declinazioni delle virtualità del testualismo stesso (e dei suoi complessi legami con l’originalismo): da quelle, classiche, di stampo conservatore a quelle – valorizzate dalla sentenza in commento – di carattere progressivo (sul punto, si rinvia alle interessanti riflessioni di Cezzi). Anche su questo profilo, la contrapposizione tra le diverse “voci” della decisione non potrebbe essere più aspra. L’opinione di maggioranza, da un lato, si sforza meticolosamente di condurre la propria operazione interpretativa nell’alveo della fedeltà al testo; i due dissent, dall’altro, criticano radicalmente tale approccio. E laddove Alito definisce senza mezzi termini l’operazione condotta dalla maggioranza nei termini di un atto di «pirateria» nei confronti del testualismo (p. 3), Kavanaugh si interroga – più in profondità – sulla correttezza dell’individuazione della portata della norma del Titolo VII, anche in relazione allo «ordinary meaning» della clausola e, soprattutto, al contesto in cui venne approvata e, per molti anni, applicata.
Tali critiche – venendo infine al terzo profilo – sembrano però provare troppo. L’opinione di maggioranza – contrariamente a quanto ritenuto nei dissent – non assimila il sesso all’orientamento sessuale e all’identità di genere, né le discriminazioni operate su questi diversi presupposti: non tenta di trovare an elephant in a mousehole (cfr. p. 19). Non siamo cioè in presenza – in termini più familiari alla nostra tradizione – di una interpretazione “estensiva” del termine sesso, volta a ricomprendere in esso le diverse nozioni di orientamento sessuale e identità di genere. L’operazione è più complessa, e viene condotta lungo due direttrici principali. Per un verso, la Corte enfatizza la soggettivizzazione della clausola antidiscriminatoria di cui al Titolo VII (che protegge individui, e non gruppi), mantenendo ben salda sullo sfondo l’analisi dell’effettivo impatto del trattamento discriminatorio sulla condizione di vita delle e dei ricorrenti. Per altro verso, ferma restando la specifica dignità delle diverse dimensioni di vita coinvolte, la Corte non può fare altro che interrogarsi sulla concreta dinamica della discriminazione, scomponendola dal punto di vista logico e ragionando sulla rilevanza del sesso nella decisione discriminatoria (se cioè esso sia elemento decisivo o meno e se possa dirsi, nella logica but-for che in presenza di un soggetto di sesso diverso, diversa sarebbe stata anche la decisione dell’employer). Non è dunque il significato del termine «sex» ad essere intaccato ed esteso fino ricomprendere orientamento sessuale e identità di genere; è la discriminazione sulla base del sesso a rappresentare, in qualche modo, un passaggio preliminare ed essenziale per la discriminazione basata su orientamento sessuale e identità di genere. In altri termini, nelle parole della Corte «we agree that homosexuality and transgender status are distinct concepts from sex […] but […] discrimination based on homosexuality or transgender status necessarily entails discrimination based on sex; the first cannot happen without the second» (p. 19). Una distinzione che Alito e Kavanaugh, seppur da diverse prospettive, non colgono, rimanendo ancorati ai canoni di una polemica tutta interna al “fronte” testualista.
Così circoscritta la portata dell’operazione interpretativa, non possono tacersi – al netto del concreto impatto che la decisione della Corte avrà sulla vita di milioni di lavoratrici e di lavoratori LGBT+ – alcune perplessità legate, per così dire, alla perpetuazione di una assenza. In altri termini, alle persone LGBT+ è accordata concreta protezione, ma la soluzione argomentativa prescelta dalla Corte rischia mettere tra parentesi il rilievo di orientamento sessuale e identità di genere come specifici «grounds» di discriminazione. Certo, era difficile procedere diversamente, volendo accordare tutele sostanziali; e certo, il risultato ha il pregio di includere anche quelle dimensioni di vita e di esperienza nell’ambito di applicazione della norma. Ma, per quel che riguarda le dinamiche di riconoscimento, l’operazione resta in qualche misura monca. Lo rivela, paradossalmente, il dissent di Kavanaugh laddove rivendica – seppur al fine di criticare l’opinione di maggioranza – la specificità storico-culturale delle lotte costruite per superare le diverse discriminazioni («Seneca Falls was not Stonewall», si legge a p. 13), e anche – aggiungiamo noi – la specificità esistenziale del vissuto di discriminazione.
Alzando lo sguardo dal testo, ci si può dunque domandare se un risultato tanto atteso non sia stato ottenuto al prezzo di una doppia neutralizzazione (esistenziale e storico-culturale), la quale – se non adeguatamente sorvegliata – rischia di condurre, in futuro, ad indebite assimilazioni.

 


La “porta stretta”: qualche riflessione sull’apertura della Corte costituzionale alla “società civile”

La modifica delle norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale – annunciata con un comunicato stampa dell’11 gennaio e pubblicata sulla Gazzetta ufficiale del 22 gennaio 2020 – è stata accolta con favore da una parte della dottrina, che vi ha riconosciuto un segno di trasparenza, apertura e dialogo con la società civile (Lecis, Groppi, Finocchiaro).
Altra dottrina – pur non disconoscendo il carattere innovativo delle modifiche introdotte – le ha inquadrate criticamente nell’ambito della trasformazione dei complessi equilibri che caratterizzano il rapporto della Corte con lo spazio pubblico (Ridola). Simile inquadramento consente, per un verso, di sdrammatizzare la polarizzazione tra antagonismo e apertura e, per altro verso, di riflettere su intensità e modi di articolazione di quel rapporto, alla luce del dato storico-comparativo, dell’immersione dei processi interpretativi in contesti culturali dai contorni mutevoli e sfumati e, soprattutto, del loro ancoraggio (anche) nella responsabilità dell’interprete stesso, la quale inevitabilmente viene esercitata in condizioni assai lontane dai canoni di un asettico isolamento.

L’esigenza di regolare l’apertura pare collegarsi, altresì, alla progressiva concretizzazione del sindacato di legittimità costituzionale, vale a dire alla tendenza a considerare con intensità crescente le concrete circostanze del caso dedotto nel giudizio principale, nel prisma del quale il giudizio sulle norme oggetto della questione di legittimità costituzionale viene incanalato: per limitarsi ad alcuni sommari esempi, si considerino gli specifici caratteri del giudizio di ragionevolezza, ma anche il peculiare rilievo dei fatti nel sindacato sui cd. automatismi legislativi. Di recente, poi, decisioni come l’ordinanza n. 207/2018 e la (conseguente) sentenza n. 242/2019 hanno mostrato in modo suggestivo le virtualità dispiegate in giudizio dal peso specifico delle storie e delle esperienze di vita da cui origina la domanda di giustizia costituzionale.
Allo stesso tempo – e impregiudicata ogni più approfondita riflessione sui caratteri delle operazioni interpretative affidate alla Corte – il giudizio di legittimità costituzionale si è andato via via allontanando dal rassicurante rigore di una articolazione sillogistica del rapporto tra oggetto e parametro, il quale appare piuttosto arricchito dal rilievo delle relazioni di oggetto e parametro con i contesti in cui sono immersi e chiamati a operare.
Un processo, quello così sommariamente descritto, che – per un verso – qualifica la collocazione della Corte nello “spazio pubblico” e, per altro verso, pare in larga misura condizionato non solo dalla crescente complessità delle domande di giustizia rivolte alla Corte stessa, ma anche dal rapporto, teso e non di rado conflittuale, tra essa e il legislatore.
In questo quadro, pare possibile scorgere un legame profondo tra “apertura” (o addirittura “partecipazione”, seppur con le specificità che le sono proprie) della Corte alle dinamiche dello spazio pubblico e l’esigenza – che alla Corte è affidata – di mantenere in tensione critica il rapporto tra diritto e vita attraverso le maglie (più o meno strette) del giudizio di legittimità costituzionale.

La modifica delle norme integrative interviene in tre direzioni. Anzitutto, viene codificata la giurisprudenza (alquanto severa) sull’intervento nei giudizi sollevati in via incidentale (cfr. il nuovo art. 4, comma 7, a mente del quale “nei giudizi in via incidentale possono intervenire i titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto dedotto in giudizio”): alla luce di tale innovazione, si limita l’accesso degli intervenienti agli atti processuali (art. 4-bis, comma 1), salva la possibilità di chiedere e ottenere un sindacato anticipato sull’ammissibilità dell’intervento (cfr. art. 4-bis, commi 2 e ss.). Come notato nei primi commenti, simile meccanismo riprende, nella ratio, le istruzioni presidenziali del 21 novembre 2018, provvedendo tuttavia a limarne i profili più spigolosi.

Quasi a bilanciare le modifiche relative agli interventi in giudizio, il nuovo articolo 4-ter, comma 1, consente a “formazioni sociali senza scopo di lucro” e “soggetti istituzionali, portatori di interessi collettivi o diffusi attinenti alla questione di costituzionalità” di presentare una “opinione scritta”. Il successivo comma 5 circoscrive il rilievo processuale della posizione degli amici curiae: essi, infatti, non assumono la qualifica di parte, non hanno accesso agli atti e, soprattutto, non hanno facoltà di partecipare all’udienza. In aggiunta, la memoria deve essere presentata entro un termine piuttosto breve (ma che ricalca quello previsto dall’art. 4, comma 4 per il deposito dell’intervento), deve mantenersi entro dimensioni contenute (25.000 battute) e, soprattutto, la sua ammissione è soggetta alla valutazione del Presidente (cfr. art. 4-ter, commi 2 e 3).
Da un lato, dunque, si persegue un’apertura; dall’altro – e in attesa di valutare la prassi applicativa dell’istituto – la concreta disciplina dell’amicus curiae desta talune perplessità, specie in relazione alla garanzia dell’effettiva incidenza in giudizio degli argomenti introdotti: ciò, non tanto con riferimento alla previsione di filtri o ai limiti dimensionali, né al mancato accesso agli atti (coerente con l’assenza della qualità di parte) quanto piuttosto all’esclusione degli amici curiae dalla partecipazione all’udienza.
Pare dunque legittimo domandarsi – non senza un cenno di provocazione – se le concrete modalità di partecipazione al giudizio di soggetti esterni al giudizio principale (eppure titolari di interessi che, seppur non immediatamente inerenti a esso, ne risultano astrattamente incisi) contribuiscano effettivamente a scalfire, nonostante gli obiettivi dichiarati, la premessa di una radicale separazione (e finanche di un malcelato antagonismo) tra la Corte e gli attori dello spazio pubblico. Agli argomenti da essi recati viene infatti dato ingresso in Corte, ma al di fuori della dinamica del contraddittorio (esclusione solo minimamente temperata dalla previsione di cui al comma 4 dell’art. 4-ter, che prevede la trasmissione del decreto di ammissione dell’opinione dell’amicus curiae alle parti costituite, almeno trenta giorni prima dell’udienza).
Viceversa, una procedimentalizzazione della partecipazione maggiormente coerente con gli istituti del diritto processuale “comune” – ad esempio attraverso l’allargamento delle maglie della giurisprudenza della Corte in materia di intervento – avrebbe forse consentito di soddisfare l’esigenza di regolare l’apertura in modalità tali da garantire una adeguata articolazione del rapporto tra Corte e attori dello spazio pubblico: un rapporto potenzialmente conflittuale, ma non per questo necessariamente antagonistico o fondato sulla premessa di una rigida separazione. In altri termini, un più deciso inquadramento della partecipazione secondo canoni processualistici avrebbe forse consentito di declinare la relazione tra giudizio e spazio pubblico nel senso di una più efficace cooperazione. Se è vero infatti che la Corte non è un’agorà (così ancora Ridola) o, ancora peggio, una tribuna, è altrettanto vero che, proprio per questo, l’apertura del processo costituzionale agli apporti della società civile non è soltanto l’occasione per amplificare rivendicazioni o posizioni di principio largamente presenti nella società, bensì piuttosto uno dei possibili canali per mantenere in relazione cooperativa la responsabilità dell’interprete e le molteplici sollecitazioni provenienti dallo spazio pubblico.

Anche la possibilità di audire esperti – terza innovazione apportata in sede di modifica delle norme integrative – suscita perplessità analoghe, che non si rivolgono cioè tanto all’opportunità di tale scelta quanto piuttosto alle concrete modalità con le quali essa è stata disciplinata.
In attesa delle prime esperienze applicative, non è possibile evitare di notare che la scelta degli esperti da audire ricade interamente sul collegio. Si pone, in altri termini, un problema specifico inerente al contraddittorio o, al limite, alla necessaria garanzia del pluralismo nella scelta degli esperti “di chiara fama”; è vero, infatti, che alle parti è riconosciuta la possibilità di formulare domande agli esperti (sebbene, si badi, dietro autorizzazione del Presidente) ma, al contempo, alle parti non è data facoltà di interloquire con la Corte in merito alla scelta dei medesimi o, al limite, di proporre esse stesse la convocazione di esperti, fermo restando l’apprezzamento del collegio. Anche in questo caso, peraltro, una maggiore coerenza con il diritto processuale “comune” – il pensiero va, come ovvio, all’istituto della consulenza tecnica – avrebbe forse assicurato un maggiore equilibrio. Esistono materie nelle quali, infatti, l’estrema complessità tecnica si accompagna a una altrettanto estrema sensibilità sul piano etico, la quale può rinviare, non di rado, a contrapposte opzioni di principio suscettibili di incidere sull’approccio alle questioni oggetto di audizione. In mancanza, è inevitabile che l’apprezzamento della “chiara fama” degli esperti resti affidato alla responsabilità del collegio laddove invece una qualche forma di contraddittorio avrebbe forse potuto fornire elementi di maggiore garanzia.

In conclusione, la porta – stretta – aperta dalla Corte costituzionale le consentirà di affacciarsi su un territorio inesplorato, che solo in parte rinvia a una ordinata cooperazione con gli attori dello spazio pubblico: le modalità prescelte per regolare questa apertura non permettono, secondo il parere di chi scrive e in attesa di verificare la prassi applicativa, di affermare con certezza se vi saranno virtualità positive e quale sarà la loro portata.


“Life without dignity is like a sound that is not heard”: dalla Corte suprema dell’India, l’ultima parola sulla section 377 del Codice penale

Con la decisione Navtej Singh Johars & Ors v. Union of India, depositata il 6 settembre 2018, la Corte Suprema Indiana torna a pronunciarsi sull’art. 377 del Codice penale indiano, in tema di repressione dei comportamenti sessuali “contrari all’ordine della natura”, dichiarandolo incostituzionale. La decisione segue di quattro anni la sentenza resa nel caso Suresh Kumar Koushal and another v. Naz Foundation and others [(2014) 1 SCC 1], con la quale la Corte, in composizione ristretta, aveva ritenuto la non contrarietà a Costituzione della section 377, riformando la decisione della Corte Suprema di New Delhi in Naz Foundation v. Government of NCT of Delhi and others [(2009) 111 DRJ 1].
La pronuncia pone termine ad un dibattito assai acceso – nella società indiana – relativo sia al merito della questione, sia all’opportunità che a dirimerla intervenisse (nuovamente) la Corte Suprema, in luogo del legislatore. Su questo profilo, peraltro, la Corte si è espressamente pronunciata, anche alla luce del fatto che era stato lo stesso Governo, nel costituirsi, a delegare la soluzione della questione alla “saggezza” (wisdom) della Corte. Al riguardo la Corte è molto netta nel collocare i propri rapporti con il legislatore nel quadro di un equilibrio tra i due poli dell’interpretazione evolutiva della Costituzione (trasformative) e della funzione contromaggioritaria della Corte stessa (cfr. par. 89 op. del Chief Justice Misra e del giudice Khanwilkar – d’ora in poi CJ – e parr. 97 ss. op. Chandrachud). L’evoluzione dell’ordinamento, affermano Misra e Khanwilkar al par. 89, non può rimanere muta di fronte alla lotta dei soggetti vulnerabili per il riconoscimento e la realizzazione dei propri diritti e, come ribadito nel punto iii) del dispositivo della stessa opinione, “the role of the Courts gains more importance when the rights which are affected belong to a class of persons or a minority group who have been deprived of even their basic rights since time immemorial”. Laddove, pertanto, Suresh aveva riscontrato nel carattere minoritario della comunità LGBT+ una ragione sufficiente per escludere l’incostituzionalità dell’art. 377, la decisione in commento lega la protezione di una classe di soggetti vulnerabili alla trasformazione dell’intera società (cfr. par. 153 op. Chandrachud).
Tale conclusione pare strettamente legata, d’altro canto, allo stesso inquadramento della fattispecie: se infatti, nel precedente Suresh, l’art. 377 era stato interpretato focalizzandosi unicamente sugli atti repressi, indipendentemente dal fatto che questi potessero rappresentare la dimensione espressiva di una identità, nella decisione in esame il giudizio sulla compatibilità della section 377 con gli art. 14 e 15 (eguaglianza e non discriminazione), 19 (libertà di espressione) e 21 (libertà e autonomia personale) della Costituzione indiana viene condotto sulla base di un parametro più ampio e comprensivo, dato dall’intreccio tra dignità, eguaglianza, solidarietà e riconoscimento.
Il riferimento alla dignità consente infatti alla Corte di trascendere la sola dimensione effettuale delle condotte represse (cfr. par. 81 op. CJ), riconoscendo che la loro criminalizzazione non solo ha rafforzato lo stigma nei confronti della comunità LGBT+, ma ha determinato la stessa sua assenza civile, attraverso una vera e propria soppressione delle identità coinvolte (cfr. par. 149 op. Chandrachud): “non-recognition in the fullest sense and denial of expression of choice by a statutory penal provision […] is the central issue involved in the present controversy” (par. 9 op. CJ; v. anche parr. 4 e 24 op. Chandrachud).
Interessante, in quest’ottica, il legame tra riconoscimento delle identità e constitutional legitimacy (par. 84 op. CJ), nel quadro della dottrina del costituzionalismo trasformativo (ivi, par. 95 ss.): l’adeguamento continuo della Costituzione alle dinamiche storico-sociali passa anche e soprattutto attraverso il riconoscimento delle identità, e dunque attraverso l’interpretazione del catalogo dei diritti da parte delle Corti, e la loro realizzazione progressiva.
La dottrina del transformative constitutionalism, peraltro, non si comprende a pieno se non alla luce delle caratteristiche storico-culturali dell’esperienza indiana, e del modo in cui la Costituzione si è rapportata ad esse, perseguendo l’obiettivo di trasformare una società gerarchicamente ordinata in classi in una società di libere, liberi e uguali (cfr. op. Chandrachud, par. 138): allo stesso tempo, tali peculiarità non possono non incidere, secondo la Corte Suprema, sulla definizione del perimetro e dei percorsi dell’interpretazione costituzionale, che devono essere ispirati ad un “sense of engagement” e “a sense of constitutional morality” (parr. 95 e 184 op. CJ).
La rimozione di un ostacolo al libero svolgimento della personalità (il “full blossoming” dell’individuo come “very essence of dignity”, par. 132 op. CJ) delle persone LGBT+ – quale la section 377 – costituisce dunque uno strumento giuridico di riconoscimento dell’identità dei soggetti coinvolti, contribuendo al tempo stesso a trasformare la società e l’esperienza giuridica indiana. La garanzia dell’effettività della dignità attraverso la liberazione di capacità si lega così ad altri tradizionali strumenti di promozione dell’eguaglianza (quali politiche attive e azioni affermative, cfr. ivi, par. 123), nella sinergia tra Corte e processo politico (cfr. ivi, par. 116 e 119). In questo senso, peraltro, lo stesso riferimento alla dignità avviene nel quadro del superamento di una concezione solo formale del paradigma antidiscriminatorio come evidente, ad esempio, in alcune considerazioni relative al legame tra section 377 e subordinazione sociale (par. 32 op. Chandrachud).
In tale prospettiva viene declinato anche l’ancoraggio alla privacy, intesa non soltanto come garanzia di libertà nella sfera privata. La Corte sviluppa in questo senso il nesso tra privacy, dignità e autodeterminazione già affermato nella fondamentale sentenza Puttaswamy [(2017) 10 SCC 1], che nell’op. Nariman è definita “[an] important nail in the coffin of section 377” (par. 58). In questa prospettiva, definire la libertà di orientamento sessuale come dimensione della privacy non significa relegare la sfera sessuale in ambito privato ma, tutto al contrario, essere liberi dalla paura nello spazio pubblico (cfr. il par. 132 op. CJ, o il par. 4 op. Chandrachud), godere del diritto di essere sé stessi ovunque (par. 62 op. Chandrachud).
La lettura della protezione della privacy alla luce dell’intreccio tra dignità e libertà si traduce così, per un verso, nell’ancoraggio del giudizio di eguaglianza al riconoscimento delle identità coinvolte e di spazi di autodeterminazione (cfr. ad es. il par. 165 dell’op. del CJ); per altro verso, trascende lo spazio privato, per condizionare le dinamiche di convivenza, riconoscendo che all’identità deve essere data la possibilità di esprimersi anche nello spazio pubblico. Come già affermato dal giudice Chandrachud nella sua opinione in Puttaswamy, “privacy protects heterogeneity and recognises the plurality and diversity of our culture” (par. 323).
Un ultimo aspetto della decisione su cui pare necessario soffermarsi è il diffuso ricorso all’argomento comparativo: l’esperienza maturata nell’ordinamento internazionale e in una vasta serie di ordinamenti stranieri è infatti assunta quale strumento interpretativo, nella quasi totalità dei passaggi decisivi delle diverse opinioni. Si pensi, solo per fare alcuni esempi, al richiamo all’esperienza sudafricana o alla giurisprudenza della Corte suprema canadese in materia di interpretazione evolutiva della Costituzione, in sede di articolazione della dottrina del costituzionalismo trasformativo (parr. 91 ss. e 99 ss. op. CJ); ancora, assai dettagliati i richiami alla giurisprudenza statunitense – e a quella della Corte europea dei diritti dell’uomo – in tema di riconoscimento della vita familiare omosessuale e di pari dignità delle persone LGBT+; significativi, infine, i richiami alla giurisprudenza della Corte di giustizia dell’UE in tema di nozione di discriminazione indiretta (par. 93 op. Chandrachud).
L’uso della comparazione ha rappresentato peraltro uno degli aspetti problematici proprio nell’alternarsi di decisioni relative alla section 377. Nella decisione Suresh del 2014, ad esempio, la Corte suprema aveva ritenuto che la decisione impugnata avesse omesso di considerare – in prospettiva critica – l’impatto dei precedenti stranieri sull’identità costituzionale indiana e, con attitudine di chiusura, l’aveva censurata anche sotto tale aspetto. Tutto al contrario, nella decisione in commento, la Corte è molto attenta nel bilanciare il robusto ricorso alla comparazione e ai precedenti stranieri con una altrettanto robusta opera di interpretazione delle garanzie costituzionali interne (cfr. par. 133, op. CJ: il ricorso alla comparazione avviene dopo aver definito senso e portata della dignità nel sistema costituzionale indiano), con il risultato di mantenere in equilibrio la salvaguardia dell’identità costituzionale indiana e l’apertura alla differenza, in chiave di arricchimento critico. Come espressamente affermato dal giudice Chandrachud, il ricorso alla comparazione avviene “not to determine the meaning of the guarantees contained within the Indian Constitution, but to provide a sound and appreciable confirmation of our conclusions about those guarantees” (par. 126). Con una facile suggestione, e riprendendo la nota distinzione risalente a Vicki Jackson, potrebbe così sostenersi – concludendo – che la Corte suprema abbia superato tanto una posizione di Convergence (riscontrabile invece, ad es., nella decisione dell’Alta Corte di Delhi del 2009) quanto la posizione di Resistance adottata nella decisione Suresh, per tentare, con successo, la più impervia strada dell’Engagement, della relazione critica con l’alterità giuridica.


La Corte costituzionale e la conservazione dello status filiationis acquisito all’estero: (molte) luci e (poche) ombre, tra verità biologica e interesse del minore

Con una decisione molto attesa - la n. 272/17 - la Corte costituzionale è intervenuta sulla questione di legittimità costituzionale dell’art. 263 del codice civile, sollevata dalla Corte d’Appello di Milano. Il giudice rimettente, in particolare, dubitava della legittimità costituzionale di tale disposizione, nella parte in cui non consente al giudice – in sede di decisione sull’azione di impugnazione del riconoscimento del figlio – di accogliere detta impugnazione solo ove essa sia effettivamente corrispondente all’interesse del figlio; quali parametri, venivano indicati gli artt. 2, 30, 31 e 117, comma 1 della Costituzione. La vicenda sottoposta all’esame della Corte d’appello di Milano trae origine dalla trascrizione del certificato di nascita formato all’estero, relativo alla nascita di un bambino, figlio di una coppia di cittadini italiani, i quali avevano fatto ricorso, in India, alla gestazione per altri, realizzata attraverso ovodonazione, ottenendo – ai sensi della legislazione indiana – un certificato di nascita attestante per il minore lo status di figlio di entrambi i genitori d’intenzione.
Si tratta, pertanto, di decisione relativa non alla legittimità costituzionale della gestazione per altri (rectius: del divieto di ricorrere ad essa; la stessa Corte d’Appello di Milano, pur prospettandola, aveva escluso di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 12, comma 6, della legge n. 40/2004), bensì alla posizione del minore nato a seguito del ricorso a tale pratica, con particolare riguardo al suo diritto a conservare lo status di figlio del genitore d’intenzione, acquisito nello Stato di nascita in conformità alla legge del luogo: in particolare, la Corte era chiamata a chiarire se l’interesse pubblico alla corrispondenza dello status di figlio alla verità biologica (per la madre) e genetica (per il padre) – il cd. favor veritatis – possa essere bilanciato con l’interesse del minore alla conservazione dello status non corrispondente, nel caso di specie, alla verità biologica (ed in particolare, al fatto del parto).
La decisione della Corte rappresenta l’ultimo di una serie di significativi interventi che – a partire dalla seconda metà degli anni Novanta – hanno accompagnato il processo di riforma che ha investito, per effetto di interventi legislativi e di una corposa giurisprudenza di merito e legittimità, la disciplina giuridica della filiazione, culminato con il D. Lgs. n. 154/13 (che, come noto, ha introdotto nell’ordinamento il principio dell’unicità dello status di figlio, con tutta una serie di conseguenze, anche e soprattutto sul piano della disciplina delle azioni di stato). Un processo senza dubbio complesso, che ha visto il progressivo abbandono – nella costituzione dello status di figlio – della centralità del favor legitimitatis, a favore di più delicati equilibri tra il favor veritatis e la considerazione del miglior interesse del minore, declinato con riferimento alla fattispecie concretamente considerata.
Attraverso una sentenza interpretativa di rigetto, la Corte media tra i due estremi della dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’automatismo legislativo e il suo mantenimento sic et simpliciter. Senza pervenire ad un giudicato di accoglimento, la Corte preferisce dunque lasciare al giudice la valutazione non solo dei termini, ma della stessa esistenza di una concorrenza – caso per caso – tra interesse del minore e favor veritatis. Pur con i limiti derivanti dall’efficacia solo inter partes del giudicato di rigetto – su tutti, il rischio che un giudice possa ritenere insussistente la concorrenza, nel caso concreto, così non tentando nemmeno il bilanciamento – si tratta di una decisione prudente, idonea ad assicurare un equilibrio tra gli interessi in gioco, curvandolo sulle concrete caratteristiche del caso. Peraltro, la ricostruzione dei termini del bilanciamento effettuata dalla Corte – ed in particolare, l’articolazione di una concezione ampia dell’identità personale del minore, atta a ricomprendervi anche il rilievo delle relazioni familiari di fatto (e di intenzione) – sembra allontanare il rischio di esclusioni a priori di una concorrenza tra favor veritatis e interesse del minore.
Assai condivisibilmente, infatti, la Corte esclude che l’“accertamento della verità biologica e genetica dell’individuo costituisca un valore di rilevanza costituzionale assoluta, tale da sottrarsi a qualsiasi bilanciamento” (Diritto, 4.1), pur in presenza di un “accentuato favore” dell’ordinamento per la corrispondenza tra status e “realtà della procreazione”. Tale affermazione è dedotta da una puntuale ricostruzione dell’evoluzione legislativa e della giurisprudenza che mostra come, nel nostro ordinamento, già abbia fatto ingresso da tempo un concetto di filiazione non necessariamente legato alla verità biologica o genetica ed anzi aperto alla considerazione della relazione familiare di fatto e, soprattutto, dell’intenzione e dell’assunzione di responsabilità sottesa alla costituzione del rapporto parentale. Ne consegue – afferma la Corte – che l’ordinamento già consente al giudice di valutare l’interesse del minore alla conservazione dello status, in sede di decisione ex art. 263 c.c. Tale valutazione si lega strettamente ad una declinazione per così dire aperta del concetto di identità personale del minore. Afferma infatti la Corte che la verità biologica della procreazione - sebbene costituisca una componente essenziale dell’identità personale del minore – concorre “insieme ad altre componenti, a definirne il contenuto” (Diritto, 4.1.6).
In sede di bilanciamento, inoltre, il giudice dovrà valutare – precisa la Corte – se l’interesse a far valere la verità prevalga sull’interesse del minore, anche con riferimento all’eventuale rilievo pubblicistico dell’interesse alla verità medesima. Tuttavia, è proprio sull’individuazione dei termini del bilanciamento che deve essere svolto qualche rilievo critico. Ritenuto che la regola di giudizio, in questi casi, “debba tenere conto di variabili molto più complesse della rigida alternativa vero o falso” (Diritto, 4.3), la Corte traccia alcuni caratteri del giudizio “comparativo” tra accertamento della verità e interesse del minore, individuando – quali indicatori del concorrente interesse del minore – la “durata del rapporto instauratosi col minore” e dunque la “condizione identitaria già da esso acquisita”, le modalità del concepimento e della gestazione nonché, infine, la presenza di strumenti giuridici che, in alternativa al riconoscimento (e pur instaurando un legame parentale di tipo diverso), consentano adeguata tutela al minore sotto il profilo della conservazione del rapporto con il genitore non biologico (in questo caso, con la madre di intenzione).
In disparte le considerazioni – che pure potrebbero essere svolte – sul rilievo della durata del rapporto e della sussistenza di altri strumenti giuridici per dare riconoscimento e tutela alla relazione, è in particolare il riferimento al rapporto tra valutazione dell’interesse del minore e modalità del concepimento e del parto che deve essere approfondito.
Si deve escludere, anzitutto, che la sentenza individui un vincolo biunivoco e automaticamente rilevante tra l’interesse del minore e la circostanza che questi sia venuto al mondo grazie ad una tecnica non consentita dal nostro ordinamento. In questo senso, è la Corte stessa ad escludere che – anche nei casi in cui la valutazione comparativa degli interessi sia operata direttamente dal legislatore, o viga un divieto assoluto di ricorso alla pratica procreativa in Italia (come nel caso della surrogazione di maternità) – l’interesse del minore venga automaticamente cancellato (cfr. Diritto, par. 4.2).
D’altro canto, la stessa ipotesi di un nesso tra interesse del minore alla conservazione dello status e modalità della procreazione desta notevoli perplessità: essa rischierebbe, infatti, di sovrapporre acriticamente all’interesse del minore il disfavore dell’ordinamento verso talune tecniche o pratiche di p.m.a. Come sostenuto in dottrina, invece, “nell’attuale diritto di famiglia, secondo i principi costituzionali interni ed europei ed in conformità alle regole civilistiche vigenti, l’attribuzione di stato non può essere determinata dall’esigenza di prevenire e sanzionare condotte dei genitori riprovate dall’ordinamento, ma deve invece guardare all’interesse del figlio” (così G. Ferrando, Gravidanza per altri, impugnativa del riconoscimento per difetto di veridicità e interesse del minore. Molti dubbi e poche certezze, in GenIUS, n. 2/2017, pp. 12 ss., p. 17).
Si tratta di questione non nuova, che la giurisprudenza di merito e legittimità ha più volte affrontato, anche in relazione alla valutazione della contrarietà all’ordine pubblico di status costituiti all’estero, dei quali si richiedeva la trascrizione in Italia, escludendo l’esistenza – e comunque la rilevanza – di simile nesso. Molto chiara, sul punto, Cass., sez. I civ., sent. n. 19599/16, secondo cui “non si può ricorrere alla nozione di ordine pubblico […] per giustificare discriminazioni nei confronti [del minore] a causa della scelta di coloro che lo hanno messo al mondo mediante una pratica di procreazione assistita non consentita in Italia […] Vi sarebbe altrimenti una violazione del principio di uguaglianza, intesa come pari dignità sociale di tutti i cittadini e come divieto di differenziazioni legislative basate su condizioni personali e sociali” (par. 8.3). Si ricordi, inoltre, che proprio la considerazione dell’interesse del nato aveva condotto la Corte costituzionale – nella sentenza n. 162/14 – ad interpretare gli artt. 8 e 9, comma 1 della legge n. 40/2004, ritenendoli pacificamente applicabili anche a tecniche di p.m.a. praticate all’estero (pur se non consentite dalla legge italiana), ed anzi riconoscendo in tale peculiare sfera di applicazione l’originario fondamento della ratio delle disposizioni richiamate. Si tratta, peraltro, di principi affermati anche dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nelle due sentenze “gemelle” Mennesson c. Francia (26.6.2014, ric. n. 65192/11) e Labassee c. Francia (26.6.2014, ric. n. 65941/1), relative proprio ad una ipotesi di diniego di trascrivere l’atto di nascita formato all’estero a seguito di ricorso alla gestazione per altri, vietata dall’ordinamento francese. Come affermato dalla Corte, gli effetti del mancato riconoscimento in Francia dello status filiationis validamente formato all’estero non riguardano solo i genitori, che abbiano scelto di fare ricorso all’estero ad una pratica di p.m.a. non consentita dall’ordinamento francese, ma anche e soprattutto i minori, il cui diritto alla vita privata – “che implica che ognuno debba poter costruire e veder riconosciuta la propria identità personale, anche sotto il profilo dello status filiationis” – risulta pertanto violato (par. 99).
L’operazione di bilanciamento dovrà essere dunque condotta considerando la fattispecie nel suo complesso, e le più recenti evoluzioni della giurisprudenza sul punto: ciò è d’altro canto coerente con lo stesso spirito della decisione della Corte, che esclude qualunque automatismo nella prevalenza di un interesse sull’altro, auspicando una attenta valutazione comparativa da parte del giudice (cfr. ancora Diritto, par. 4.3).
Qualche brevissima considerazione deve essere svolta, infine, sulla valutazione della pratica della gestazione per altri, contenuta in un inciso del par. 4.2 del Diritto, nel quale la Corte afferma – a proposito del rapporto tra rilevanza pubblica del favor veritatis e divieto di ricorso alla surrogazione di maternità (in Italia) – che la maternità surrogata “offende in modo intollerabile la dignità della donna e mina nel profondo le relazioni umane”.
La valutazione del merito di simili affermazioni – dure, e forse poco attente alla varietà di esperienze e relazioni cui la gestazione per altri pure può dare luogo, al di là delle pure presenti e censurabili ipotesi di sfruttamento della capacità procreativa della donna (come messo in luce da una ormai cospicua pubblicistica e da importanti ricerche in ambito psicologico: v. rispettivamente S. Marchi, Mio tuo suo loro, Fandango 2017; S. Golombok, Famiglie moderne, EDRA 2016, N. Carone, In origine è il dono, il Saggiatore, 2016) – richiederebbe una più approfondita disamina, in questa sede preclusa, e relativa ad esempio, in ottica comparativa, alla pluralità di modelli di disciplina della gestazione per altri, e ai differenti livelli di tutela della libertà e della dignità dei soggetti coinvolti, ed in primo luogo della donna e del nascituro (si rinvia, sul punto, al ricco volume a cura di K. Trimmings e P. Beaumont, International surrogacy arrangements: legal regulation at the international level, Hart 2013). Merita però di essere sottolineata, nel metodo, la circostanza che la Corte interviene così in un dibattito delicato, aperto e conflittuale, quale quello sulla gestazione per altri. E lo fa con affermazioni molto nette, che vanno al di là della rilevanza del disfavore ex se desumibile dal divieto penale di ricorso alla g.p.a. di cui all’art. 12, comma 6, della legge n. 40/2004 in sede di valutazione dell’interesse del minore alla conservazione dello status, e non sembrano tenere pienamente conto – nel quadro di una sentenza per altro verso molto attenta al riconoscimento delle relazioni familiari di fatto – non solo della pluralità di modelli ed esperienze, ma anche delle diverse e complesse posizioni emerse in dottrina sul diverso grado di incidenza della pratica proprio sulla dignità della donna e sulle relazioni fondamentali sottese alla gravidanza, al parto e alla scelta di diventare genitori (e questo, sia tra i favorevoli alla pratica, se condotta nel rispetto delle parti coinvolte – come Gattuso – sia tra i contrari – come Niccolai, pp. 50 ss., laddove sembra considerare ammissibili forme di maternità solidale tra donne, pure nel quadro di una ferma condanna della surrogazione – sia tra coloro che hanno assunto una posizione intermedia, pensosa, aperta al rilievo delle diverse esperienze, come Pezzini e, con diversi accenti, Ruggeri).


Un altro piccolo passo verso il riconoscimento dell’omogenitorialità: la Corte costituzionale e la trascrizione dei provvedimenti stranieri di adozione coparentale

Sono state depositate, in data 7 aprile 2016, le motivazioni della decisione (sent. n. 76/2016) con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l’inammissibilità della questione di legittimità costituzionale degli artt. 35 e 36 della legge n. 184/83, in una fattispecie attinente all’efficacia interna di un provvedimento straniero di adozione reso nei confronti del partner omosessuale del genitore biologico.

Come si ricorderà, la Camera di consiglio si era tenuta il 24 febbraio 2016, in pieno dibattito parlamentare sul disegno di legge S. 2081 (unioni civili tra persone dello stesso sesso e disciplina delle convivenze di fatto) ed in particolare mentre era nel vivo la discussione sullo stralcio dell’art. 5 del suddetto ddl, relativo proprio all’estensione alle parti dell’unione civile dell’istituto dell’adozione speciale di cui all’art. 44, lett. b) della legge n. 184/83 (cd. adozione del figlio del coniuge).

Le motivazioni della decisione della Corte – particolarmente attese, anche in ragione della contingenza politica – giungono dunque quando ormai il disegno di legge, pur mutilato di un elemento ritenuto da molti essenziale ad assicurare un adeguato livello di protezione della vita familiare alle coppie omosessuali ed ai loro figli, è stato approvato dal Senato e si trova all’esame della Commissione Giustizia della Camera dei deputati.

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La lotta inconclusa: il difficile cammino delle unioni civili

1. Nonostante il (momentaneo) arresto dell’iter parlamentare di approvazione – dovuto alla concomitanza con la sessione di bilancio – il disegno di legge che introduce le unioni civili tra persone dello stesso sesso continua ad essere al centro del dibattito politico e di quello scientifico. Pare allora opportuno intervenire con qualche indicazione relativa al processo di approvazione, ai contenuti del disegno di legge nonché, soprattutto, ai principali nodi problematici che esso presenta.

2. Gli antecedenti sono noti: fin dal 2010, la Corte costituzionale ha riconosciuto, con la nota sentenza n. 138, che le coppie omosessuali sono una formazione sociale nella quale l’individuo liberamente svolge la propria personalità, ai sensi dell’art. 2 Cost. e che, come tali, meritano riconoscimento giuridico e protezione, nelle forme stabilite dal legislatore. Ritenuto di non poter estendere, in via interpretativa e per mezzo di una sentenza additiva – come pure era richiesto dal rimettente – la disciplina del matrimonio alle coppie omosessuali, la Corte ha rinviato, pertanto, alla discrezionalità del legislatore la scelta in merito alla forma giuridica del riconoscimento, contestualmente formulando un monito e riservandosi di intervenire – pure in assenza di un riconoscimento legislativo – a tutela di specifiche situazioni.

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National Conversation. L’Irlanda e il matrimonio egualitario: spunti per una comparazione

Con il 62,1% dei voti favorevoli, gli elettori irlandesi hanno approvato, nel referendum del 22 maggio scorso, l’emendamento costituzionale volto ad inserire nell’art. 41 della Costituzione un paragrafo che riconosce la parità di accesso all’istituto del matrimonio per tutte le coppie, siano esse etero- od omosessuali (“Marriage may be contracted in accordance with law by two persons without distinction as to their sex”). Come conseguenza dell’approvazione dell’emendamento, si attende ora l’approvazione parlamentare di una legge sul matrimonio gender neutral, prevista entro l’autunno, con la celebrazione dei primi matrimoni già alla fine di quest’anno.

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