Apprendimento e resistenze nel dialogo fra Corte costituzionale e Corte di Strasburgo: il caso del diritto all’anonimato della madre naturale

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Un modo per affrontare il tema delle tradizioni comuni in Europa e le vie con cui le Corti apprendono ciascuna dalle altre – senza necessariamente renderlo esplicito – è scegliere un terreno su cui i giudici nazionali ed europei si siano confrontati e alternati per tentare di verificare se e quali argomenti siano trasmigrati (e come e con quali esiti) a partire dalle rispettive sentenze.

Una delle materie che si presta a questa indagine è quella relativa alla tutela del diritto all’anonimato della madre naturale quando abbia dato in adozione il figlio che ha generato. Si tratta di una materia drammatica e complessa, che tiene insieme e in tensione uno con l’altro gli interessi di almeno tre parti: la madre naturale, che ha scelto di dare il figlio in adozione e si è avvalsa del diritto all’anonimato; il diritto del figlio prima a venire alla luce e poi a conoscere la sua identità, e il diritto della famiglia adottiva e della famiglia naturale a difendere l’assetto e l’economia dei loro legami e affetti. Scegliendo questa materia come punto di osservazione, sarà possibile lumeggiare gli intrecci, la comunanza di soluzioni, le resistenze ma anche i processi di apprendimento che sorgono nel rapporto fra giudici nazionali e sovranazionali (segnatamente fra Corte costituzionale italiana e Corte europea dei diritti dell’uomo).

Molte potrebbero essere le materie utili e significative a questo scopo, specie a partire dalle sentenze gemelle n. 348 e 349 del 2007 della Corte costituzionale che hanno moltiplicato le occasioni di incontro, scontro e di scambio fra la Corte italiana e quella di Strasburgo, ma sarebbe impensabile tentarne una resa esaustiva e complessa. Ho preferito invece assumere una prospettiva fra quelle possibili. Nell’ambito che ho scelto, cercherò di evidenziare come le sentenze di Roma e Strasburgo si siano alternate, mescolate, con quali contaminazioni e generando quali conseguenze, specie nella portata della tutela dei diritti invocati.

Nel caso del diritto all’anonimato della madre biologica, le decisioni susseguitesi ed intrecciatesi fra Corte costituzionale e Corte di Strasburgo sono quattro, diluite in un decennio: Odièvre c. Francia (ricorso n. 42326/98), la sentenza n. 425/2005, Godelli c. Italia (ricorso n. 33783/09), la sentenza n. 278/2013.

Il ricorso nel caso Odièvre nasceva da una donna francese che, all’età di venticinque anni, aveva fatto richiesta al Tribunal de grande instance di Parigi di avere copia di tutti i documenti redatti al momento della sua nascita, quando la madre naturale la abbandonò con una dichiarazione scritta, rifiutando deliberatamente l’assistenza offertale e consapevole che, a partire da un mese dopo l’abbandono, la figlia sarebbe stata dichiarata adottabile. In precedenza, la ricorrente si era già rivolta alla Direction de l’action sanitaire et sociale per conoscere i dettagli della sua nascita, apprendendo che i suoi genitori biologici avevano avuto altri figli prima e dopo di lei, senza però poterne conoscere l’identità. I soli dati che le furono forniti riguardavano la nazionalità del padre (spagnolo), il reddito familiare al tempo e una sommaria descrizione fisica e caratteriale di entrambi i genitori. Di fronte al diniego di rivelarle l’identità dei suoi fratelli naturali, la donna decise di impugnare davanti alla Corte di Strasburgo la legislazione interna per presunta violazione dell’Articolo 8.

La Francia era al tempo uno dei pochissimi Paesi europei – insieme all’Italia e al Lussemburgo – ad avere contemplato per secoli la possibilità per le madri di abbandonare prima e dare in adozione poi i propri figli naturali. La tradizione risale alla fine del Sedicesimo secolo, ai tempi di San Vincenzo de’ Paoli, ideatore della cosiddetta «ruota», installata nei pressi di istituzioni di carità per accogliere i neonati abbandonati. Nel 1793, in piena Rivoluzione, venne introdotta una legislazione che forniva assistenza sanitaria alle partorienti che desideravano abbandonare il nascituro, mentre nel 1904 la ruota venne sostituita da un ufficio pubblico preposto all’accoglienza delle madri che intendevano partorire e lasciare in adozione il figlio nella sicurezza dell’anonimato. Dopo un’ulteriore intervento normativo nel 1941 da parte del governo di Vichy, la legislazione venne ulteriormente perfezionata nel 1993 con alcune riforme al Codice civile e al Codice della famiglia. Tuttavia, un rapporto redatto dal Consiglio di Stato già nel 1990 metteva in luce le difficoltà per un figlio dato in adozione alla nascita di convivere con l’impenetrabile segreto intorno alla sua nascita e, per questo, raccomandava una via di compromesso fra il mantenimento dell’anonimato a tutela della madre o dei genitori biologici e un limitato accesso all’identità dei genitori da parte dei figli attraverso la creazione di un ufficio terzo in grado di verificare la presente volontà della madre o di entrambi i genitori al fine di facilitare un rapprochement fra le due parti.

Dopo che alcune indagini parlamentari avevano fatto seguito al rapporto del Consiglio di Stato, nel gennaio 2002 è stata adottata la legge n. 2002/93, ultima fase del lungo processo storico che ho sinteticamente descritto: pur non mettendo in discussione il diritto della madre o dei genitori all’anonimato, essa dispone i termini affinché la loro identità sia rivelata al figlio adottato previo accertamento del loro consenso da parte di un consiglio nazionale appositamente creato per l’accesso alle informazioni sulle origini personali con l’incarico di gestire le richieste di desecretazione delle identità e l’eventuale riavvicinamento delle parti.

Nel caso Odièvre, la Corte di Strasburgo osservò che, non diversamente dall’impostazione secolare affermatasi nella tradizione francese, anche l’ultimo intervento legislativo del 2002 confermava l’incontestata preferenza accordata all’interesse della madre naturale all’anonimato: infatti, il consiglio nazionale istituito quale referente per l’accertamento della sussistente volontà della madre al segreto e l’incontro fra le parti non dispone della prerogativa di analizzare le ragioni per le quali la madre ribadisca la sua volontà di rimanere anonima, né di valutare se tali motivazioni siano o meno ragionevoli. In definitiva, dunque, anche con l’ultima legislazione non diversamente dagli assetti precedenti, la madre ha diritto a restare anonima anche a detrimento degli interessi legittimi e ragionevoli del figlio adottato.

Nel rilevare che la tutela al diritto al rispetto della vita privata espressa dall’Articolo 8 riguarda «everyone», ciascuno, dunque applicandosi tanto alla madre biologica che intende confermare il suo anonimato quanto al figlio adottato che preme per conoscere le sue origini naturali, la Corte evidenziò che, per quanto questi due interessi confliggano e non si renda semplice comporli in qualche soluzione di incontro, essi non riguardano più un figlio e una madre, un neonato e un adulto, ma due adulti, ciascuno portatore della sua volontà e dei suoi legittimi interessi. Il quadro si complica ulteriormente, poi, quando si includa nel novero degli interessi diversi anche quello della nuova famiglia adottiva e degli altri membri della famiglia naturale, tutti portatori del diritto al rispetto delle loro rispettive vite private.

Ciò considerato, la Corte però rileva altresì i miglioramenti che l’ultima legislazione ha portato al sistema francese, rendendo l’anonimato della madre revocabile qualora essa ritenga che le ragioni di allora non sussistano più e consentendo al figlio l’accesso ad alcune informazioni sulla sua nascita e sui suoi genitori naturali, seppur non alla loro identità. Dunque, a giudizio della Corte, la legislazione francese ha tentato, diversamente che nel passato, un bilanciamento fra gli interessi in conflitto nelle drammatiche situazioni che coinvolgano una madre biologica che abbia dato in adozione un figlio, un figlio adottato che non conosca le sue origini naturali, così come una famiglia adottiva e il resto della famiglia naturale, magari inconsapevole della nascita e dell’adozione di quel figlio. Se resta vero che un figlio non abbia alcun modo di ottenere la desecretazione dell’identità dei genitori naturali se non quando questi ultimi abbiano dato il proprio consenso a rimuovere il proprio anonimato e, dunque, che esista un diritto per così dire «precedente» rispetto al quale quello del figlio è condizionato, tuttavia la Corte riconosce lo sforzo di composizione e di compromesso che il legislatore francese ha condotto fra gli interessi confliggenti e diversi che si trovano raccolti in occasione di simili storie personali e familiari.

Due anni dopo la decisione nel caso Odièvre, la Corte costituzionale italiana veniva investita da parte del tribunale di Firenze di un’ordinanza dai tratti simili: il ricorrente era stato adottato a pochi mesi di vita, ma la recente paternità di una bambina gli aveva ridestato il dolore per quella pagina segreta sulle sue origini. Il desiderio di conoscere di più sulla sua famiglia naturale non era associato ad alcun intento di cagionare dolore per un evento del passato, ma solo a un grande affetto di cui si sentiva comunque capace verso la madre che non lo aveva voluto. Chiedendosi se quella volontà di restare anonima sussistesse ancora dopo oltre trent’anni, chiese che la madre biologica potesse essere contattata e intervistata sul suo persistente desiderio di rimanere nascosta.

L’art. 28, comma 5, della legge n. 184 del 1983 consente all’adottato che abbia compiuto venticinque anni di essere autorizzato dal Tribunale per i minorenni ad aver accesso alle informazioni riguardanti la propria origine e l’identità dei genitori biologici. Nondimeno, il successivo comma 7 dispone che «l’accesso alle informazioni non è consentito se l’adottato non sia stato riconosciuto alla nascita dalla madre naturale e qualora anche uno solo dei genitori biologici abbia dichiarato di non voler essere nominato o abbia manifestato il consenso all’adozione a condizione di rimanere anonimo».

La legislazione italiana, dunque, non prevede alcuna condizione al ricorrere della quale il figlio possa accedere ai dati anagrafici della madre naturale, quando ella abbia espresso al momento del parto il desiderio di restare anonima. Non è contemplata, cioè, l’evenienza di una ritrattazione, di una revoca di quella volontà, che rimane indisponibile tanto al figlio che vorrebbe conoscere le sue origini, quanto alla madre che l’ha espressa.

Non è difficile riconoscere che, nell’impostazione normativa della legge n. 184 del 1983, la preminenza fra gli interessi confliggenti sia tutta a favore del diritto all’anonimato della madre biologica – una preminenza, peraltro, così granitica e indiscussa da escludere che la stessa portatrice dell’interesse all’anonimato possa revocarlo, per esempio tenendo conto di circostanze mutate nel tempo e nella sua vita personale e familiare. Insomma, non si vedono, in questo quadro normativo, i tentativi di comporre in una soluzione di compromesso il legittimo diritto della madre a mantenere il segreto su quella pagina della sua vita passata e l’interesse di un figlio adulto di conoscere le sue origini.

La Corte costituzionale dichiarò la questione non fondata: contestando la compatibilità dell’art. 28, comma 7 della legge n. 184 del 1983 all’art. 2 Cost., «il rimettente chiede alla corte una sentenza additiva che dichiari la norma costituzionalmente illegittima nella parte in cui, ove la madre naturale abbia manifestato la volontà di non essere nominata, non condiziona il divieto per l’adottato di accedere alle informazioni sulle origini alla previa verifica, da parte del giudice, dell’attuale persistenza di quella volontà». Ma, anche a volersi astenere dalle considerazioni sulla portata di una tale pronuncia, la tesi del rimettente sarebbe comunque infondata, giacché «la norma impugnata mira evidentemente a tutelare la gestante che – in situazioni particolarmente difficili dal punto di vista personale, economico o sociale – abbia deciso di non tenere con sé il bambino, offrendole la possibilità di partorire in una struttura sanitaria appropriata e di mantenere al contempo l’anonimato nella conseguente dichiarazione di nascita: e in tal modo intende – da un lato – assicurare che il parto avvenga in condizioni ottimali, sia per la madre che per il figlio, e – dall’altro – distogliere la donna da decisioni irreparabili, per quest’ultimo ben più gravi».

Pertanto, la ratio che la Corte costituzionale vede perseguita dai termini della legge è la concomitante tutela del diritto all’anonimato della madre naturale e del diritto alla vita del nascituro che, in assenza di una garanzia assoluta della segretezza dei dati anagrafici della madre e delle condizioni ottimali per la sua nascita, avrebbe potuto essere oggetto di decisioni irreparabili. La composizione degli interessi che la Corte costituzionale ravvisa dietro la legge riguarda un adulto da un lato – cioè la madre naturale – e un feto dall’altro, a cui si assicurano le condizioni più promettenti e sicure per la sua venuta al mondo. Il sacrificio dei suoi diritti di adulto ex artt. 2, 3 e 32 Cost. è giustificato dalle cure assicurate per garantire la sua venuta al mondo.

Nessun accenno è fatto nella sentenza alla precedente decisione, di soli due anni prima, della Corte di Strasburgo, né si riconosce alcuna contaminazione di quella impostazione e quegli argomenti nelle scelte condotte dal giudice delle leggi italiano. Le due sentenze corrono su binari paralleli, seppure – come ricordato dai giudici di Strasburgo nel caso Odièvre – la Francia e l’Italia siano fra i soli Paesi del Consiglio d’Europa ad ammettere legislazioni favorevoli all’anonimato della madre naturale.

Ma, come si diceva in apertura, questa materia offre un buon punto di osservazione certo sulle differenze (e, forse, le resistenze) fra i giudici, ma anche sulle contaminazioni, sugli scambi, sulle trasmigrazioni di argomenti da una Corte all’altra. Dopo soli otto anni, alla Corte di Strasburgo approda un ricorso molto simile a quello di Odièvre ma che, questa volta, impugna proprio quella legislazione sottoposta al vaglio della Corte costituzionale.

La signora Anita Godelli, nata nel 1943 e abbandonata dalla madre naturale, ha trascorso i primi anni di vita in un orfanotrofio per poi essere data in adozione all’età di sei anni. A dieci anni, chiese ai genitori adottivi di conoscere le circostanze della sua nascita, ma non ottenne alcuna risposta. Scoprì anche che, nel suo stesso paese, viveva una bambina, anch’essa abbandonata alla nascita e data in adozione, nata nel suo stesso giorno e anno. Sospettando che si trattasse della sua gemella, tentò di entrare in contatto con lei, ma la famiglia adottiva glielo impedì. Alla luce di questi traumi, la ricorrente descrisse la sua infanzia come molto difficile. Nel 2007, si rivolse al Tribunale dei minori di Trieste per conoscere i dettagli della sua nascita secondo quanto previsto dalla legge n. 184 del 1983, ma la sua richiesta fu respinta per la volontà di restare anonima della madre espressa al momento del parto.

La decisione nel merito dei giudici di Strasburgo non fa che riproporre gli argomenti del caso Odièvre: «contrariamente alla situazione nel caso Odièvre, la ricorrente non ha avuto accesso a nessuna informazione sulla madre e la famiglia biologica che le permettesse di stabilire alcune radici della sua storia nel rispetto della tutela degli interessi dei terzi. Senza un bilanciamento dei diritti e degli interessi presenti e senza alcuna possibilità di ricorso, la ricorrente si è vista opporre un rifiuto assoluto e definitivo di accedere alle proprie origini personali. […] La Corte osserva che, a differenza del sistema francese esaminato nella sentenza Odièvre, la normativa italiana non tenta di mantenere alcun equilibrio tra i diritti e gli interessi concorrenti in causa. In assenza di meccanismi destinati a bilanciare il diritto della ricorrente a conoscere le proprie origini con i diritti e gli interessi della madre a mantenere l’anonimato, viene inevitabilmente data una preferenza incondizionata a questi ultimi. Peraltro, nella sentenza Odièvre la Corte osserva che la nuova legge del 22 gennaio 2002 aumenta la possibilità di revocare il segreto dell’identità e agevola la ricerca delle origini biologiche grazie alla creazione di un Consiglio nazionale per l’accesso alle origini personali. Di immediata applicazione, essa permette ormai alle persone interessate di chiedere la reversibilità del segreto dell’identità della madre, a condizione che quest’ultima vi acconsenta, nonché di avere accesso a informazioni non identificative. […] Nel caso di specie la Corte osserva che, se la madre biologica ha deciso di mantenere l’anonimato, la normativa italiana non dà alcuna possibilità al figlio adottivo e non riconosciuto alla nascita di chiedere l’accesso ad informazioni non identificative sulle sue origini o la reversibilità del segreto. In queste condizioni, la Corte ritiene che l’Italia non abbia cercato di stabilire un equilibrio e una proporzionalità tra gli interessi delle parti in causa e abbia dunque oltrepassato il margine di discrezionalità che le è stato accordato» (parr. 69, 70 e 71).

Dunque, le argomentazioni spese dalla Corte costituzionale per spiegare che la normativa italiana era stata capace di calibrare un compromesso fra interessi in contrasto sono state accantonate dalla Corte di Strasburgo: il contrasto, infatti, non è fra gli interessi di una madre e quelli del neonato che mette al mondo o, meglio, questo è solo uno dei possibili conflitti per cui trovare una soluzione di bilanciamento. A questa dimensione iniziale, infatti, i giudici di Strasburgo aggiungono quella in evoluzione, cioè quando la madre è invecchiata e si è allontanata da quel momento della sua vita e il neonato è diventato un adulto, con il suo percorso di vita e il peso dei segreti che gravano sulla sua identità. È come se la Corte costituzionale avesse fermato le vite e gli interessi delle due parti – madre e figlio – al momento della nascita, laddove la Corte di Strasburgo ha invece mosso verso un orizzonte che non solo deve tenere conto di diversi interessi e diritti, ma anche di una evoluzione nel tempo delle persone, del loro vissuto e degli interessi di cui sono portatori. Quelli che nascono come madre e figlio si separano e vivono due vite lontane, divenendo due adulti, ciascuno dei quali inserito in una vicenda personale che deve misurarsi con la difficoltà di un segreto: per la madre, un segreto da ribadire o da affrontare, per il figlio un segreto da accettare suo malgrado o tentare di rimuovere.

Dietro agli argomenti delle due Corti, pertanto, si riconoscono due possibili ricostruzioni dello scenario drammatico che riguarda le parti coinvolte in simili circostanze: solo che i giudici di Strasburgo lasciano che quel contesto sia attraversato anche da un asse cronologico che, invece che fissare in un momento della storia e delle rispettive vite gli interessi della madre e del figlio, li dilata in un racconto diacronico, che li lascia madre naturale e figlio dato in adozione e li ritrova adulti, ciascuno inserito nella sua parabola di vita.

Soltanto qualche mese più tardi rispetto alla decisione Godelli, il Tribunale per i minorenni di Catanzaro solleva questione di legittimità costituzionale dell’articolo 28, comma 7, della legge n. 184 del 1983 rispetto agli artt. 2, 3, 32 e 117, primo comma, Cost. In questo frangente, una donna, nata nel 1963 e adottata nel 1969, era venuta a conoscenza della sua adozione solo nel corso delle procedure di separazione e divorzio dal marito. La mancata conoscenza delle sue origini le aveva peraltro limitato le possibilità di diagnosi e cura di alcune patologie per l’impossibilità di una anamnesi familiare.

Questa volta, la Corte costituzionale dichiara la questione fondata. Intanto, il riferimento alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo questa volta è esplicitato, così come i giudici non possono non ritornare alla sentenza n. 425 del 2005, il cui quesito era del tutto analogo a quello del caso presente: infatti, ricordano come il nucleo fondante della scelta di allora fosse di assicurare che il parto potesse avvenire nelle condizioni ottimali e più accoglienti in modo da dissuadere la madre a mettere in pratica decisioni irreparabili a detrimento della vita del nascituro. L’irrevocabilità dell’anonimato scelto dalla madre non era che uno degli strumenti attraverso i quali quelle condizioni ottimali e accoglienti potevano essere assicurate. Quel nucleo fondante non può che essere riaffermato, sostiene la Corte.

Tuttavia, entra per la prima volta nello scenario tratteggiato dalla Corte anche un altro interesse, vale a dire il diritto del figlio a conoscere le proprie origini e ad accedere alla propria storia parentale, e vi entra proprio perché «riconosciuto in varie pronunce della Corte europea dei diritti dell’uomo». Il bisogno di un essere adulto di conoscere le proprie origini è capace di condizionare talmente l’intimo atteggiamento e la vita di relazione di un individuo da non poter essere trascurato dal legislatore, fermo restando la tutela del bene supremo della vita.

Ed è qui che la Corte riconosce la «cristallizzazione» o «immobilizzazione» che il legislatore italiano ha prefigurato nell’inquadramento di queste fattispecie: i diritti in competizione sono fissati al momento della nascita e articolati nei termini, da un lato, di sicurezza della madre a partorire nelle migliori e più confortevoli condizioni e, dall’altro, di venuta al mondo del figlio, mentre esiste anche uno scenario proiettato oltre il momento della nascita, cioè a quando i due soggetti coinvolti sono entrambi adulti e portatori di interessi meno urgenti per la preservazione e difesa della vita di entrambi, ma non necessariamente meno critici per la qualità del loro vivere, vale a dire il diritto della madre a ribadire di voler rimuovere quell’episodio della sua vita restando anonima e il diritto del figlio ad accedere alle informazioni sulle sue origini e a definire la sua identità naturale.

Questa veste «diacronica» degli scenari è il risultato di un apprendimento che, alla Corte costituzionale, è derivato dagli argomenti che la Corte di Strasburgo ha sviluppato e ripetuto nella sua giurisprudenza in materia. Forse il tributo è un po’ indiretto, forse i giudici delle leggi italiani si sono riservati un ambito di ragionamento in parte emancipato da quello di Strasburgo, ma non possono aversi dubbi sul fatto che il nuovo e più articolato inquadramento delle situazioni che coinvolgono madri naturali anonime e figli dati in adozione sia frutto della lettura che ne è stata data a Strasburgo e della comparazione indiretta fra legislazione francese e legislazione italiana.

Non si può concludere che la Corte costituzionale sia stata imbeccata dalla Corte di Strasburgo, né che una Corte dalla cattedra abbia dettato a un’altra come decidere: piuttosto, la Corte di Strasburgo ha guardato allo scenario con un occhio più attento alla complessità degli interessi non solo nel momento presente della loro emersione, ma anche lungo la loro evoluzione come, in prima istanza, la Corte costituzionale italiana era stata riluttante o poco persuasa a considerare. Questa prospettiva più articolata ha dato impulso al Tribunale di Catanzaro per sollevare di nuovo la questione di legittimità davanti al giudice delle leggi, il quale ha riconosciuto la lettura ulteriore elaborata dai giudici di Strasburgo, senza per questo smentire la ricostruzione degli interessi in conflitto che era stata precedentemente offerta in occasione della sentenza n. 425 del 2005.

Questa vicenda di apprendimento fra Corti non sarebbe descritta in tutto il suo affascinante intreccio se non venisse dato conto anche di come sia cambiato nell’arco di quel decennio l’assetto normativo di molti Paesi che, dietro all’esperienza tradizionale di Italia, Francia e Lussemburgo, hanno modificato la propria posizione sulla maternità e l’eventuale anonimato con cui viverla. Alcuni Stati membri del Consiglio d’Europa facevano espresso obbligo alla madre di dichiarare la propria identità al momento del parto, mentre altri escludevano che le madri potessero ricorrere a qualche forma di occultamento della loro identità. In generale, dunque, le madri erano vincolate a un’assunzione di responsabilità nel momento in cui davano alla luce un figlio, anche se si erano risolte a darlo in adozione. In mezzo alla dialettica fra Corte costituzionale e Corte di Strasburgo, alcuni di questi ordinamenti hanno deciso di rivedere la loro posizione sulla materia, consentendo un diritto all’anonimato temporaneo o permanente alla madre biologica, fra cui l’Austria, la Repubblica Ceca, la Russia, la Slovacchia. A partire dalla prima giurisprudenza della Corte di Strasburgo in questa materia, si è attivato un processo di apprendimento e di assimilazione di una complessità di interessi e un conseguente assetto normativo che ha coinvolto la nostra Corte costituzionale, ma anche i poteri legislativi di diversi Paesi membri del Consiglio d’Europa.