Aspettando la Grande Chambre: uno sguardo alla sentenza Lorefice c. Italia e alla giurisprudenza precedente in materia di rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale in appello nel processo penale.

Con la sentenza Lorefice c. Italia del 29 giugno 2017, pronunciata su ricorso n. 63446/13, la Prima Sezione della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha condannato all’unanimità l’Italia per aver violato l’art. 6 par. 1 della Convenzione. Nel caso in oggetto, il principio dell’equo processo risulta leso a causa della mancata rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale nel giudizio penale di appello. Negli ultimi anni, i giudici di Strasburgo hanno affrontato la medesima questione in relazione ad ordinamenti molto differenti tra loro dal punto di vista dei rimedi processuali (tra le sentenze più significative: Corte e.d.u., Gr. Ch., 15.12.2015, Schatschaschwili c. Germania; Corte e.d.u, Gr. Ch, 15.11.2011, Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito; Corte e.d.u. 5.7.2011, Dan c. Moldavia). I rimedi processuali rispondono all’esigenza di limitare il rischio di incorrere nell’errore e nell’ingiustizia e le strade percorribili per giungere a questo risultato sono due: il riesame effettuato dallo stesso giudice che ha emesso la decisione sottoposta a controllo o la revisione condotta da un giudice superiore. Negli ordinamenti di common law, il potere giudiziario si sviluppa orizzontalmente, cosicché il «primo» giudice sarà presumibilmente anche «l’ultimo»: il controllo «superiore» è un procedimento eccezionale. In questo modello articolato su un unico livello, è altresì possibile proporre un’azione, avente il medesimo oggetto, davanti ad un altro giudice, che potrà allora emettere un giudizio favorevole all’istante o per lo meno bloccare l’esecuzione della precedente decisione sfavorevole. In tale sistema, il giudice dispone quindi della massima discrezionalità nel modificare la sua decisione, in particolare in riferimento al riesame fondato sull’esistenza di una prova nuova. Nel panorama continentale, che invece vede forme di controllo verticale, strettamente legate ad una concezione gerarchica del potere giudiziario, la decisione di primo grado si presume provvisoria e spetta al giudice d’appello il compito di contemperare la necessità di speditezza del processo penale con quella di giungere ad un accertamento senza errori, che porti ad una decisione coerente con il compendio probatorio che emerge dal processo.
Ripercorrendo le vicende alla base di Lorefice c. Italia, si risale al 2009, quando il Tribunale di Sciacca pronuncia sentenza di assoluzione nei confronti del ricorrente, valutando le dichiarazioni rese da due testimoni come inattendibili, imprecise e false (con  conseguente trasmissione degli atti al pubblico ministero, art. 207, co. 2, cpp). Il pubblico ministero e la parte civile si rivolgono alla Corte d’Appello di Palermo, che nel 2012 condanna il ricorrente per i reati di estorsione e detenzione di materiale esplosivo, comminando una pena di 8 anni di reclusione e una multa di 1.600 euro. Tale overruling è dovuto alla rivalutazione in malam partem, operata attraverso una mera rilettura di quanto dichiarato dai testimoni in primo grado. La Corte di Cassazione nel 2013 conferma la sentenza emessa dalla Corte d’Appello e viene allora adita la Corte di Strasburgo, che prevedibilmente accoglie il ricorso. Ai parr. 24 – 25 della sentenza, i giudici rilevano come la Suprema Corte abbia ritenuto che al caso Lorefice non fossero applicabili i principi affermati in Dan c. Moldavia, adducendo che la riforma della sentenza d’appello fosse derivata non dalla differente valutazione della credibilità o meno di un testimone, ma da una lettura logicamente orientata degli elementi di prova travisati dal giudice di prime cure. In realtà la sentenza Dan ammette l’eventualità di una decisione di grado superiore che riformi in peius la sentenza di assoluzione, purché, nell’ipotesi in cui questa derivi da una differente valutazione di prove orali decisive, si proceda ad un nuovo esame dei testimoni. È inoltre uno dei cardini dell’equo processo la possibilità di ottenere l’escussione diretta ed un possibile confronto con i testimoni di fronte al giudice decidente in ultima istanza, dal momento che il controllo di questo sulla credibilità delle dichiarazioni testimoniali avrà conseguenze irreversibili per l’accusato. Al par. 39 si precisa che la violazione non fa capo ad una carenza di tutele apprestate dall’ordinamento interno, ma alla mancata applicazione dello strumento riservato a tale tipologia di situazioni: «La Cour reléve ensuite que, de son côté, la Cour d’Appel de Palerme avait la possibilité, en tant qu’instance de recours, de rendre un nouveau jugement sur le fond, ce qu’elle a fait le 15 février 2012. Cette juridiction pouvait décider soit de confirmer l’acquittement deu requérant soit de declarer celui-ci coupable, après s’être livrée à une appreciation de la question de la culpabilité ou de l’innocence de l’intéressé. Pour ce faire, la Cour d’Appel avait la possibilité d’ordonner d’office la réoverture de l’instruction, conformément à l’article 603 alineà 3 du code de procédure pénale, et procéder à une nouvelle audition des témoins». Al par. 43 i giudici di Strasburgo ribadiscono il principio secondo cui «l’évaluation de la crédibilité d’un témoin est une tâche complexe, qui, normalement, ne peut pas être accomplie par le biais d’une simple lecture du contenu des déclarations de celui – ci, telles que consacrées dans les procès-verbaux des auditions». Nel par. 45 la Corte dichiara di non riscontrare nel caso di specie circostanze che possano esonerare il giudice d’appello dall’obbligo di riassumere “dal vivo” le dichiarazioni sfavorevoli all’accusato. Fra le sentenze citate in questo senso, è opportuno richiamare Corte e.d.u, Gr. Ch., 15.11.2011, Al-Khawaja e Tahery c. Regno Unito, nella quale non si era considerato leso il principio dell’equo processo per l’impossibilità di controesaminare la vittima, in seguito deceduta, unica fonte diretta dell’accusa. A seguito di due testimonianze de relato, la Corte europea stabiliva la conformità all’art. 6 della Convenzione della sentenza di condanna basata sulla prova sola e determinante delle dichiarazioni della vittima fuori dal contraddittorio, bastando che nell’ordinamento interno ci fossero garanzie procedurali tali da bilanciare l’assenza di contraddittorio. Lo Stato italiano, nel caso Lorefice, sostiene proprio che l’ordinamento interno dispone di garanzie procedurali tali da salvaguardare la struttura del procès équitable, le quali, nella situazione in oggetto, prendono la forma della rivalutazione complessiva delle prove, della motivazione rafforzata del giudice di secondo grado e della rinuncia dell’imputato alla rinnovazione dell’esame testimoniale.  Tuttavia, già l’arresto Al-Khawaja in tema di diritto al confronto, era stato messo in discussione dalla successiva Corte e.d.u., Gr. Ch., 15.12.2015, Schatschaschwili c. Germania, che rintracciava la lesione del principio dell’equo processo in relazione ad un procedimento in cui l’imputato era stato condannato per via di dichiarazioni rese durante le indagini dalle persone offese, delle quali era divenuto impossibile l’esame in dibattimento. Ritornando alla sentenza Lorefice, nel par. 47 la Corte di Strasburgo infine giunge a rilevare la violazione dell’art. 6, par. 1 della Convenzione, per l’ipotesi delineata all’art. 6, par. 3, lett. d), che riguarda il diritto dell’imputato ad «esaminare o far esaminare i testimoni a carico ed ottenere la convocazione e l’esame dei testimoni a discarico nelle stesse condizioni dei testimoni a carico».
Questa sentenza giunge a poca distanza dall’art. 1, co. 58, l. 23 giugno 2017, n. 103, che ha predisposto la modifica dell’art. 603 c.p.p.. Il nuovo comma 3-bis prevede che «nel caso di appello del pubblico ministero contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione della prova dichiarativa, il giudice dispone la rinnovazione dell’istruttoria dibattimentale», introducendo una specifica fattispecie da cui discende l’obbligo della rinnovazione, coerentemente con gli orientamenti convenzionali, anche se stando alla lettera della disposizione, non risulta circoscrivibile il suo ambito di operatività e lasciando così aperte questioni ermeneutiche di rilievo. Attraverso l’introduzione di tale disposizione, si può dire che l’appello si stia sempre più avvicinando alle forme del primo grado, allontanandosi definitivamente dalla riforma del 1988, che configurava il giudizio di secondo grado non come gravame ma come controllo sulla prima decisione.
L’orientamento della Corte Europea era stato, per la verità, già seguito dalle Sezioni Unite della Suprema Corte nella sent. n. 27620/2016, che arrivava a disporre in via giurisprudenziale ciò che la legge lasciava alla discrezionalità dell’organo giudicante. La Cassazione, interpretando l’art. 603 co. 3 cpp ante riforma in modo convenzionalmente orientato, affermava che «la previsione contenuta nell’art. 6, par. 3, lett. d) […] implica che, nel caso di appello del pubblico ministero avverso una sentenza assolutoria, fondata sulla valutazione di prove dichiarative ritenute decisive, il giudice di appello non può riformare la sentenza impugnata nel senso dell’affermazione della responsabilità penale dell’imputato, senza avere proceduto, anche d’ufficio, a norma dell’art. 603, comma 3, cpp, a rinnovare l’istruzione dibattimentale attraverso l’esame dei soggetti che abbiano reso dichiarazioni sui fatti del processo ritenute decisive ai fini del giudizio assolutorio di primo grado».
La sentenza Lorefice invita a continuare ad osservare gli arresti della Corte Europea dei Diritti dell’uomo, che sta manifestando orientamenti contrastanti circa la necessità di rinnovare l’attività istruttoria per arrivare ad un ribaltamento della sentenza che assolve l’imputato senza violare il principio dell’equo processo. Una sentenza emessa pressoché contemporaneamente a Lorefice da una diversa sezione (sez. IV, sent. 27 giugno 2017, Chiper c. Romania), segue infatti un iter decisionale totalmente opposto. Il caso è pressoché lo stesso: il ricorrente viene condannato per la prima volta in appello sulla base della rilettura dei verbali delle testimonianze che avevano portato al proscioglimento in primo grado. I giudici di Strasburgo hanno rilevato come il giudice di seconde cure abbia operato una non arbitraria selezione delle prove dichiarative meritevoli di rinnovazione, ritenendo inutile una nuova testimonianza dei querelanti. Si osserva inoltre come, in secondo grado, la difesa non abbia richiesto la citazione di ulteriori testimoni. Si sottolinea altresì l’adeguatezza della motivazione rafforzata predisposta dal giudice d’appello, che ha specificamente passato in rassegna le ragioni alla base del ribaltamento, portando quindi la Corte a non rinvenire una violazione dell’equo processo. Anche nella sentenza Corte e.d.u., Kashlev c. Estonia, del 26 aprile 2016, la Corte aveva registrato l’inesistenza di violazioni dell’art. 6, nel caso in cui l’ordinamento interno avesse assicurato adeguate tutele all’accusato. La posizione della Corte di Strasburgo sulla delicata materia della rinnovazione dell’istruttoria in appello, che fa capo al più ampio tema del diritto al confronto, non è certo monolitica e sebbene si ritenga maggioritario l’orientamento favorevole alla riedizione della prova testimoniale sola e determinante in appello, non si può definire consolidato, a fronte delle non trascurabili pronunce che vanno in direzione opposta. Una sentenza della Grande Chambre in materia appare quindi opportuna se non necessaria.