L’Administrative State statunitense e i dilemmi del New Lochnerism in una pronuncia di incostituzionalità della United States Court of Appeals for the Fifth Circuit

La Corte Suprema statunitense ha negli ultimi tempi pronunciato sentenze di grande rilevo, che verranno a breve commentate su questo blog. Tuttavia, nell’intento di cogliere lo spirito del tempo, non pare ozioso gettare uno sguardo su una sentenza di un’importante Corte d’Appello, la United States Court of Appeals for the Fifth Circuit – che comprende Texas, Louisiana e Mississippi – consentendoci di adottare una specifica prospettiva da cui osservare gli sviluppi delle dinamiche di constitutional adjudication statunitense, che sembrano andare di pari passo ad una forma di New Lochnerism, come testimonia il ricorso alla controversa nondelegation doctrine, utilizzata dalla stessa Corte Suprema molto sporadicamente. Tuttavia a inizio anno il Giudice Gorsuch (seguito da Alito e Thomas), nella concurring opinion della sentenza OSHA sull’obbligo vaccinale (di cui si è scritto qui) ha sottolineato che la nondelegation doctrine giustifica il ricorso alla major question doctrine, posta a fondamento di quella decisione (per approfondire: Driesen).  Certo sorprende che l’audace decisione, di cui si darà conto a breve, provenga da una Corte d’appello: ciò è sicuramente sintomatico della legittimazione che le Corti statunitensi in questo frangente intendono riaffermare. La decisione rappresenta inoltre un ulteriore spunto per il dibattito, riaccesosi negli ultimi anni, sull’Administrative State statunitense, come testimonia un recente libro di Sunstein e Vermeule. La questione è quella, nota, dell’innesto dello Stato amministrativo in un sistema democratico fondato sulla separazione dei poteri, sulla democrazia e sullo Stato di diritto. E l’aspetto più problematico è quello concernente i poteri esercitati delle agenzie amministrative federali, attribuiti dalla Costituzione rispettivamente agli organi costituzionali. Ebbene, la decisione in commento affronta proprio tali questioni.
La Corte d’Appello del Fifth Circuit con la sentenza del 18 maggio 2022 Jarkesy v. SEC ha dichiarato l’incostituzionalità del principale meccanismo di attuazione delle leggi federali da parte della Securities and Exchange Commission (SEC), l’agenzia federale preposta alla vigilanza della borsa, che viene affidato a giudici amministrativi (ALJ). La Corte d’Appello, con una decisione 2-1, ha affermato che il sistema utilizzato dalla SEC per far rispettare le leggi federali che proteggono gli investitori dalle frodi sui titoli è incostituzionale in riferimento a tre diversi parametri ed ha annullato la decisione della SEC sulle frodi accertate, rinviando il caso per un ulteriore procedimento. La decisione potrebbe avere esiti dirompenti, sia per quanto attiene la regolamentazione del settore finanziario, sia sul piano dei rapporti tra poteri. La decisione della Corte d’appello, discostandosi da precedenti risalenti e rischiando di “bloccare” l’attività stessa della SEC, come di altre agenzie federali,  esprime diffidenza verso tali enti, atteggiamento del resto già emerso in alcune sentenze della Corte Suprema, quali Free Enterprise Fund v. Public Company Accounting Oversight Board, Lucia v. SEC e Seila Law LLC v. Consumer Financial Protection Bureau. La Corte Suprema ha inoltre recentemente ammesso Axon Enterprise, Inc. v. Federal Trade Commission, in cui il ricorrente contesta la costituzionalità della struttura della FTC e afferma che dovrebbe essere la Corte distrettuale a pronunciarsi, prima che l’agenzia decida sulla sua situazione e, solo due giorni prima che la Corte d’Appello del Fifth Circuit si pronunciasse su Jarkesy, aveva peraltro ammesso Cochran v. SEC, caso che pone la questione di costituzionalità circa il particolare regime di “protezione” degli ALJ della SEC dalla rimozione. Ritornando a Jarkesy: la SEC aveva intrapreso la sua azione avvalendosi dei poteri riconosciuti dal Securities Act del 1933. Le decisioni assunte all’esito delle udienze amministrative previste possono essere impugnate dalla SEC e le sue decisioni possono a loro volta essere impugnate di fronte alla Corte d’appello federale. La proposizione dell’appello, tuttavia, è limitata ai casi in cui sussistano una serie di condizioni (per approfondire la questione, si rinvia qui). Fino al 2010, anno in cui è stato adottato il Dodd-Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act, la SEC disponeva di poteri più limitati e poteva intentare azioni per frode e richiedere l’applicazione delle rispettive sanzioni solo presso i tribunali di cui all’art. III. Il Dodd-Frank Act ha però esteso la legittimazione ad agire della SEC nei casi di frode, oltre a poter comminare sanzioni civili contro enti e individui a seguito di giudizi amministrativi, piuttostoché rivolgersi ai tribunali di cui all’art. III. È solo a partire dal 2014 che la SEC ha fatto ricorso più frequentemente a tali procedimenti, anche in casi di notevole complessità, sollevando critiche e facendo sorgere dubbi di costituzionalità in merito al giudizio di fronte agli ALJ. In seguito la SEC ha però limitato questi giudizi amministrativi, soprattutto quando emergessero questioni per le quali fosse individuabile un tribunale federale competente. Nel caso in oggetto i ricorrenti, in seguito alla citazione in sede amministrativa, hanno instaurato il giudizio presso la corte distrettuale federale e, in appello, presso il D.C. Circuit, sostenendo che il procedimento aveva violato i loro diritti costituzionali. Il D.C. Circuit ha ritenuto che la corte distrettuale non avesse giurisdizione sul caso, dal momento che i ricorrenti non avevano esaurito i rimedi esperibili in sede amministrativi. Nel frattempo, era stata tenuta un’udienza di fonte all’ALJ, che aveva concluso che i ricorrenti avevano commesso una frode in materia di titoli, cui è seguita la richiesta di riesame della decisione alla SEC. Nelle more del riesame, la Corte Suprema ha stabilito che gli ALJ della SEC non erano stati correttamente nominati in base alla Costituzione (Lucia v. SEC), dal momento che gli ALJ sarebbero inferior officers in base alla Appointments Clause dell’art. II della Costituzione. La SEC aveva allora sollecitato i giudici di Washington a dare indicazioni quanto alle conseguenze in punto di nomina e rimozione degli ALJ, limitandosi però ad affrontare solo affrontato la questione della nomina. Successivamente alla sentenza Lucia, la SEC aveva allora assegnato il procedimento dei ricorrenti a un altro ALJ, nominato appunto secondo le indicazioni della sentenza. I ricorrenti hanno però preferito rinunciare al diritto a una nuova udienza e hanno proseguito con la loro richiesta di riesame alla SEC, che ha confermato la decisione del giudice amministrativo. Esauriti i rimedi amministrativi, i ricorrenti si sono infine rivolti alla Corte d’Appello del Fifth Circuit, che, come anticipato, ha riconosciuto l’incostituzionalità della decisione della SEC per tre motivi.
Per prima cosa la Corte d’Appello ha ritenuto che le udienze amministrative violassero il diritto del Settimo Emendamento a un jury trial, dal momento che tradizionalmente si riconosce che sui “diritti privati” protetti dalla common law si decida nell’ambito di un jury trial, mentre sui “diritti pubblici” si possa decidere anche senza. In particolare, la Corte d’appello si sofferma sulla distinzione tra diritti pubblici e privati, riconoscendo che nel caso in oggetto si tratta “essenzialmente di riparazione di danni privati”. La Corte ha in secondo luogo ritenuto che il Congresso abbia impropriamente delegato il potere legislativo di cui è titolare alla SEC. La nondelegation doctrine, dottrina di matrice giurisprudenziale raramente utilizzata, si fonda sull’idea per cui l’art. I della Costituzione conferisce il potere legislativo al solo Congresso, che può delegare una parte del suo potere, a condizione di fornire intelligible principles per esercitare la delega. Secondo la Corte d’Appello il Congresso non ha indicato, nel caso di specie, un principio in grado di guidare la scelta verso l’utilizzazione o meno del jury trial o del giudizio di fronte agli ALJ. La delega è pertanto incostituzionale. Da ultimo, la Corte d’Appello ha ritenuto che la SEC abbia violato la Take Care Clause dell’art. II della Costituzione, secondo cui il Presidente take(s) Care that the Laws be faithfully executed. La Corte Suprema ha interpretato tale clausola nel senso del riconoscimento, in capo al Presidente, della garanzia rispetto alla titolarità di un potere adeguatamente effettivo in materia di nomine e rimozioni dei funzionari. La Corte d’Appello, sulla base della citata sentenza Lucia, ha ritenuto che gli ALJ della SEC siano inferior officers, e che quindi spetti al Presidente “aver cura” che questi attuino fedelmente la legge. La Corte ha aggiunto che però la struttura amministrativa della SEC impedisce al Presidente di controllare in modo adeguato e diretto gli ALJ, che possono essere rimossi solo dai Commissari della SEC se il Merits Systems Protection Board (MSPB) rintracci una giusta causa. I Commissari della SEC e i membri del MSPB, a loro volta, possono essere rimossi dal Presidente solo nel caso in cui incorra una giusta causa.
Se la decisione fosse confermata, ostacolerebbe gravemente l’azione della SEC, impedendo all’agenzia di utilizzare meccanismi consolidati e, se del caso, disporre sanzioni civili negli Stati interessati. La decisione rischia di mettere in discussione la gran parte delle azioni amministrative poste in essere dalle agenzie federali – tra cui: Environmental protection agency, Commodity Futures Exchange Commission, Consumer Financial Protection Bureau, Federal Trade Commission e Financial Protection Bureau – che utilizzano modalità operative simili. Se la decisione dovesse essere confermata, si avrà una valanga di azioni legali volte a contestare l’operato di queste agenzie in sede amministrativa e nel frattempo è ipotizzabile che la SEC si astenga dall’adire gli ALJ nei casi in cui sia disponibile un foro federale concorrente.


Due pesi e due misure. La Corte Suprema USA si pronuncia sull’obbligo vaccinale rivolto ai dipendenti delle grandi aziende e ai sanitari

Il 13 gennaio scorso la Corte Suprema statunitense si è pronunciata su due misure di forte impatto per la campagna di vaccinazione contro il Covid-19 adottate dall’amministrazione Biden. In particolare, l’agenzia Occupational Safety and Health Administration (OSHA) aveva imposto l’obbligo di vaccinarsi – oppure di indossare la mascherina e sottoporsi settimanalmente a un tampone per accertare la negatività al virus – ai lavoratori delle aziende con almeno cento dipendenti, mentre la Secretary of Health and Human Services aveva previsto l’obbligo vaccinale per i sanitari afferenti a strutture che ricevono i sussidi federali dei programmi Medicare e Medicaid.
La Corte Suprema, con la decisione National Federation of Independent Business v. OSHA, ha sospeso l’efficacia del primo provvedimento, che avrebbe riguardato circa 84 milioni di cittadini statunitensi, con 6 voti contro 3. Di diverso orientamento invece la decisione Biden v. Missouri , che ha confermato, con 5 voti contro 4 (i due giudici conservatori Roberts e Kavanaugh si sono in questo caso allineati ai liberali), la previsione dell’obbligo vaccinale per 10,3 milioni di persone, la quasi totalità degli operatori sanitari del Paese, tenuti quindi a vaccinarsi entro la fine di febbraio.
Nelle due opinioni non firmate la Corte non si è pronunciata sulla costituzionalità o meno dell’obbligo vaccinale, concentrandosi invece sulla questione dell’individuazione del soggetto cui spetta imporre l’obbligo suddetto, facendo ricorso a una dottrina di creazione giurisprudenziale raramente utilizzata, che ha portato all’adozione di due decisioni dagli esiti non conciliabili.
La decisione NFIB si fonda sulla c.d. major questions doctrine, dottrina giurisprudenziale emersa nei casi MCI Telecommunications Corporation v. American Telephone & Telegraph del 1994 e FDA v. Brown & Williamson Tobacco Corporation del 2000, che pone limiti rigorosi al potere delle agenzie federali nell’esercizio di “poteri di vasta importanza economica e politica”, affermando che sia il Congresso a doverli esercitare, a meno che non ci sia una sua chiara, incontrovertibile, autorizzazione nei confronti delle agenzie suddette. La necessità di una chiara autorizzazione alle agenzie da parte del Congresso si pone nella prospettiva del promovimento della responsabilità democratica, della preservazione della struttura costituzionale e dell’intento di evitare il coinvolgimento del potere giudiziario in questioni politiche. In NFIB e in Missouri (sebbene in quest’ultima decisione non si trovi un riferimento espresso alla major questions doctrine) si ha però l’impressione che la dottrina sia utilizzata in modo strumentale: la Corte non riesce ad articolare un’argomentazione giuridica coerente che giustifichi i due diversi esiti.
In NFIB si sottolinea come l’imposizione del vaccino o del tampone settimanale a 84 milioni di americani costituisca una “questione di grande importanza economica”, la cui regolazione spetta pertanto al Congresso. A destare perplessità, ammessa la congruenza del ricorso alla dottrina delle c.d. major questions, è il diverso uso che ne fa la Corte in riferimento al personale sanitario, come emerge anche dalla dissenting opinion del giudice Thomas in Missouri: l’obbligo vaccinale imposto ai sanitari, sebbene riguardi una platea di soggetti meno estesa di quello rivolto ai dipendenti delle grandi aziende, riguarda comunque un numero cospicuo di cittadini statunitensi. Non è dato desumere dalle due decisioni in oggetto quanti soggetti debbano essere interessati da una previsione affinché possa definirsi come una questione di “vasta importanza economica e politica”.
In NFIB la Corte sottolinea inoltre che la legge attribuisce all’OSHA il potere di intervenire in materia di sicurezza sul posto di lavoro, in cui non è ricompreso quello di occuparsi di questioni di sanità pubblica. La Corte interpreta restrittivamente l’ambito di competenza dell’OSHA, cui si fa riferimento nella legge istitutiva, concernente le minacce alla salute cui si espongono i lavoratori. Ci si riferirebbe non ai pericoli cui si può andare incontro accidentalmente sul luogo di lavoro, ma a quelli strettamente collegati alla prestazione di lavoro. Nell’opinione di maggioranza si afferma: “il Covid si diffonde a casa, nelle scuole, durante gli eventi sportivi e ovunque le persone si riuniscano”. Questo rischio riguarderebbe infatti tutti e, permettere all’OSHA di intervenire in tale ambito, a ragione del fatto che la maggior parte dei cittadini statunitensi lavora, esponendosi al virus, porterebbe ad ampliare il suo potere senza una chiara autorizzazione del Congresso. I tre giudici liberali nella dissenting opinion ritengono invece che non sia chiaro perché l’OSHA, potendo regolare le minacce che si manifestano sia all’interno che all’esterno del luogo di lavoro, compresi i rischi di incendio, installazioni elettriche difettose e uscite di emergenza inadeguate, non possa intervenire per prevenire o limitare le infezioni da Covid.
Ulteriori elementi di perplessità sugli orientamenti della Corte sorgono guardando al tenore letterale delle previsioni oggetto dei giudizi. Nel caso NFIB, una legge federale, che in situazioni ordinarie richiede all’agenzia OSHA di seguire un procedimento molto articolato per approvare nuovi regolamenti sulla sicurezza sul lavoro, conferisce tuttavia all’agenzia il potere di stabilire uno “standard temporaneo di emergenza”, per proteggere i lavoratori dal “grave pericolo di esposizione a sostanze o agenti tossici o fisicamente dannosi”. In Missouri, una legge federale incarica invece i Centers for Medicare and Medicaid Services di adottare le misure che “ritiene necessarie nell’interesse della salute e della sicurezza degli individui che ricevono servizi” nelle strutture che accettano finanziamenti federali. Al di là del parzialmente diverso fondamento giuridico (nel primo caso si fa riferimento a uno specifico standard emergenziale, nel secondo a una disposizione più generale), di cui la Corte non tiene conto, ciò che emerge è il tenore letterale piuttosto simile delle due previsioni. Entrambe ricorrono a delle formule aperte, attribuendo una serie di poteri che potrebbero essere esercitati in un ampio spettro di situazioni, con la finalità di tutelare la salute, ed entrambe prevedono che le agenzie adottino solo le misure “necessarie” a proteggere la salute. Come visto, la Corte però tratta le due disposizioni in modo molto diverso. In NFIB si fa riferimento espresso alla c.d. major questions doctrine, affermando che il Congresso debba essere molto chiaro nell’autorizzare un’agenzia ad esercitare poteri di vasta portata economica e politica, citando altresì una decisione dello scorso agosto riguardante una moratoria sugli sfratti (Alabama Assn. of Realtors v. Department of Health and Human Servs.). Tuttavia, il problema in NFIB non è la “vaghezza” della legge federale: nell’opinione di maggioranza si legge che, dal momento che l’OSHA non è chiamata a svolgere un “esercizio quotidiano del potere federale” e i suoi interventi possono solamente riguardare il luogo di lavoro, e il pericolo di contrarre il Covid-19 non sarebbe legato, causalmente, al luogo di lavoro, la Corte utilizza un’altra strada per “bloccare” l’obbligo. A differenza dei precedenti, in cui la c.d. major questions doctrine si applicava quando non era chiaro se il Congresso intendesse consentire a un’agenzia di regolare un certo ambito, in NFIB questa dottrina si applica a qualsiasi disposizione di carattere aperto di una legge federale che conferisce a un’agenzia ampi poteri, anche se è evidente che il Congresso intendesse proprio affidare all’agenzia proprio quei poteri così ampi. Tuttavia, leggendo Missouri, si nota come i Centers for Medicare and Medicaid Services godano in realtà, in accordo alla legge federale, di un potere decisionale molto più esteso per agire nell’ “interesse della salute e della sicurezza degli individui” che ricevono assistenza sanitaria. In NFIB la Corte sottolinea inoltre che l’OSHA, in tutta la sua storia, non aveva mai adottato misure di questo tipo, così incidenti sulla salute pubblica. Nell’opinione di maggioranza di Missouri, si legge che la previsione dell’obbligo vaccinale ai sanitari oltrepassa tutte le azioni fino a quel momento intraprese dal Secretary of Health and Human Services per implementare il controllo delle infezioni, notando altresì che, storicamente, gli Stati, e non il CMS, avevano in certi frangenti imposto obblighi vaccinali agli operatori del settore.
La decisione Missouri sembra non tenere in alcuna considerazione quanto statuito in NFIB: le due opinioni sono inconciliabili, fondate su argomentazioni completamente diverse, senza neanche un tentativo di spiegazione da parte della Corte sul perché una certa analisi si applichi in un caso e non nell’altro.I giudici di Washington, nel decidere i due casi del 13 gennaio, hanno adottato “due pesi e due misure”, giungendo ad esiti contrapposti.
Nonostante la decisione Missouri, il Presidente Biden ha espresso in una nota tutta la sua delusione per il “blocco” dimisure di buon senso e poste a tutela della vita”, concretizzate appunto dalla previsione dell’obbligo vaccinale, scientificamente e giuridicamente fondato, per i lavoratori delle grandi aziende. Come sottolineato da Biden, spetterà ora ai singoli Stati e ai datori di lavoro decidere se richiedere ai residenti e ai propri dipendenti di “fare il piccolo ed efficace sforzo di vaccinarsi”, con l’obiettivo di “proteggere la salute degli americani e l’economia”.


Brnovich v. Democratic National Committee: la Corte Suprema USA “salva” le limitazioni al diritto di voto previste in Arizona

Con la sentenza Brnovich et al. v. Democratic National Committee et al. (consolidato con Arizona Republican Party et al. v. Democratic National Committee et al.) del 1° luglio 2021 la Corte Suprema ha ritenuto legittime (6-3) le limitazioni al diritto voto introdotte dal parlamento statale dell’Arizona (controllato dai repubblicani), ricorrendo ad un’interpretazione restrittiva della Sez. 2 del Voting Rights Act (VRA), che proibisce agli stati di imporre agli elettori requisiti, standard o procedure in grado di tradursi in una sostanziale negazione o menomazione del diritto di voto, sulla base dell’appartenenza ad una minoranza.
Per i giudici conservatori che hanno espresso l’opinione di maggioranza la parte rilevante della legge può essere invocata per far valere una violazione del diritto di voto solo nei casi in cui le limitazioni si manifestino attraverso l’imposizione di oneri sproporzionati e ingiustificati in capo agli elettori appartenenti alle minoranze, inficiando in concreto la loro capacità di votare. La decisione – la prima che considera questa parte del VRA in relazione alla questione in oggetto – rappresenta un ulteriore colpo inferto all’importante legge del 1965, che va ad aggiungersi alla decisione del 2013 Shelby County v. Holder. La Sez. 2 del VRA ha assunto una grande rilevanza per la protezione del diritto di voto in particolare dopo che la decisione da ultimo citata aveva dichiarato l’incostituzionalità delle Sez. 5 e 4(b) del VRA, che imponevano agli stati con un passato di discriminazione razziale di sottoporre all’approvazione del governo federale le leggi in materia elettorale. Prima della sentenza Shelby County la Sez. 2 era stata infatti invocata per lo più nei casi in cui a venire in oggetto era l’illegale “diluizione” dei gruppi minoritari nei diversi collegi, mentre il suo ruolo nel vaglio delle restrizioni al diritto di voto era stato poco valorizzato. Dopo la sentenza Brnovich sarà ancora più difficile per chi voglia far valere una violazione del diritto di voto richiamandosi alla Sez. 2 veder accolto il proprio ricorso: tale strumento appare ora limitato a contrastare solo le restrizioni che colpiscono in modo manifestamente sproporzionato l’accesso ai seggi degli elettori appartenenti alle minoranze. E tale esito appare ancora più preoccupante dal momento che di recente, in diversi Stati “rossi”, con il pretesto di contrastare le frodi elettorali sull’onda della “Big Lie” trumpiana sono state approvate una serie di misure restrittive del diritto di voto (come accaduto di recente in Georgia).
Brnovich, Attorney general dell’Arizona, e gli altri ricorrenti si sono rivolti alla Corte Suprema con l’intento di ribaltare la sentenza della Corte d’Appello di San Francisco, che aveva ritenuto due misure adottate dalla state legislature contrarie alla Sez. 2 del VRA in quanto discriminavano gli elettori neri, ispanici e nativi americani. La prima misura in particolare imponeva ai funzionari elettorali di scartare le schede votate nel distretto sbagliato, attuando quella che viene definita out of precinct ballot disqualification. La legge dell’Arizona consente infatti ad ogni contea, per il voto espresso di persona, di optare per l’adozione di un centro di voto o di un sistema basato sul distretto. Nelle contee che ricorrono al primo sistema, gli elettori registrati possono votare in qualsiasi luogo della contea; nelle contee che ricorrono al secondo, gli elettori registrati possono invece votare solo nel distretto designato. La seconda misura andava invece a incidere sul voto anticipato. Mentre solo alcune contee permettevano agli elettori di depositare le loro schede di voto anticipato in speciali cassette di raccolta, tutte le contee, per oltre 25 anni (in accordo alla legislazione dello stato) hanno consentito la restituzione delle schede di voto anticipato per posta, o di persona presso un seggio elettorale, un centro di voto, o l’ufficio di un funzionario elettorale autorizzato. Ebbene, molti elettori – in particolare quelli appartenenti alle minoranze – che votano in anticipo hanno fatto ricorso in modo diffuso a soggetti terzi per raccogliere e consegnare le schede. Il parlamento statale a maggioranza repubblicana nel 2016 ha introdotto una legge che ha criminalizzato proprio l’atto di raccolta e consegna della scheda di voto ad una persona diversa da chi abbia votato (ballot collection ban).
La Corte d’Appello di San Francisco aveva dichiarato che entrambe le politiche violavano la Sez. 2, in quanto aventi effetti discriminatori verso gli elettori appartenenti alle minoranze, sottolineando in particolare che il ballot collection ban portava a una violazione sia del VRA che del XV Emendamento. Per la Corte Suprema, come scritto dal giudice Alito, estensore dell’opinione di maggioranza, premesso che “la legge dell’Arizona consente di votare facilmente”, le due misure sono invece da ritenersi legittime. Il divieto di votare fuori dal distretto sarebbe giustificato, dal momento che l’onere di votare nel distretto corretto è minimo, considerando altresì la possibilità per l’elettore di restituire la scheda ad una cassetta di raccolta o ad un ufficio postale e del basso numero di schede scartate. Inoltre non sarebbe stato sufficientemente dimostrano che il ballot collection ban avrebbe colpito in modo sproporzionato gli elettori appartenenti alle minoranze, soffermandosi invece sull’importanza dell’interesse statale a “scoraggiare potenziali frodi elettorali e rafforzare la fiducia degli elettori”, aggiungendo altresì che la corte distrettuale non avesse provato l’intento discriminatorio in capo al legislatore repubblicano.
Alito fa poi un vero e proprio elenco di elementi che, soprattutto se considerati insieme, lasciano supporre che sarà più difficile per i ricorrenti far valere future violazioni del diritto di voto, pur sottolineando che le circostanze enunciate non rappresentano un test, cioè a dire una lista esaustiva di parametri che i tribunali dovranno considerare per determinare se una legge sia in contrasto con la Sez. 2. In primo luogo l’onere imposto dalla restrizione deve essere considerevole, dal momento che “il voto richiede tempo e, quasi per tutti, qualche viaggio” non essendo quindi sufficiente “un mero disagio” per configurare una discriminazione. In secondo luogo i tribunali dovrebbero considerare il grado di scostamento della regola rispetto allo standard previsto quando il VRA è stato emendato nel 1982. In terzo luogo si deve valutare il grado disparità che si crea con l’introduzione di una nuova regola nei confronti degli appartenenti a diversi gruppi etnici. In quarto luogo, i tribunali devono considerare tutte le diverse modalità attraverso le quali gli elettori possono votare e, da ultimo, devono valutare altresì gli interessi statali posti a fondamento delle restrizioni al diritto di voto, sottolineando in particolare l’importanza della prevenzione delle frodi elettorali.
I giudici di area liberal hanno dissentito. Breyer e Sotomayor hanno firmato la dissenting opinion della giudice Kagan, che ha sottolineato come la maggioranza abbia “riscritto” il VRA (cfr. le considerazioni di Nicholas Stephanopoulos). Nell’articolata opinione dissenziente la giudice (che aveva altresì redatto la dissenting opinion in Rucho v. Common Cause, sentenza del 2019 riguardante il partisan gerrymandering), ha definito la sentenza come “tragic”, nonché, in riferimento a quanto espresso dalla maggioranza, una “law-free zone”. Kagan ha affermato che se da una parte il VRA rappresenta il lato migliore dell’America, al contempo rammenta anche quello peggiore, dal momento che era - e resta ancora - così necessario. Quanto alla Sez. 2, ha sottolineato che, contrariamente all’interpretazione restrittiva datane dai giudici conservatori, che ha finito per svuotare la tutela del diritto di voto ivi prevista, questa disposizione deve invece essere letta in senso espansivo, altresì considerando che, a partire dalla sentenza Shelby County, molti stati hanno previsto nuove restrizioni di voto. La giudice si sofferma poi diffusamente sulle ragioni storiche che hanno portato il Congresso ad adottare il VRA nel 1965, rispondendo al giudice Alito, per cui la discriminazione razziale aveva in fondo poca attinenza con le questioni affrontate, che invece non si può comprendere il VRA se non si tiene ben presente la situazione che aveva portato il Congresso ad adottarlo. La giudice fa un parallelismo con quanto accaduto nel 2013, richiamando l’osservazione della giudice Bader Ginsburg nella dissenting opinion a Shelby County, secondo cui abbandonare la regola della preclearance perché le discriminazioni razziali erano diminuite rispetto agli anni ‘60 sarebbe stato come “throwing away your umbrella in a rainstorm because you are not getting wet”.
Anche il Presidente Biden ha preso posizione sulla sentenza Brnovich, in uno statement in cui ha affermato che la Corte Suprema ha inferto gravi danni al VRA ed aggiungendo che le leggi sul diritto di voto dovrebbero essere applicate pienamente, non certo indebolite, e a maggior ragione in un contesto in cui gli attacchi al diritto di voto assumono forme sempre nuove.
Ora che la sentenza Brnovich ha ulteriormente ristretto il campo di applicazione del VRA, limitandolo ai tentativi di disegnare i collegi elettorali in modo da “diluire” l’influenza degli elettori appartenenti alle minoranze, l’attenzione si concentra sul Congresso. I democratici hanno fissato nella protezione del diritto di voto una delle loro priorità legislative, come prova il disegno di legge For the People Act, che consentirebbe di introdurre parametri uniformi per assicurare a tutti i cittadini nei diversi stati le stesse condizioni di accesso al voto, ma che è attualmente bloccato al Senato. Un’altra importante proposta, sebbene di portata più ristretta, è rappresentata inoltre dal John Lewis Voting Rights Advancement Act, diretto a ripristinare la disposizione del VRA colpita da Shelby County nel 2013. Allo stato anche tale proposta non gode però dell’appoggio di un numero sufficiente di repubblicani che possa portare alla sua approvazione in Senato: la strada da percorre per raggiungere la piena effettività del diritto di voto negli USA è ancora lunga e piena di ostacoli.


La nuova legge elettorale della Georgia limita il diritto di voto: la democrazia USA ancora costretta a fare i conti con Shelby County v. Holder

Lo scorso 26 marzo il Governatore repubblicano della Georgia Brian Kemp ha firmato una nuova legge elettorale, denominata Election Integrity Act 2021, che rappresenterebbe, a detta dello stesso, lo strumento per recuperare la fiducia di quegli elettori fra i quali avevano attecchito i sospetti di brogli alimentati da Trump durante le presidenziali tenutesi lo scorso novembre. Le previsioni della nuova legge mostrano tuttavia l’intento, più che di predisporre delle garanzie a tutela del corretto svolgersi delle elezioni, di addivenire ad una limitazione sostanziale del diritto di voto, a danno in particolare della porzione di elettorato appartenente alla comunità afroamericana, come affermato dai Democratici, nonché dimostrato da un’indagine del Brennan Center.
Nonostante da più parti siano state messe in evidenza le criticità della nuova legge elettorale, ogni tentativo di ripensare tale intervento o interrompere l’iter legislativo si è rivelato infruttuoso. Il disegno di legge è stato anzi interessato da notevoli cambiamenti nell’imminenza dell’approvazione, passando da un testo di appena due pagine ad uno di circa cento, diventato poi legge nel giro di una settimana. La nuova legge elettorale ha influito in primo luogo sulle modalità di esercizio del voto per posta, che grande importanza ha avuto nel corso delle ultime elezioni presidenziali, sia a causa dell’emergenza pandemica, sia in quanto il maggior incremento dei voti espressi con questa modalità si è registrato fra quelle fasce di popolazione che, a causa di fattori di diversa natura, in passato non votavano e che si sono rivelate determinanti per la vittoria del candidato Democratico. Mentre fino ad ora era sufficiente una firma, i nuovi requisiti di identificazione cui devono adeguarsi gli elettori prevedono che questi ultimi forniscano una copia del loro documento di identità o del passaporto o della loro patente di guida della Georgia. Secondo i Democratici l’accesso al voto sarà più difficile per le minoranze etniche ed i soggetti a basso reddito – categorie che spesso vengono a coincidere – che in molti casi non dispongono di documenti identificativi: negli Stati Uniti non c’è un documento assimilabile alla carta d’identità italiana ed un ampio numero di persone non ha patente, né passaporto. A ciò si aggiunga che la nuova legge elettorale prevede maggiori poteri in capo al legislatore statale nell’ambito delle operazioni di controllo del voto nel caso in cui vengano segnalate irregolarità, limita il ricorso a buche delle lettere speciali, che facilitano il voto, e dispone la chiusura anticipata delle urne, così rendendo molto più difficoltoso, se non impossibile, l’esercizio del diritto di voto per ampie categorie di lavoratori. A suscitare molta indignazione è stata inoltre la previsione per cui commette reato chi, come volontario, distribuisce cibo e acqua alle persone in fila che attendono il loro turno per votare. Ciò appare tanto più odioso dal momento che le file più lunghe si creano proprio nei seggi in cui votano le comunità afroamericane: la riduzione dei centri elettorali nello Stato, voluta dai Repubblicani, ha interessato soprattutto i quartieri in cui maggiore è la presenza di afroamericani.
I Repubblicani hanno potuto approvare una legge del genere dal momento che la Corte Suprema, con la controversa sentenza Shelby County v. Holder del 2013 (5-4), ha dichiarato l’incostituzionalità, assumendo come parametro il Decimo Emendamento – per cui la competenza della legislazione in materia elettorale spetta agli Stati – della Sezione 5 e della Sezione 4(b) del Voting Rights Act del 1965 (VRA). Le Sezioni del VRA ora citate obbligavano gli Stati e le località con un passato di discriminazione razziale a sottoporre ad un controllo preventivo del governo federale le leggi in materia elettorale, nell’ambito di un procedimento chiamato preclearance, al quale potevano sottrarsi solo dopo dieci anni di elezioni svolte senza criticità. Dalla dichiarazione di incostituzionalità è conseguito il venir meno della supervisione diretta degli organismi federali sulla legislazione elettorale delle covered jurisdictions, poiché, a detta del Presidente della Corte Suprema Roberts, le citate previsioni del VRA avrebbero costituito una «strong medicine» per rispondere ad una «entrenched racial discrimination» sussistente negli anni Sessanta, che sarebbe invece oggi rara e pertanto non in grado di giustificare la violazione del principio di sovranità paritaria degli Stati, proprio dell’assetto federale. A questo punto vale la pena richiamare la famosa dissenting opinion della Giudice Ruth Bader Ginsburg, che oltre a confutare l’argomentazione di Roberts, aveva sottolineato come spettasse al Congresso, che tra l’altro aveva riconfermato il VRA nel 2006, decidere se ci fosse ancora bisogno di applicare la preclearance e nei confronti di quali Stati. La Giudice aveva altresì prefigurato che in seguito alla decisione in oggetto sarebbero presto state adottate da parte degli Stati delle leggi elettorali che avrebbero portato ad una serie di limitazioni del diritto di voto.
Ebbene, la nuova legge elettorale della Georgia costituisce esattamente quel tipo di attacco alla democrazia che la Giudice Ginsburg aveva prefigurato conseguire dalla sentenza Shelby County. Secondo i Repubblicani la neointrodotta legge elettorale servirebbe a limitare le possibilità di brogli, nonché a rendere il voto più sicuro, sebbene abbia tutto l’aspetto di una reazione agli esiti delle presidenziali dello scorso 3 novembre, durante le quali Biden ha riportato la vittoria, seppur con un margine ristretto (meno di 13.000 voti): era dal 1992 che un candidato democratico non riusciva in tale impresa.  Le schede sono state anche riconteggiate, in quanto è la legge dello Stato medesimo a prevederlo, nel caso in cui la differenza tra i voti ottenuti dai due candidati sia inferiore allo 0,5%. Dopo un momento di incertezza – dovuto al fatto che ad un certo punto il segretario di Stato Raffensperger aveva dato per concluso il processo di certificazione, per poi smentire, affermando invece che era ancora in corso – è stata confermata la vittoria di Biden. Il Presidente uscente Trump, che frattanto vedeva fallire i ricorsi proposti per far valere presunte irregolarità e così bloccare la certificazione delle elezioni in diversi Stati, avrebbe voluto che le State legislatures a maggioranza repubblicana in cui risultati apparivano in bilico gli assegnassero la vittoria, così contravvenendo alla volontà popolare e generando un vero e proprio sovvertimento del principio democratico. Kemp, che l’anno prossimo si ricandiderà alla carica di Governatore, ha rifiutato di adeguarsi alle richieste di Trump – che ha reagito condannandolo pubblicamente – ma qualche giorno fa ha affermato, a ridosso appunto dell’approvazione a tempo record della nuova legge, che le elezioni del 2020 avevano fatto emergere delle «alarming issues», che indicavano la necessità di un profondo cambiamento. Al momento della firma della legge un gruppo di Democratici ha protestato davanti all’ufficio del Governatore e la deputata locale Park Cannon, appartenente alla comunità afroamericana, è stata arrestata solo per aver bussato alla porta dell’ufficio. Cannon è stata successivamente rilasciata, ma intanto le immagini dell’arresto sono state diffuse dai media e da più parti paragonate a quelle degli arresti di attivisti afroamericani avvenuti nella fase delle lotte per i diritti civili.
Biden ha definito la nuova legge elettorale della Georgia, che sarà esaminata anche dal Justice Department, una «atrocity», una «un-American law to deny people the right to vote», nonché un «blatant attack on the Constitution», una legge “Jim Crow” (così sono dette quelle leggi adottate a livello locale o statale che, dagli anni Settanta dell’Ottocento, dopo l’abolizione della schiavitù, e fino alla metà degli anni Sessanta del secolo scorso, hanno permesso la segregazione razziale negli Stati del Sud) del XXI secolo. Nel frattempo contro la nuova legge elettorale è già stato presentato presso la corte competente un ricorso da parte di tre gruppi di attivisti per il diritto di voto.
Quello della limitazione del diritto di accesso al voto non è un problema che riguarda solo la Georgia: si potrebbe parlare di una vera e propria strategia, dal momento che i Repubblicani hanno già approvato una legge simile in Iowa, e stanno procedendo in modo analogo in Stati quali Arizona, Florida e Texas. Per questa ragione appare auspicabile una celere approvazione del c.d. For the People Act 2021. Questa legge prevedrebbe dei parametri uniformi per assicurare a tutti i cittadini le stesse condizioni di accesso al voto. In primo luogo viene prevista la registrazione automatica degli elettori, che già opera in 19 Stati e sarebbe poi garantito l’accesso al voto per posta e al voto anticipato, misure che recentemente hanno dimostrato un grande riscontro e che si sono rivelate efficaci per riportare al voto larghi settori dell’elettorato americano, ma che oggi diversi Stati cercano di limitare. Da ultimo, verrebbe ripristinato il diritto di voto in capo a quei cittadini che hanno scontato la pena detentiva, in modo da garantire loro un’effettiva reintegrazione nella società. L’approvazione del For the People Act, su cui in questa sede ci siamo soffermati solo brevemente, porterebbe sicuramente ad un rafforzamento della fiducia dei cittadini nel procedimento elettorale, grazie alla predisposizione di una serie di importanti garanzie, peraltro uniformi, nei diversi Stati. Su tali presupposti si potrebbe davvero procedere verso la realizzazione effettiva della democrazia, nel cui ambito tutti i cittadini abbiano le stesse chances di essere rappresentati, e sempre meno spazio troverebbero quelle teorie cospiratorie che hanno avvelenato il dibattito pubblico degli ultimi anni.


L’unità della tradizione giuridica europea negli sviluppi (meno noti) della scienza giuridica tedesca degli anni Trenta. Note su K. Tuori, Empire of Law. Nazi Germany, Exile Scholars and the Battle for the Future of Europe, Cambridge University Press 2020

Empire of Law si prefigge di scandagliare il terreno in cui germoglia l'invenzione della tradizione secondo cui l'integrazione giuridica europea sia sorretta dall'intrinseca unità delle diverse tradizioni giuridiche europee, cercando di porre argine al senso di frustrazione causato dalla «simplistic way in which the notion of a shared past has been used as an argument for the future in European legal discourse». Il processo collettivo che orienta gli Stati nazionali nella direzione dell'integrazione europea non si sarebbe infatti avviato al momento della capitolazione dei regimi nazista e fascista e dell’affievolirsi del nazionalismo di estrema destra, non sarebbe solamente il risultato di una reazione “postuma” agli orrori dei totalitarismi. L’A. sostiene che un ruolo fondamentale spetti ai giuristi tedeschi degli anni Trenta, che, seppur fautori di teorizzazioni fra loro non sovrapponibili, condividono una visione della storia del patrimonio giuridico europeo che trova il suo fondamento nel diritto romano.
La «rivoluzione nazista» accantona violentemente quei principi di «humanity, equality, rights and security» considerati «selfevident in Europe at the time», come testimoniato da una lettera di Kantorowicz dell’aprile 1933 riportata dall’A. nell’Introduzione. I giuristi tedeschi emigrati, molti dei quali riescono ad inserirsi negli ambienti accademici di Gran Bretagna e USA, si imbarcano nell’ardua impresa scientifica, a volte affetta da una serie di inesattezze dal punto di vista storico e metodologico, di collegare la tradizione giuridica continentale con quella atlantica, riconducendo idee quali lo stato di diritto, la libertà e l'uguaglianza ad un comune patrimonio europeo risalente all’antica Roma. D’altra parte, un secondo gruppo di giuristi, tedeschi, ma anche italiani, abbraccia i principi del totalitarismo, che in vario modo non mancherà di promuovere una propria idea di unità europea e di romanità.  Fra i giuristi “esuli” l’A. sottolinea il contributo di F. Schulz e F. Pringsheim, nonché di P. Koschaker, che invece rimarrà in Germania, pur occupando una posizione marginale. Quanto all’opera dei giuristi allineati con il regime, l’A. si sofferma sulle teorie di F. Wieacker e di H. Coing, adattate nel secondo dopoguerra in funzione della costruzione di una «common past theory». La contiguità di questi lavori, realizzati da studiosi così diversi, mette in evidenza le potenziali contraddizioni della «question of heritage», che da una parte caratterizza la riflessione giuridica della Scuola storica e dall’altra viene utilizzata dai teorici del nazismo per sostenere le tesi più odiose. Gli studi dei giuristi citati vengono posti in dialettica, da una parte, con quelli di altri autori contemporanei che, vivendo da emigrati, affrontano variamente la problematica della formulazione di una tradizione giuridica europea e, dall’altra, con quelli di altri studiosi europei coinvolti con i regimi totalitari. La particolare attenzione posta dall’A. all’opera degli esuli è dovuta al fatto che «The scientific innovation that followed would probably not have been possible without their horrendous removal from their homeland», in quanto gran parte degli sforzi teorici dei giuristi “in esilio” si concentrano sui diritti e sulla necessità della loro garanzia. Il dibattito del secondo dopoguerra sulla configurazione di un regime europeo dei diritti umani ha infatti evidenziato «the centrality of human rights language in shaping the agenda of European integration». La narrazione dell'Europa che ne risulta, incentrata sui diritti umani, sullo stato di diritto e sull'eguaglianza, diventerà inoltre un fattore unificante durante la guerra fredda.
Il Cap. II si prefigge di studiare l'emergere dell'idea di libertà come concetto giuridico fondamentale per la tradizione europea, seguendo il percorso scientifico di Schulz. In particolare ci si sofferma sui concetti di libertà e autorità e sul modo in cui essi definiscono il rapporto tra diritto e politica nei Principles of Roman Law, «un’opera atipica» che costituisce una prima reazione al nazismo – alcuni studiosi non concordano però su questo punto – la cui edizione tedesca (1934), seguita dopo due anni da quella inglese, viene pubblicata poco prima dell’entrata in vigore del divieto per gli ebrei di dare alle stampe opere scientifiche. Qui il diritto romano viene idealizzato e, in contrapposizione al diritto nazista, ne vengono lodate le sue presunte caratteristiche, quali l’indipendenza dalla politica, la concezione della cittadinanza come status fondato non sull'etnia ma sull'appartenenza, la continuità e l'umanità. La prospettiva di Schulz è raffrontata con quella di altri studiosi emigrati. Ad es. Levy e Momigliano presentato argomentazioni simili a Schulz quanto al collegamento tra libertà e repubblicanesimo, mentre teorici politici quali Arendt e Strauss si occuperanno della questione della libertà in relazione alla crisi dello Stato liberale. In particolare nello sviluppo della riflessione di Arendt grande importanza rivestirà l’incontro con la realtà statunitense: la filosofa nel 1946 scriverà stupita in una lettera di come il sentimento di libertà lì sia forte al punto da far ritenere a molti di non poter vivere senza. Anche negli USA però la libertà non è al riparo da rischi, come prova l'ascesa dell’executive branch e l'affermarsi dello administrative state durante la guerra. Roosevelt affermerà in un discorso la necessità di difendersi con tutti i mezzi, comprese le limitazioni alle libertà fondamentali e, proprio in questo frangente, gli intellettuali tedeschi espatriati saranno fondamentali nel sensibilizzare l'opinione pubblica quanto alle insidie dell'executive privilege.
Il Cap. III si concentra sulla contrapposizione tra le idee di uguaglianza, cosmopolitismo e stato di diritto, in opposizione alle politiche naziste. Pringsheim, recatosi in Gran Bretagna a seguito delle violenze naziste, comincerà a tenere delle lezioni di Diritto Romano in varie università. In una conferenza, in seguito pubblicata sul Journal of Roman Studies (1934), riformula il mito della Roma adrianea facendo dell’Imperatore-filosofo un politico cosmopolita, giudice e legislatore giusto. Al di là delle distorsioni storico-metodologiche, l’esaltazione della Roma adrianea costituisce una reazione rispetto alle violazioni della costituzione perpetrate dal nazismo. Se Pringsheim si leva a difesa dello Stato di diritto per mezzo della storia romana, l’A. nota come invece altri studiosi espatriati (Neumann, Hayek) attacchino direttamente il totalitarismo e l’idea di konkrete Ordnung. Particolare importanza viene data al fatto che, con il sostegno di molti espatriati tedeschi, negli USA la libertà e la difesa dello stato di diritto diventino i principi fondamentali sui quali si informa la politica del dopoguerra. Intanto una parte degli esuli tornerà in Germania: fra questi vi è Pringsheim, che cercherà di riformare il sistema universitario e prevenire una recrudescenza del nazismo.
Nel Cap. IV vengono affrontate le questioni della crisi del diritto romano in Germania – considerato “anti-tedesco” da una parte degli ideologi nazisti – e delle sue prospettive future attraverso le opere di Koschaker. Quanto alla posizione del giurista nei confronti del regime, il giudizio non è unanime. Koschaker scrive i suoi lavori principali, Die Krise des Römischen Rechts und die romanistische Rechtswissenschaft (1938) e Europa und das römische Recht (1947), come risposta alla crisi dello studio del diritto romano, sebbene gli interrogativi di fondo riguardino la formazione della cultura giuridica europea e le modalità attraverso cui il diritto romano diventi patrimonio giuridico comune. L'idea di Europa di Koschaker, che coniuga universalismo e particolarismo, da una parte attinge alla tradizione imperialista e alla tradizione cattolica, dall’altra alla concezione della cultura europea come portato di una specifica realtà storico-culturale. L’A. nota la contraddittorietà della definizione della tradizione giuridica europea di Koschaker, posta nei termini di “legge naturale relativa”, cui è sottesa proprio quella pretesa di essere particolare e universale insieme. Il confronto tra Koschaker e altri studiosi (Bonfante, Riccobono, De Francisci) permette di collocare i suoi scritti tra le varie e contraddittorie teorie dell'europeismo. L'Europa diventa la formula magica «di una sorta di quasi-universalismo, tema condiviso da autori conservatori e liberali, dai nazisti e dai fascisti ai socialisti radicali».  Anche in una prospettiva di riforma dell’educazione giuridica Koschaker presenta il diritto romano come fondamento della scienza giuridica privatistica europea, sulla cui base mediare fra le nazioni d'Europa. Queste idee sarebbero poi state elaborate dai Cristiano-conservatori, fra i quali troviamo J. Maritain. R. Schuman sarà influenzato proprio dalle idee di Maritain quanto al progetto di una nuova Europa fondata sui diritti umani e sulla democrazia ispirata ai valori cristiani, ma rimane ancora da approfondire il collegamento tra gli intellettuali di area cattolica e l’idea di Europa di Koschaker. La pubblicazione di Europa coincide invece con l’avvio dell’integrazione europea. Ma non finisce qui: P. Pescatore, allievo di Koschaker a Tubinga, sarà giudice della Corte di Giustizia (1967-1985), fra i fautori più convinti di un organo giurisdizionale europeo forte e indipendente. Pescatore, sostenitore della prima ora del primato del diritto europeo sul diritto nazionale, vede la Corte come un cantiere aperto, attraverso cui promuovere una certa idea di Europa. Come affermato dallo stesso A., non è dato sapere precisamente quanto l’insegnamento di Koshaker abbia influito sull’allievo, ma è interessante osservare come eventi e studi apparentemente lontani dalla nostra quotidianità giuridico-istituzionale finiscano per riverberarvisi.
Nel Cap. V l’A. ritorna agli anni del totalitarismo per occuparsi del percorso verso l’idea di Europa intrapreso dai giuristi più giovani, che spesso comporta una “conversione” ai valori democratici dopo la guerra. Ci si occupa in particolare dell’opera di Wieacker, allievo di Pringsheim, presto diventato giurista “di regime”, poi “riabilitato” durante la denazificazione dell’accademia. L’idea di diritto e di scienza giuridica di Wieacker, non appare, nonostante la sua appartenenza al NSDAP, in linea con l'ideologia nazista. La scienza giuridica viene intesa da Wieacker come tradizione ed «ethos intergenerazionale». Privatrechtsgeschichte der Neuzeit è un’opera «rivoluzionaria» in quanto promuove una nuova narrazione sul concetto di Europa, oltrepassando le barriere tra diritto romano e diritto contemporaneo. Nell’opera di Wieacker si possono rintracciare influssi weberiani e schmittiani, nonché frequenti rifermimenti a Savigny. Durante gli studi in Italia, il giurista subirà anche l’influenza di Riccobono e intraprenderà un dibattito con Betti e Gadamer sul significato da attribuire alla differenza tra interpretazione storica e giuridica. La sua sensibilità verso la realtà sociale e politica è invece dovuta all’influenza della Kieler Schule, che, tuttavia, si indebolirà a partire dagli anni della guerra, come dimostrano i suoi scritti. L’A. osserva come non fosse facilmente prevedibile che Privatrechtsgeschichte, un libro «che incorporava sia il vecchio che il nuovo, che si rivolgeva sia agli ex nazisti sia alle esigenze della nuova situazione politica» potesse rappresentare «a turn toward Europe». Allo stesso modo della svolta verso la democrazia e lo stato di diritto, questa svolta verso l’Europa può essere interpretata come un evento esterno e, in questo caso, si può affermare che «the will to belong worked in the opposite direction as it had done in the 1930s, leading not only Wieacker but also most of the legal academia to discover the shared roots of European legal science».
Da ultimo viene affrontata la questione del rapporto tra narrativa europea e tradizione dei diritti, prendendo spunto dal contributo di Coing, che sarà per lungo tempo direttore del Max Planck Institute for European Legal History, il primo giurista a mettere in relazione la tradizione dei diritti con l'idea di patrimonio giuridico europeo. Coing è un rappresentante della borghesia tedesca e non è chiaro se la sua adesione al nazismo fosse stata o meno convinta. L’esperienza della guerra invece costituirà un punto di partenza fondamentale per lo sviluppo della sua opera, in cui confluiscono la tradizione storica e quella del diritto naturale. Tale discorso si pone nell’ambito del dibattito sui diritti seguita alla caduta dei totalitarismi, che in Germania non trova in un primo momento grande seguito nel mondo accademico. L’approccio di Coing si dimostrerà vincente in quanto ricorre alla tradizione giuridica esistente per fondare i diritti, introducendo una «terza via»: «He argued that rights may be founded through tradition, not through nature or through a convention. Human rights are thus something that is based on personhood and morality, not as inalienable rights as suggested by Enlightenment thought or humanity itself». Il contributo di Coing alla teoria dei diritti va di pari passo a quello al diritto romano. Il disegno di un patrimonio giuridico europeo condiviso svolge lo stesso ruolo della Recezione, che è al contempo processo di riutilizzo della legge antica ed elemento fondativo. La storia giuridica europea «began to resemble a constitutional project without a constitution, where tradition operates at the same time as a justification and context». Il ruolo svolto da Coing nell’ambito del nascente dibattito europeo è stato riconosciuto, fra gli altri, da R. Zimmermann, nonché da W. Hallstein, futuro Presidente della Commissione CEE.
Con questo lavoro l’A. ci consegna una vivida rievocazione degli sviluppi meno noti della scienza giuridica tedesca degli anni Trenta, che ha contribuito, nel pieno della crisi dello Stato di diritto, all’edificazione dell’idea di tradizione giuridica europea. Certo, come affermato dall’A., il dibattito di cui si dà conto «relates to a very thin slice of Europe, namely the culture and population that is white, conservative and nationalist», ma vale la pena leggere questo studio anche in riferimento al fatto che in Europa, così come negli USA, si sta assistendo a preoccupanti rigurgiti dell’estremismo di destra e all’utilizzo della religione come fattore di esclusione e violenza. L’insegnamento che se ne può ricavare è quello della necessità dei principi fondamentali «the notions of humanity, equality, the rule of law, security and a sense of inclusion», già chiari a Schulz.


I casi di partisan gerrymandering non sono giustiziabili. La Corte Suprema USA invoca la political question doctrine in Rucho v. Common Cause

Lo scorso 27 giugno la massima istanza giurisdizionale americana ha reso l’attesissima decisione sulla giustiziabilità dei casi di partisan gerrymandering. La sentenza in oggetto (Rucho v. Common Cause, caso consolidato con Lamone v. Benisek) vanifica le speranze dei molti che auspicavano un intervento nel senso della fissazione di manageable standards  diretti ad  identificare univocamente tale pratica sì da dichiararne l’incostituzionalità.  La Corte, pur molto divisa (5 -4), ha concluso per la non giustiziabilità di tali casi, in quanto intrinsecamente implicanti valutazioni politiche dalle quali le Corti federali devono astenersi. La Corte Suprema invoca definitivamente la political question, così evitando di rispondere alla «original unanswerable question (How much political motivation and effect is too much?)» rimasta in sospeso per circa quarant’anni, che si risolve nell’impossibilità per le corti di pronunciarsi sulla costituzionalità delle voting maps che discriminano gli elettori di una certa area politica, differentemente da quanto avviene, pur con una giurisprudenza non sempre lineare, per le mappe che discriminano gli elettori appartenenti ad un determinato gruppo etnico.
La political question doctrine è legata a doppio filo alla justiciability, concetto che esprime la sussistenza della giurisdizione in capo alle corti solo ai fini dell’esclusiva trattazione di questioni giuridiche. Quando si è di fronte ad una decisione di non giustiziabilità dovuta alla presenza di una political question, la materia di cui si tratta è ascritta dalla stessa Costituzione ad un altro branch, oppure è al contrario non sufficientemente definita e quindi non costituzionalmente regolata. È quindi nella Costituzione che sono stabilite le attribuzioni degli organi costituzionali, ma se viene in questione un caso nel quale non sono coinvolti specifici doveri costituzionali, la materia viene allora regolata dai meccanismi attraverso cui si svolge il processo democratico. Dacché la Corte non può esprimersi su questioni politiche, spetta alle maggioranze legittimate dal voto popolare occuparsene. Madison scriveva nel Federalist n°48 che ogni organo titolare di un potere costituzionalmente sancito non deve esercitare alcuna forma di overruling influence verso gli altri organi. Se le corti si occupassero di questioni che implicano valutazioni politiche, ci troveremmo di fronte ad una violazione dei limiti e dei doveri imposti al potere giudiziario dall’Articolo III della Costituzione. L’estensione della giustiziabilità alle questioni squisitamente politiche finirebbe per minare il sistema di checks and balances che assicura la separazione dei poteri. Sebbene le radici della teoria siano rinvenibili nello storico caso Marbury v. Madison (1803), la «modern doctrine» si fa risalire a Baker v. Carr (1962), decisione in cui vengono elencati i fattori individualmente sufficienti e collettivamente necessari che individuano la sussistenza di una political question ed il conseguente difetto di giurisdizione della Corte.
In Rucho v. Common Case i giudici di area conservative si pongono in una posizione ancor più radicale di quella espressa nella sentenza Vieth v. Jubelirer (2004), nella quale, anche se la maggioranza si dichiarava a favore della non giustiziabilità di tutte le political – gerrymandering claims, il Giudice Kennedy in una concurring opinion non escludeva che in futuro si potessero trattare ricorsi analoghi. Nella sentenza Davis v. Bandemer (1986) invece, pur non riconoscendo nel caso di specie una condotta contraria alla Equal Protection Clause, la maggioranza era concorde sulla giustiziabilità del caso (per una rassegna dei precedenti in materia si rinvia ad un precedente post).
Poco più di un anno fa, la Corte Suprema aveva invece rinviato alle corti inferiori dei casi di partisan gerrymandering per motivi procedurali (Gill v. Whitford; Benisek v. Lamone), ma lasciando comunque aperto uno spiraglio all’accoglimento di un futuro ricorso redatto secondo determinati parametri, messi nero su bianco nella concurring opinion alla sentenza Gill firmata dalla Giudice Kagan (per ulteriori dettagli si rinvia ad un precedente post).
Tuttavia, nella decisione qui in commento, il Giudice Roberts (estensore della majority opinion), scrive senza mezzi termini che quella di “ricollocare” quote di potere politico tra i due maggiori partiti è una competenza che esorbita da quelle spettanti ai giudici federali, non sussistendo in Costituzione alcun riconoscimento di tale autorità e non rintracciando nemmeno nelle fonti di rango legislativo delle disposizioni dirette a delimitare e dirigere tale attività. Non si intende con queste parole legittimare il partisan gerrymandering, si riconosce anzi che una «excessive partisanship» porta a risultati che a ragione sembrano ingiusti. La constatazione della contrarietà di tale pratica ai principi democratici non implica però che debbano essere i giudici a porre rimedio a tale situazione. Sebbene le corti non debbano essere investite di tali questioni, gli elettori non rimarrebbero però, ad avviso della maggioranza, privi di rimedi nel contrasto al partisan gerrymandering. A questo riguardo si fa l’esempio della Florida, la cui Costituzione è stata di recente emendata, nel senso della messa a punto di «fair districts». Ma la domanda di tutela del principio di uguaglianza del voto rimane sostanzialmente senza una risposta da parte dei giudici di Washington. Tale stato di cose viene criticato molto duramente nella dissenting opinion firmata dalla Giudice Kagan (cui si sono associati i Giudici Bader Ginsburg, Breyer e Sotomayor), nella quale enfaticamente si afferma che la maggioranza ha in questa sede dichiarato «for the first time in this Nation’s history» di non poter far nulla di fronte ad una violazione costituzionale acclarata, che calpesta i diritti di centinaia di migliaia di cittadini americani. Sebbene la maggioranza dei giudici si sia dichiarata mossa dall’intento di difendere i fondamenti della democrazia americana, non lo ha tuttavia fatto veramente, in quanto «none is more important than free and fair elections».
Tale decisione avrà sicuramente i suoi più immediati effetti sulle prossime pronunce riguardanti le voting maps di Michigan e Ohio (per una ricostruzione di tali vicende giudiziarie si rinvia ad un precedente post). La tornata elettorale del 2020 è vicina, e allo stato si andrà al voto con mappe elettorali messe a punto per lo più da state legislatures di orientamento repubblicano. Sembra davvero difficile che comitati o associazioni di cittadini riescano in tempo utile a far approvare emendamenti costituzionali che si prefiggono l’introduzione di «fair districts» o di commissioni indipendenti di redistricting su modello dell’Arizona. Senza contare il fatto che, dati i progressi tecnologici che hanno interessato questi ultimi anni, il procedimento di redistricting è diventato un’operazione molto sofisticata: grazie all’utilizzazione di determinati algoritmi, è possibile costituire collegi che apparentemente soddisfano criteri di «fairness», ma che in realtà rispondono a logiche di parte. A seguito di tali considerazioni, non parrebbe inopportuno affermare che, se i giudici valutassero il partisan gerrymandering, più che addentrarsi nel temuto «political thicket», ne rimarrebbero solamente sulla soglia, dovendosi concentrare il loro studio e la loro analisi su profili accentuatamente tecnici, come dimostrato dai numerosi briefs redatti da studiosi di statistica, informatica e scienza politica che sono stati posti all’attenzione della Corte  Suprema nei casi di cui si è discusso.


La Corte Suprema USA “congela” le voting maps di Ohio e Michigan in attesa di pronunciarsi su quelle di Maryland e North Carolina

Il 24 maggio 2019 la Corte Suprema ha sospeso gli effetti di due sentenze emanate da una Corte distrettuale federale dell’Ohio e da una del Michigan che dichiaravano l’incostituzionalità delle voting maps adottate dai rispettivi organi legislativi ed ingiungevano a questi ultimi di predisporne delle altre in tempo utile per la tornata elettorale del 2020. Le mappe sulle quali vertevano i giudizi venivano infatti riconosciute come risultanti da operazioni di ridisegno dei collegi elettorali aventi l’intenzionale effetto di danneggiare i candidati appartenenti ad una certa area politica (i Democratici nel caso di specie), diminuendone le chances di successo alle elezioni attraverso la premeditata “diluizione” dell’elettorato di riferimento (partisan gerrymandering). Per concedere la sospensione di una sentenza di grado inferiore si richiede la maggioranza del collegio, ma, dai brevi orders non firmati (587 U. S.) non si evince che alcuno dei giudici abbia dissentito.
Nonostante l’indignazione manifestata da una parte consistente dell’opinione pubblica, una decisione di tal fatta sembrava nell’attuale fase più che prevedibile. I giudici di Washington si pronunceranno infatti presto (a fine giugno) su due travagliati casi riguardanti la sussistenza o meno di un incostituzionale partisan gerrymandering nel disegno delle voting maps di Maryland (Lamone v. Benisek) e North Carolina (Rucho v. Common Cause). Nelle due ore di dibattito originate dalla presentazione degli oral arguments di entrambi i casi lo scorso 26 marzo, i giudici si sono presentati ancora fortemente divisi, rendendo così ostico prevedere verso quale decisione si indirizzeranno. I due ricorsi sono arrivati alla massima istanza giurisdizionale americana dopo meno di un anno da quando la stessa aveva evitato di dare un giudizio nel merito sulla sussistenza del partisan gerrymandering nella messa a punto delle mappe elettorali in Winsconsin (Gill v. Whitford) e nello stesso Maryland. La Corte Suprema aveva aggirato il merito della questione soffermandosi su profili procedurali e rinviando alle Corti inferiori, le cui decisioni sono però state nuovamente appellate. Durante la discussione di Lamone v. Benisek e Rucho v. Common Cause, uno fra i solicitor general dei ricorrenti insiste sull’assunto che i giudici non debbano pronunciarsi su tali giudizi in quanto è la Costituzione stessa ad affidare alla politica il compito di definire i collegi elettorali. Tesi questa avvalorata dal fatto che nel corso degli anni non si sia ancora riusciti ad identificare degli standard per definire il partisan gerrymandering. Il Giudice Gorsuch si dichiara a questo proposito in accordo con la posizione secondo cui i problemi legati al disegno dei collegi attengano alla politica. Se infatti fosse vero che le corti sono gli unici attori in grado di porre un rimedio a tali situazioni, non si spiegherebbero le diverse iniziative poste in essere dalle singole state legislature per porre un freno alle condotte distorsive del diritto di voto. Il Giudice Kavanaugh ha dato seguito a tale argomentazione, pur riconoscendo che il partisan gerrymandering è un problema per la democrazia. Il Giudice Roberts sostiene che i tempi siano ormai maturi per una presa in carico delle problematiche legate a tale spinosa questione da parte della politica, senza contare che, come già più volte affermato in occasione di casi analoghi, un ipotetico intervento della Corte Suprema su tali materie avrebbe sulla stessa delle imprevedibili conseguenze sul piano della reputazione istituzionale. D’altra parte, il Giudice Breyer arriva a proporre una formula che possa consentire di individuare i “valori anomali” nelle procedure di redistricting e riguardo alle mappe del Maryland la Giudice Kagan afferma apertamente che il livello di partisanship è eccessivo «under any measure».
Nonostante l’ampia diffusione degli studi di “giustizia predittiva” in ambito statunitense, di fronte a posizioni così differenziate appare davvero difficile formulare ipotesi attendibili sulla direzione che la Corte si risolverà a prendere.  È comunque chiaro che l’esito di tali giudizi non mancherà di influire sulla decisione dei ricorsi da ultimo presentati dagli esponenti Repubblicani di Michigan (Michigan Senate et al. v. League of Women Voters et al. e Chatfield, Lee et al. v. League of Women Voters et al.) e Ohio (Householder, Larry et al. v. A. Philip Randolph Inst. et al. e Chabot, Steve et al. v. A. Philip Randolph Inst. et al.). I due Stati del Mid-West hanno presentato appello avverso le decisioni delle Corti federali chiedendone la sospensione nelle more del giudizio. In particolare, in quanto scritto dai ricorrenti del Michigan si lamenta che ottemperare nell’immediato a quanto ingiunto dalla Corte distrettuale getterebbe il sistema politico in un «unnecessary chaos». Agendo in questo modo le due state legislatures hanno “giocato d’anticipo” rispetto alla Corte Suprema, che non si è ancora pronunciata sui due casi analoghi già discussi, ottenendo il provvisorio risultato di non modificare le mappe da loro messe a punto.
Nel caso dell’Ohio un panel di tre giudici della Corte federale distrettuale competente aveva rilevato che l’organo legislativo a maggioranza Repubblicana aveva disegnato le mappe, dopo il censimento del 2010, in modo da permettere ai candidati del loro partito di guadagnare un vantaggio sproporzionato alle elezioni. La sussistenza di tale situazione viene confermata dal fatto che l’Ohio, tradizionalmente uno swing state (o purple state), cioè uno stato in bilico dal punto di vista del consenso elettorale, perennemente “conteso” da Repubblicani e Democratici, a partire dalle prime elezioni avvenute nella vigenza della nuova mappa, abbia dato dei risultati da stato “rosso” (attualmente 13 dei 18 congressional seats che spettano a tale Stato sono occupati da esponenti Repubblicani). La Corte federale ha quindi dichiarato l’incostituzionalità della mappa, riscontrando la violazione dei diritti degli elettori riconosciuti dal I e dal XIV emendamento, cui segue l’ordine per la State legislature di adottare una nuova mappa esente da vizi in tempo utile per le operazioni elettorali del 2020.
Anche in Michigan è stato un panel di tre giudici della Corte distrettuale federale competente a statuire che 34 collegi elettorali congressional e legislative (in alcuni Stati infatti i collegi per le elezioni del Congresso e per le elezioni statali possono non coincidere) risultavano da un incostituzionale partisan gerrymandering e quindi si ingiungeva al legislatore di ridisegnare le mappe elettorali entro il 2020.
Entrambi gli ordini sono però stati sospesi e prima di sapere cosa ne sarà delle voting maps di Michigan e Ohio dovremo attendere le statuizioni dei giudici di Washington su quelle di Maryland e North Carolina.
Nonostante la Corte Suprema si sia più volte occupata di gerrymandering nel corso dell’ultimo term, ha lasciato la questione sostanzialmente aperta, rimettendo alle Corti inferiori l’incombenza di individuare il partisan gerrymandering. Rispetto allo scorso anno si è però aggiunto un ulteriore elemento che non fa che rendere ancora più incerti i pronostici: il Giudice Kennedy è andato in pensione ed è stato sostituito dal giudice Kavanaugh, un conservatore che, a parte quanto emerso negli oral arguments dello scorso marzo, non ha fino ad ora avuto modo di esprimersi chiaramente sulla questione.
Rimane comunque fermo il dato che, nonostante una forte presa di posizione dell’opinione pubblica su tale ambito di materie, un non esiguo numero di giudici continua ad affermare di non poter riconoscere se e quando i politici attentino alla democraticità delle elezioni ripartendo i collegi elettorali in modo fraudolento. Ma le corti di Ohio e Michigan, insieme a molte altre corti inferiori, hanno dimostrato che il compito non è proprio impossibile.
Se da una parte la Corte Suprema non si è mai esposta nel dichiarare che certi standard siano sufficientemente manageable da individuare le condotte di partisan gerrymanderng, dall’altra c’è un «growing chorus of federal courts», per usare le parole del Giudice Clay, estensore della decisione unanime della corte distrettuale del Michigan, che non si esime dall’affrontare tale fenomeno, gravemente lesivo della democraticità delle elezioni.


Ilva: la Corte EDU condanna l’Italia per violazione degli art. 8 e 13 della Convenzione

Con la decisione del 24 gennaio 2019, la Prima Sezione della Corte EDU si è pronunciata sul caso Cordella e al. c. Italia (ricorsi n° 54414/13 e 54264/15), condannando unanimemente lo Stato italiano per aver violato gli articoli 8 (Diritto al rispetto della vita privata e familiare) e 13 (Diritto a un ricorso effettivo) della Convenzione. I 180 ricorrenti, che avevano altresì invocato la violazione dell’art. 2 (Diritto alla vita), non preso in considerazione dalla Corte in quanto ricondotto al suddetto art. 8 (parr.93 - 94), sostenevano che le autorità nazionali non sarebbero state in grado di proteggere l’ambiente e la salute dei cittadini residenti nell’area circostante l’acciaieria Ilva di Taranto ed i rimedi giurisdizionali interni a disposizione sarebbero risultati inefficaci alla tutela dei loro interessi. Senza ricorrere alla procedura della sentenza pilota (come invece auspicato dal ricorso n° 54264/15), la Corte nel condannare lo Stato riconosce l’assoluta urgenza del recupero delle condizioni di salubrità del complesso industriale e delle zone limitrofe, invitando le autorità nazionali a mettere in atto nel più breve tempo possibile il piano contenente le misure necessarie ad assicurare la protezione ambientale e sanitaria della popolazione, nonché rinviando al Comitato dei Ministri (art. 46) per la definizione in termini pratici delle misure da adottare per assicurare l’attuazione della sentenza (parr. 177 – 182).
Sono intervenuti nel giudizio in qualità di terzi (art.36 par. 2 CEDU e art. 44 par. 3 Regolamento della Corte) l’ISDE (Associazione Medici per l’Ambiente), Clinical Program (Università di Torino), nonché la società Riva S.p.a. Tuttavia le memorie di Riva S.p.a., gruppo cui l’Ilva ha fatto capo dalla privatizzazione avvenuta nel 1995 fino al commissariamento nel 2012, non sono state tenute in considerazione, successivamente riconoscendosi l’insussistenza delle condizioni previste per un intervento di terzo da parte del gruppo (art. 44 par. 5 Reg. Corte), che, come evidenziato dai ricorrenti, sarebbe stato interessato all’esito del processo. Dopo aver brevemente ripercorso le articolate vicende societarie dell’acciaieria più grande d’Europa, sorta a Taranto nel 1965 (parr. 8 – 12), i giudici di Strasburgo passano in rassegna numerosi studi scientifici realizzati da diversi enti e istituzioni, registri sull’incidenza di determinate malattie nella zona soggetta ad emissioni, nonché indagini sulla presenza di agenti inquinanti oltre le soglie consentite dalla legge. A tale ultimo riguardo, si rileva che le emissioni allo stato attuale si sono ridotte a causa della momentanea chiusura di una parte della cokeria, ma la situazione cambierà di nuovo non appena l’impianto riprenderà a lavorare a pieno regime, continuando a danneggiare l’ambiente e la salute delle persone. Dagli studi condotti emerge che i decessi per tumori, malattie del sistema circolatorio e altre patologie sono di gran lunga superiori alle medie regionali e nazionali (parr. 13 – 31). A tale proposito si richiama la decisione Smaltini c. Italia (ricorso n°43961/09), su cui la Corte ritorna in questa sede. Nel 2015 la Quarta Sezione aveva dichiarato l’irricevibilità del ricorso promosso ai sensi dell’art. 2 (Diritto alla vita) e dell’art. 6 (Diritto ad un equo processo). La ricorrente, oltre alle carenze individuate in relazione alle garanzie processuali, lamentava la sussistenza di un nesso causale tra le emissioni dello stabilimento Ilva e l’insorgere della sua leucemia. I giudici di Strasburgo avevano però motivato l’irricevibilità data la regolarità dell’attività svolta dal giudice penale interno e l’impossibilità di provare la causalità emissioni – malattia. La Corte rileva esplicitamente che, a differenza di Smaltini, nel caso in oggetto i ricorrenti denunciano l’assenza di misure statali volte a proteggere la salute e l’ambiente, ma constata che sì, fin dagli anni ’70, gli studi hanno dimostrato la sussistenza di un nesso tra esposizione ambientale alle emissioni inquinanti e insorgenza di malattie (parr.162 – 166). Tale passaggio non è esente da una latente ambiguità. La Corte infatti, pur prendendo atto delle risultanze scientificamente provate, sembra non voler smentire la giurisprudenza Smaltini, facendo leva sulla differenza del petitum. A ciò pare funzionale la stessa decisione di esaminare i fatti solo in relazione all’art. 8 e non anche all’art. 2, come richiesto dai ricorrenti, sulla base dell’argomentazione che “ces griefs se confondent” (par. 94).
Lo Stato italiano contesta la qualità di vittime dei ricorrenti, che può essere accertata solo a seguito di processi domestici, nonché il carattere particolare delle violazioni asserite, che sarebbe invece generale e quindi non sottoponibile alla Corte ma possibile oggetto di actio popularis e infine rileva che parte dei ricorrenti sono residenti in aree non sottoposte alle emissioni dell’Ilva. I giudici di Strasburgo allora chiariscono che, vista l’inesistenza di una disposizione convenzionale che garantisca una generalizzata protezione dell’ambiente in quanto tale, l’elemento che permette di individuare una violazione dell’art. 8 par.1 è l’esistenza di effetti negativi sulla vita privata o familiare di una persona, non potendo limitarsi l’analisi al solo peggioramento delle condizioni ambientali (parr. 100 – 101). Quanto ai Comuni soggetti alle emissioni nocive, una delibera del Consiglio dei Ministri del 30 novembre 1990 aveva classificato solo alcuni come “ad alto rischio ambientale”, ed è per questa ragione che una parte dei ricorrenti, appunto non residenti in questi Comuni e che non hanno dimostrato di essere stati personalmente lesi, non si ritengono legittimati al giudizio (parr. 102 – 108). Lo Stato sostiene inoltre che il ricorso non sia ricevibile per via del mancato esperimento dei rimedi interni in ambito penale, civile e costituzionale (parr. 110 – 113). I ricorrenti osservano che nessuno dei rimedi prospettati risponde alle loro esigenze, senza contare il fatto che, nonostante si fossero già costituiti parte civile in processi penali domestici, non abbiano comunque potuto ottenere alcun risarcimento per via della sottoposizione dell’Ilva al regime di amministrazione straordinaria (in part. par. 115). La Corte aggiunge che spetta allo Stato dimostrare che, all’epoca dei fatti, i rimedi interni fossero stati accessibili e in grado di offrire delle prospettive ragionevoli di successo e che, secondo i principi del diritto internazionale generalmente riconosciuti, la sussistenza di particolari circostanze può esimere il ricorrente dall’obbligo di esperire tutti i rimedi interni (par. 122). Inoltre, il d.l. n°1/2015, contenente misure per l’attuazione di un “piano ambientale” (di cui si dà conto al par. 59 della sentenza) comporta l’immunità penale ed amministrativa all’amministratore straordinario, nonché al futuro acquirente dello stabilimento. E, come più volte indicato, il giudizio costituzionale non può essere considerato un rimedio richiesto dalla Convenzione, non essendo previsto nell’ordinamento italiano il ricorso diretto del singolo. Stando al d.l. n°152/06, invece, è solo il Ministro dell’Ambiente che può chiedere un risarcimento per il danno ecologico (parr.124 – 126).
Riguardo alle specifiche violazioni, conformemente alla giurisprudenza precedente, la Corte afferma che l’art. 8 non si limita a prevedere l’astensione dal compimento di atti di ingerenza arbitrari da parte dello Stato, ma pone a suo carico degli obblighi positivi, quali l’adozione di un impianto legislativo finalizzato a prevenire i danni all’ambiente e alla salute e a regolare adeguatamente ogni attività, pubblica o privata, pur mantenendo un certo margine di apprezzamento  nell’equilibrata regolazione di interessi concorrenti dell’individuo e della società nel suo insieme (parr. 157 – 160).
L’art. 13 è invece collegato alla previsione dell’esaurimento dei ricorsi interni e si fonda sull’idea che il regime di tutela convenzionale sia sorretto dal principio di sussidiarietà, in base al quale i diritti devono essere garantiti primariamente a livello statuale (par. 176).
Richiamando l’art. 46 (Forza vincolante ed esecuzione delle sentenze), la Corte evoca il ruolo del Comitato dei Ministri nell’indicare allo Stato italiano le misure necessarie all’enforcement della decisione, specificando che la bonifica dell’impianto e della zona occupa “une place primordiale et urgente”(par. 182) e che il piano che prevede azioni volte ad assicurare la protezione dell’ambiente e della salute deve essere attuato il prima possibile. Infatti, a partire dalla fine del 2012 il Governo ha adottato una serie di decreti, denominati “Salva – Ilva”, che riguardavano esclusivamente l’attività dello stabilimento. Nel 2013 la Corte Costituzionale, a seguito di ricorso incidentale sollevato dal GIP di Taranto in relazione ad una parte di uno di tali decreti, che autorizzava la società a continuare la sua attività, malgrado le emissioni nocive, nonché a rientrare nel pieno possesso dei beni e dello stabilimento, nonostante la sottoposizione a sequestro giudiziario, dichiarava infondata la questione. Questo perché il decreto avrebbe da una parte tenuto conto del diritto al lavoro e dall’altro del diritto all’ambiente, garantito dal rispetto delle misure di controllo e prevenzione previste dall’AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale) del 2012. Con il DPCM del 29 settembre 2017 il termine per l’attuazione delle misure previste dal piano ambientale è stato esteso ad agosto del 2023. La Regione Puglia ed il Comune di Taranto hanno promosso di fronte al giudice amministrativo un’azione di annullamento (attualmente pendente) avverso tale decreto, prefigurando appunto le conseguenze negative per l’ambiente e la salute pubblica derivanti dall’estensione del termine. Sono stati anche numerosi i procedimenti penali che hanno visto gli amministratori dell’Ilva in qualità di imputati per danno ambientale, avvelenamento di acque o sostanze alimentari, rimozione od omissione di cautele sul luogo di lavoro, emissione di sostanze inquinanti. La Corte di Cassazione ha stabilito che il gruppo che amministrava l’acciaieria era colpevole per l’inquinamento dell’aria e lo scarico di materiali pericolosi, nonostante anche gli accordi, diretti a diminuire le emissioni, presi con le autorità locali a partire dal 2003. La Corte di Giustizia si è invece pronunciata sulla vicenda il 31 marzo 2011, dichiarando l’inadempienza dell’Italia agli obblighi individuati dalla direttiva 2008/1 EC, riguardante la prevenzione ed il controllo dell’inquinamento. Nel 2014 è stata aperta una procedura d’infrazione, nell’ambito della quale la Commissione ha chiesto alle autorità nazionali di rimediare ai seri problemi di inquinamento. Nel 2018 la Corte Costituzionale si è di nuovo pronunciata su uno dei decreti “salva – Ilva” del 2015, questa volta dichiarandone l’incostituzionalità in quanto le autorità avrebbero finito per dare un maggior peso alla continuazione dell’attività produttiva, a discapito della protezione del diritto alla salute e alla vita.
All’esito delle complesse e alterne vicende industriali, legislative e giudiziarie nelle quali è stata coinvolta l’Ilva di Taranto, la sentenza della Prima Sezione della Corte EDU segna sicuramente un passo in avanti nella tutela della salute e dell’ambiente. Tuttavia l’adozione di una sentenza pilota come auspicato nel ricorso proposto nel 2015, avrebbe costituito una più forte presa di posizione nei confronti di una situazione che denota sicuramente una disfunzione strutturale dello Stato italiano, che si trascina da oltre quarant’anni e che ha visto i diritti di migliaia di cittadini nella gran parte riconosciuti nelle aule di tribunale ma poi persistentemente lesi nei fatti.
Da ultimo, quanto alla richiesta di risarcimento dei danni morali avanzata dai ricorrenti, la Corte ha stabilito che la stessa constatazione della violazione costituisce di per sé un'equa riparazione sufficiente per il ristoro dei danni morali subiti e condanna l’Italia alla sola rifusione delle spese.  La logica alla base di una soluzione del genere si potrebbe rintracciare nel passaggio in cui i giudici sottolineano che il petitum della causa in oggetto riguarda non il nesso causale emissioni – malattia ma l'incapacità dello Stato di provvedere alla tutela della salute e dell'ambiente ed il conseguente obbligo positivo di attuare al più presto il piano ambientale.


Caso Navalnyy: la GC della Corte EDU condanna la Russia su tutti i fronti, riconoscendo anche la violazione dell’art. 18 CEDU

Il 15 novembre 2018 la Grande Chambre della Corte EDU si è pronunciata sui cinque ricorsi riuniti (n. 29580/12 e al.) promossi dal blogger e attivista politico di opposizione Aleksey Navalnyy nei confronti della Russia. Il ricorrente lamentava la violazione del diritto alla libertà e alla sicurezza, sotto il profilo della legalità dell’arresto e della detenzione (art. 5 par. 1 CEDU), del diritto ad un equo processo (art. 6), della libertà di riunione e associazione (art. 11), nonché dei limiti ammessi alla restrizione dei diritti (art. 18). Tale giudizio è stato deferito alla Grande Chambre a seguito dell’ammissione della richiesta ex art. 43 proveniente da entrambe le parti dopo la pronuncia emessa dalla Terza Sezione il 2 febbraio 2017, con la quale la Corte, unanimemente, aveva riconosciuto la violazione degli articoli 5, 6 e 11, pur non identificando motivazioni politiche alla base delle condotte statuali. Questa volta la GC, oltre a confermare la sussistenza delle violazioni già riscontrate, statuisce che l’inasprimento delle azioni assunte dalle autorità nei confronti del ricorrente, correlato all’incremento delle sue attività di contestazione del Presidente Putin e del suo entourage, sia stato dettato dal deliberato intento di tenere sotto controllo l’opposizione, facendo così venir meno quel pluralismo politico che concorre a dare forma ad un assetto politico effettivamente democratico di cui lo Stato di diritto è espressione. Tuttavia, la presenza di un’opinione separata, partly concurring, partly dissenting, firmata da cinque giudici, testimonia la persistenza di una non pacifica delimitazione dell’area di applicazione dell’art. 18, nonostante il “dual test” fissato dalla GC in Merabishvili v. Georgia (n. 72508/13, 28 novembre 2017). In circa 60 anni di attività della Corte, questa è solo l’undicesima volta che viene censurata tale tipologia di abuso.
La Russia, che solo lo scorso anno è stata parte in circa un terzo dei casi esaminati dalla Corte ed è tra gli Stati con il più basso tasso di esecuzione delle decisioni, è così stata condannata al risarcimento dei danni e delle spese patiti dal ricorrente, nonché richiamata (come già avvenuto di recente in Lashmankin and Others v. Russia, n. 57818/09 e al., 7 febbraio 2017) a dotarsi di una legislazione interna che rispetti il diritto di riunione e associazione come delineato dalla Convenzione, sopperendo all’inadeguatezza strutturale delle norme vigenti in materia, che allo stato lasciano ampio spazio alle arbitrarie interferenze della forza pubblica e non contemplano una proporzionata reazione  a  manifestazioni che, pur non essendo state autorizzate, si svolgano pacificamente. La GC al par. 49 sottolinea anzi il fatto che, al momento della decisione, il Comitato dei Ministri stava ancora monitorando l’esecuzione del giudizio Lashmankin e che, proprio in occasione dell’incontro dei membri di tale organo, avvenuto lo scorso giugno, è stata adottata la decisione CM/Del/Dec(2018)1318/H46-21, nella quale, al punto 6 in particolare, si esprime l’intento di “assistere” la Russia nell’opera di miglioramento della legislazione in materia di libertà di riunione. La sentenza giunge così in una fase particolarmente delicata per i rapporti tra la Corte EDU e la Federazione russa, dal momento che non sembra inverosimile una sua fuoriuscita dal sistema del Consiglio d’Europa, come di recente affermato dal Segretario Thorbjørn Jagland.
La decisione, oltre che per l’indubbio rilievo giuridico, si segnala per il suo riverbero mediatico, stante l’ormai raggiunta popolarità del ricorrente che, in diretta dalla Corte di Strasburgo, ha espresso (ovviamente) via social la sua soddisfazione per la sentenza, non mancando di sottolinearne l’importanza per il tutt’ora elevato numero di persone che ogni giorno in Russia viene messo in stato di detenzione per ragioni platealmente, anche se non dichiaratamente, politiche.
Nel corso degli anni N. è stato arrestato innumerevoli volte (da ultimo nel settembre di quest’anno), ma in particolare nello spettro di valutazione della Corte sono rientrati sette arresti, verificatisi tra il 2012 ed il 2014 nell’ambito di manifestazioni o sit – in di protesta nei confronti del governo, che non in tutti i casi erano stati autorizzati. Il ricorrente è stato soggetto a periodi di detenzione brevi, oscillanti da pochi giorni a qualche settimana, quanto bastava per tenerlo lontano dallo spazio pubblico nei momenti cruciali precedenti gli appuntamenti elettorali, e quindi reso politicamente inoffensivo senza però quel clamore che sarebbe stato prevedibilmente suscitato dentro ed oltre i confini se gli fosse stata inflitta un’unica, lunga, pena detentiva.
Quanto alla violazione degli art. 5, 6 e 11 la GC condivide in pieno quanto deciso dalla Terza Sezione, in particolare enfatizzando alcuni aspetti, quali l’insussistenza di un “pressing social need” che a detta del Governo avrebbe giustificato l’intervento della forza pubblica (par. 86), nonché lo stretto legame che caratterizza libertà di espressione e libertà di riunione, richiamando la giurisprudenza che fa capo a Ezelin c. Francia, 26 aprile 1991 (par. 98) e l’effetto potenzialmente deterrente alla partecipazione al dibattito politico dei sostenitori dell’opposizione causato dall’arresto di una delle personalità più in vista di tale area (par.153).
Ora vale la pena soffermarsi sulla violazione dell’art. 18, che appunto non era stata riscontrata nella decisione camerale di febbraio. Da quanto allegato dal ricorrente, emerge che la ragione sottostante ai suoi arresti e all’inflizione di sanzioni amministrative consisteva proprio nell’individuazione dello stesso come attivista politico di opposizione. La GC riconosce che, di fatto, N. sia stato arrestato per sette volte in un lasso di tempo relativamente breve e con modalità pressoché identiche. Questa, secondo il Governo, sarebbe stata l’ovvia conseguenza della deliberata messa in atto di condotte illegittime, ma, secondo i giudici di Strasburgo “the pretexts for the arrests were becoming progressively more implausible” (par. 167 – 8), riconoscendo così nell’art. 18 l’elemento caratterizzante del ricorso (par. 164) e valutandolo soprattutto in relazione al quinto ed al sesto arresto subito. Secondo la versione ufficiale, N. sarebbe stato arrestato nel quinto caso in quanto a capo di una “marcia”, mentre emerge che lo stesso stesse abbandonando il luogo in cui si era svolta una manifestazione subito dispersa e le persone ed i giornalisti che stavano percorrendo la stessa strada non fossero al suo seguito; nel sesto caso sarebbe invece stato arrestato mentre stava di fronte al palazzo di giustizia, pacificamente, dietro al cordone della polizia e non distinguendosi in alcun modo dalle altre persone presenti.
Analizzando gli eventi nel loro complesso, si assiste ad un progressivo intensificarsi della severità delle autorità nei confronti del ricorrente, tenendo altresì conto dell’evoluzione legislativa in materia (in particolare la Legge federale sugli eventi pubblici n. 54 – FZ del giugno 2004) registrata nel periodo di riferimento: le sanzioni pecuniarie dovute per alcune infrazioni sono state aumentate di venti volte e sono state introdotte nuove fattispecie di reato (par. 172). Secondo la GC appare quindi chiara l’intenzione della Russia di “bring the opposition’s political activity under control” e di perseguire il ricorrente non come individuo ma come figura di riferimento dell’opposizione, danneggiando così non solo lo stesso ed i suoi sostenitori ma “the very essence of democracy” (par. 174), in cui la libertà individuale può essere limitata solo in nome dell’interesse generale, quella “higher freedom” di cui ai lavori preparatori dell’art. 18 (par. 51). Viene quindi riscontrato, oltre ogni ragionevole dubbio, l’intento di “suppress that political pluralism which forms part of effective political democracy governed by the rule of law, both being concepts to which the Preamble to the Convention refers”. Ma non c’è piena condivisione su questo punto.
Nell’opinione separata annessa alla sentenza, cinque giudici dichiarano di aver votato contro il riconoscimento della violazione dell’art. 18, ritenendo sufficiente riferirsi agli art. 5 ed 11. Accomunati dal “firm belief” che il richiamato articolo non sia lo strumento giuridico adatto cui ricorrere in situazioni assimilabili a quella in oggetto, affermano che, semmai, si sarebbe dovuto ricorrere all’art. 17, riguardante l’abuso di diritto. Pur riconoscendo che il ricorrente non aveva invocato tale disposizione e che sarebbe inappropriato disquisire su quale sarebbe stato l’esito della vicenda nel caso in cui ciò fosse avvenuto (par. 3 - 4), i giudici analizzano gli ambiti di applicazione dell’art. 17 e fanno un confronto con l’art. 18. Nonostante il primo non sia mai stato applicato nei confronti delle Alte Parti Contraenti (né dalla Corte né dalla precedente Commissione), bensì solo nei confronti di individui o gruppi, se ne valorizza il dato letterale, che mette gli Stati al primo posto dell’elenco dei soggetti destinatari e se ne sottolineano le potenzialità della sua applicazione come fattispecie autonoma (l’art. 18, invece, si accompagna ad altre violazioni, in questo caso gli art. 5 ed 11), ritrovandone l’antecedente ideale nell’art. 30 della Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo (par. 12 – 16). L’art. 18 viene di contro ricondotto allo sviamento di potere di matrice francese (par. 23) ed in rapporto alla disposizione precedente viene considerato “perhaps (…) redundant and unnecessary” (par. 25), censurandone altresì l’applicazione al caso di specie in quanto da riferirsi a situazioni da valutarsi nel lungo termine e non rispetto a singoli avvenimenti.
Ebbene, a questo proposito i giudici autori dell’opinione separata sembrano trascurare che, anche se la sentenza richiama esplicitamente la violazione dell’art. 18 solamente in relazione a due delle sette azioni contestate, queste non rappresentano altro che la manifestazione più evidente di un atteggiamento generalizzato assunto dalla Russia, come anche dimostrato dai numerosi casi, decisi e pendenti, meno noti ma che lamentano le stesse violazioni. Inoltre, proprio una delle argomentazioni dei cinque giudici a sfavore della disposizione, costituisce in realtà la prova del suo non essere assolutamente ridondante ed inutile: al par. 24 se ne lamenta la difficile applicabilità in quanto “in addition to the abuse of power, it requires the proof of bad faith, of hidden unmentionable motives in relation to the application of a particular restriction to a particular identified right in the context of a particular incident”. In tale inciso si trova risposta al perché, fino ad oggi, la Corte abbia individuato una violazione di tale disposizione solo in 11 casi e al perché, soprattutto in una fase in cui le c.d. “democrazie illiberali” si stanno consolidando, l’art. 18 CEDU sia più necessario che mai.