Un “message in a bottle” sul salario minimo (con uno sguardo alla proposta di legge delega). La Cassazione ribadisce la funzione di controllo del giudice in materia di giusta retribuzione

Il caso
La sentenza n. 27769/2023 della Cassazione offre una ricostruzione dei consolidati principi giurisprudenziali in tema di giusta retribuzione. Il provvedimento si segnala, altresì, per la sua attualità, in considerazione del rinnovato interesse nel dibattito pubblico per l’introduzione di un salario minimo di fonte legale.
La pronuncia dei giudici di legittimità verte sul ricorso di otto lavoratori di una cooperativa, che richiedevano l’adeguamento delle retribuzioni ai principi di proporzionalità e sufficienza di cui all’art. 36 Cost. Invero, i ricorrenti sostenevano che i trattamenti retributivi loro corrisposti sulla base del CCNL applicato in azienda si ponessero in contrasto con la norma costituzionale, giacché financo inferiori alla soglia di povertà ISTAT (834,66 €).
La Corte d’appello rigettava le domande dei ricorrenti e dichiarava la conformità della retribuzione prevista dal CCNL all’art. 36 Cost. Il Collegio riteneva che non fosse superabile la presunzione di adeguatezza della contrattazione collettiva ai principi costituzionali, poiché dalle buste paga dei lavoratori risultava una retribuzione mensile di 930 €, superiore alla soglia di povertà. Pertanto, avverso la sentenza di secondo grado, i lavoratori proponevano ricorso con sei motivi di impugnazione, accolti dalla Cassazione.
I ricorrenti deducevano l’erroneità della sentenza impugnata per aver limitato l’accertamento di congruità del trattamento retributivo ai principi costituzionali esclusivamente al superamento della soglia di povertà. Inoltre, veniva sollevato l’error in iudicando del Collegio, laddove aveva ritenuto la retribuzione prevista dalla contrattazione collettiva conforme ai principi costituzionali.

La selezione della fonte…
In dottrina si è sostenuto che la giurisprudenza, piuttosto che soffermarsi su quale sia il quantum della “giusta retribuzione”, ha preferito individuare la fonte “più adeguata” a determinarla (Bavaro). Questa considerazione aiuta a comprendere le vicende ermeneutiche e di sistema che hanno caratterizzato l’art. 36, co.1, Cost., ripercorse anche dalla sentenza in commento.
La norma costituzionale, che, come è noto, assoggetta ai principi di sufficienza e proporzionalità alla qualità e alla quantità del lavoro la retribuzione, disancora la stessa da una funzione meramente “corrispettiva” e le attribuisce una funzione “sociale”, volta a garantire al lavoratore una vita dignitosa.  La Corte costituzionale, già nelle sue pronunce più risalenti, ha escluso una riserva normativa o contrattuale per la determinazione della retribuzione (C. cost. 106/1962). In ogni caso, la giurisprudenza ha assunto come riferimento consolidato il parametro fornito dalle tabelle salariali della contrattazione collettiva. Invero, l’istituto della retribuzione è sensibile – per sua stessa natura – allo stato dei rapporti di forza nei diversi settori produttivi, che contribuiscono a individuare il “costo del lavoro”. È opportuno precisare che, stante l’inattuazione dell’art. 39 Cost. – e la conseguente impossibilità di estendere l’efficacia della contrattazione collettiva erga omnes –, la Consulta ha dichiarato la diretta precettività dell’art. 36 Cost. Per gli effetti, secondo un’elaborazione giurisprudenziale della Corte di legittimità granitica – al punto da poterla considerare alla stregua di “diritto vivente” (Biasi) – la norma costituzionale è direttamente invocabile in giudizio tramite gli artt. 1419 c.c., utile alla dichiarazione di nullità della clausola individuale contenente la retribuzione costituzionalmente illegittima, e 2099, co. 2, c.c., per la determinazione giudiziale della stessa.
Nel provvedimento in esame, la Corte ribadisce la presunzione di costituzionalità del trattamento retributivo contenuto nella contrattazione collettiva. Del resto, può osservarsi come la fonte collettiva contenga solitamente al suo interno un’articolazione della retribuzione oraria (quantità del lavoro), connessa al livello di inquadramento (qualità), che maggiormente si adatta nella forma a quanto richiesto dal principio di proporzionalità. Sono frequenti nella casistica giurisprudenziale, inoltre, esempi di scostamento dal parametro della contrattazione collettiva nazionale di categoria applicabile (par. 23.1). Il fenomeno si è acuito con le problematiche legate al cd. “dumping contrattuale”, su cui influiscono la frammentazione della rappresentanza e le forti dinamiche ribassiste delle relazioni industriali contemporanee (Bellomo).
La presunzione di costituzionalità è da ritenersi iuris tantum, potendo il giudice accertare la contrarietà della retribuzione all’art. 36 Cost. avvalendosi di altri parametri con puntuale e adeguata motivazione. A tal proposito, la Corte ricorda come la giurisprudenza di merito abbia talvolta utilizzato come parametro di riferimento “l’importo della Naspi o della CIG” (par. 23.2).
In questo quadro si inserisce la decisione dei giudici di legittimità, che non hanno ritenuto la soglia di povertà Istat un parametro idoneo a determinare di per sé la giusta retribuzione. In altri termini, la Cassazione esclude che la norma costituzionale limiti il proprio spazio di tutela alla garanzia di una vita “non povera” (par. 13), essendo la retribuzione proiettata alla garanzia di una vita libera e dignitosa. A sostegno di tale interpretazione vengono richiamate le fonti di diritto internazionale ed euro-unitario sui minimi salariali. Con particolare riferimento alla dir. UE 2022/2041 (su cui De Giuli) – che orienta l’interpretazione del giudice ancor prima dell'attuazione nell’ordinamento nazionale (par. 24.1.) – si menziona il rilievo attribuito all'adeguatezza della retribuzione, volta al conseguimento di condizioni di vita e di lavoro dignitose. Appare problematico il richiamo tra i criteri di giudizio al considerando 28 della medesima direttiva, che propone di attenersi al “rapporto tra il salario minimo lordo e il 60% del salario lordo mediano e il rapporto tra il salario minimo lordo e il 50% del salario lordo medio, valori che attualmente non sono soddisfatti da tutti gli Stati membri, o il rapporto tra il salario minimo netto e il 50% o il 60% del salario netto medio”. Oltre a essere inconferente, giacché riferibile alla nozione di salario minimo legale, nel contesto supra delineato, caratterizzato da un ampio spazio di discrezionalità riservato al giudice, un simile rimando potrebbe determinare un abbassamento delle tutele, a scapito della contrattazione collettiva più garantista sotto questo profilo.

… e la sua adeguatezza
La Cassazione, avendo ritenuto la soglia di povertà Istat un parametro inidoneo a determinare la conformità costituzionale della retribuzione, è chiamata a giudicare la legittimità del trattamento salariale contenuto nel CCNL Vigilanza Privata Servizi Fiduciari, applicato ai rapporti di lavoro dei ricorrenti.
A tal proposito, la Corte ribadisce la centralità della contrattazione collettiva come parametro per l’individuazione della giusta retribuzione, dal quale il giudice può discostarsi solo “con grande prudenza e rispetto” (richiamando Cass. 2245/2006 e 546/2021). Tuttavia, tenendo conto della crisi della rappresentanza sindacale e dei rischi sociali di una concorrenza al ribasso tra contratti collettivi, la Cassazione chiarisce che la presunzione di conformità della contrattazione collettiva alla norma costituzionale non operi in senso assoluto. Il potere giudiziale di determinazione della giusta retribuzione, pertanto, trova applicazione non solo “in mancanza”, ma “nonostante” una specifica contrattazione di categoria. Il principio è di particolare interesse, giacché si applica a una società cooperativa, nell’ambito, quindi, della l. n. 142/2001 e del d.l. n. 248/2007, che prevedono come ai soci lavoratori debbano corrispondersi trattamenti economici complessivi non inferiori a quelli dettati dai contratti collettivi stipulati dalle organizzazioni datoriali e sindacali comparativamente più rappresentative a livello nazionale nella categoria. In tal caso, il minimo retributivo è individuato dalla legge mediante un rinvio alla contrattazione collettiva. La Cassazione afferma che la parte retributiva del contratto collettivo selezionato dalla legge è, ad ogni modo, sottoposta al vaglio giudiziale di conformità ai principi di proporzionalità e sufficienza. D’altronde, sostenere, diversamente, che il giudice sia vincolato ad adottare come parametro il trattamento retributivo della contrattazione collettiva, equivarrebbe ad attribuirgli efficacia erga omnes, esponendo la norma di rinvio a un giudizio di costituzionalità per violazione dell’art. 39 Cost.

Considerazioni conclusive
La Corte, coerentemente con quanto argomentato nelle motivazioni, rinvia al giudice del merito la valutazione sul quantum della giusta retribuzione. I principi di diritto enunciati vincolano la Corte d’appello a utilizzare come parametro, in primis, la contrattazione collettiva nazionale di categoria a cui rinvia la legge, in subordine, i trattamenti retributivi stabiliti in altri contratti collettivi di settori affini o per mansioni analoghe e “all’occorrenza” (par. 55) indicatori economici e statistici.
Comprensibilmente, quindi, la Cassazione non sconfina nel merito della determinazione quantitativa della giusta retribuzione, bensì si preoccupa di indicare i parametri su cui basare la decisione. Ferma la natura immediatamente precettiva dell’art. 36 Cost., appare ineliminabile lo spazio di discrezionalità affidato al giudice, anche in presenza di una legge che determinasse il minimo retributivo attraverso un rinvio alla contrattazione collettiva. Pertanto, con un obiter dictum – dal contenuto enigmatico – la Cassazione auspica l’individuazione di un “quid pluris”, rispetto al solo “quantum parametrico” costituito dalla sola contrattazione.
L’invito, tuttavia, non sembra essere stato raccolto dal legislatore nella proposta di legge delega A.C. 1275, approvata dalla Camera lo scorso 6 dicembre, che investe la fonte collettiva del ruolo di garantire l’attuazione del diritto dei lavoratori ad una retribuzione proporzionata e sufficiente, ai sensi dell'art. 36 Cost. (art. 1, co.1). In proposito, si consenta una breve notazione critica sulla scelta di avvalersi della – insidiosa – nozione di “contratti collettivi nazionali maggiormente applicati” (art. 1, co. 1 e co. 2, lett. a), b), g), al fine di determinare i trattamenti retributivi minimi. L’abbandono del – pur problematico – concetto di rappresentatività delle parti sociali nella selezione della contrattazione, rischia di favorire l’applicazione di contratti collettivi non effettivamente negoziati o sottoscritti da sindacati poco o nulla rappresentativi, contenenti condizioni più sfavorevoli per i lavoratori. Ne risulterebbe così pregiudicata la funzione sociale della retribuzione.


La Corte costituzionale corregge la riforma Fornero sull’articolo 18 (con uno sguardo al Jobs Act?)

Dopo più di un mese dalla camera di consiglio, cui era seguito il comunicato stampa del 24 febbraio 2021, la Corte ha depositato la sentenza n. 59 del 2021 che ha rilevato una illegittimità costituzionale parziale del co. 7° dell’articolo 18 della l. n. 300 del 1970 (cd. Statuto dei lavoratori), come modificato dalla cd. legge Fornero (n. 92 del 2012).  La questione, affrontata in via incidentale, è stata portata all’attenzione dei giudici della Consulta con l’ord. del 7 febbraio 2020 del Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro, il quale dubitava della costituzionalità della norma nella parte in cui prevede che il giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo, possa – e non debba – disporre la reintegrazione del lavoratore nel posto di lavoro.
Le vicende processuali prendevano il via dall’opposizione del datore di lavoro all’ordinanza con cui il giudice aveva disposto la reintegra del lavoratore per manifesta insussistenza del fatto alla base del licenziamento per giustificato motivo oggettivo. La successiva scelta del lavoratore in favore dell’indennità sostitutiva, nell’opinione del giudice rimettente, accolta dalla Corte, non scalfirebbe la rilevanza del giudizio incidentale di costituzionalità, in quanto l’applicazione della citata norma appare caratterizzante la natura della tutela apprestata (reintegratoria, pur sostituita da indennità, o meramente indennitaria, ex art. 18, co. 3, St. lav.).
La decisione della Corte costituzionale interviene in una questione che molto aveva impegnato dottrina e giurisprudenza. Già tra i primi commentatori si era rilevata come problematica la discrezionalità del giudice in ordine alla scelta tra tutela reale o risarcitoria. Infatti, mentre il comma 4° dell’art. 18 prevede l’automatismo della reintegrazione nei casi dell’insussistenza del fatto, per quanto concerne i licenziamenti per giustificato motivo soggettivo o giusta causa («annulla il licenziamento e condanna il datore di lavoro alla reintegrazione»), il comma 7° affida al giudice la mera possibilità di apprestare la tutela reale alle ipotesi della manifesta insussistenza del fatto alla base del motivo oggettivo («può altresì applicare…»), senza dotarlo di alcun riferimento ermeneutico sul quale basare la propria scelta.
La dottrina maggioritaria aveva sin dal principio ritenuto che l’espressione «può» dovesse interpretarsi nel senso di «deve», ponendosi questa come l’unica interpretazione costituzionalmente legittima in applicazione del principio di certezza del diritto (Maresca, Vallebona, Carinci). Interpretazione avallata dalle prime pronunce della Suprema Corte, la quale aveva affermato che la «giuridica inesistenza del fatto obiettivo presupposto (a base del licenziamento), valutate altresì le circostanze del caso concreto, esclude che la scelta sia rimessa alla discrezionalità del giudice» (Cass. 14 luglio 2017, n. 17528). In seguito, tuttavia, la stessa Corte di cassazione aveva modificato il proprio orientamento, individuando nel principio civilistico dell’eccessiva onerosità – ex art. 2058 c.c. – il criterio ermeneutico determinante per la decisione del giudice, escludendo, di conseguenza, la tutela reintegratoria nel momento in cui essa «sia, al momento di adozione del provvedimento giudiziale, sostanzialmente incompatibile con la struttura organizzativa medio tempore assunta dall’impresa» (Cass. 2 maggio 2018, n. 10435), orientamento affermatosi poi come maggioritario, al di là di alcuni ripensamenti (es. Cass. 13 marzo 2019, n. 7167; in senso conforme Cass. 31 gennaio 2019, n. 2930, Cass. 3 febbraio 2020, n. 2366).
A tal proposito, il giudice a quo argomenta in favore di quest’ultimo orientamento, sostenendo come l’interpretazione costituzionalmente orientata (che legge il «può» come un «deve») finisca per risolversi in «una interpretazione chiaramente abrogatrice di un chiaro precetto normativo», in contrasto con il sindacato accentrato di costituzionalità. In tal modo il giudice rimettente supera i paletti dell’ammissibilità della questione (l’obbligo di interpretazione conforme), ritenendo giuridicamente impercorribile la via dell’interpretazione adeguatrice. Tale interpretazione, come sosterrà la Consulta, sarebbe in contrasto, oltre che con il dato testuale, anche con la ratio legis desumibile dalla lettura dei lavori parlamentari, in cui la «disarmonia» tra le situazioni giuridiche in oggetto è apparsa ben chiara al legislatore.
Con riferimento al merito della questione, l’ordinanza del giudice a quo solleva dubbi di legittimità costituzionale con riferimento a diversi parametri: dapprima per un contrasto con l’art. 3, primo comma, in quanto la differenza di tutela esperibile dal giudice sarebbe «determinata dalla mera, insindacabile e libera scelta del datore di lavoro di qualificare in un modo o nell’altro l’atto esplosivo dallo stesso adottato e rivelatosi poi del tutto pretestuoso».  Altro parametro costituzionale richiamato dal rimettente è l’art. 41, primo comma, in quanto la norma in oggetto doterebbe il giudice di poteri para-imprenditoriali, violando in questo modo la libertà di iniziativa economica. Quanto rilevato in merito al principio di eguaglianza ex art. 3 confliggerebbe infine anche con i diritti di azione e difesa del lavoratore, nonché con i principi del giusto processo (artt. 24 e 111 Cost).
La Corte costituzionale ha invero ritenuto sufficienti – e quindi assorbenti gli ulteriori profili, della cui sostenibilità, con riferimento soprattutto all’art. 41 è possibile, a parere di chi scrive, dubitare – i motivi riguardanti la violazione dei principi ricavabili dall’art. 3 Cost. Innanzitutto, la Corte effettua una disamina della propria giurisprudenza evidenziando come, sulla base dei principi costituzionali del diritto al lavoro (art. 4, primo comma) e della tutela del lavoro in tutte le sue forme e applicazioni (art. 35), la stessa abbia da tempo fondato l’esigenza di circondare di «doverose garanzie» e di «opportuni temperamenti» le fattispecie del licenziamento, tali da evitare che il lavoratore possa essere «estromesso dal lavoro ingiustamente o irragionevolmente».
Tali garanzie, tuttavia, per quanto costituzionalmente obbligate, sarebbero riconducibili «nell’alveo delle valutazioni discrezionali del legislatore, quanto alla scelta dei tempi e dei modi della tutela […] anche in ragione della diversa gravità dei vizi e di altri elementi oggettivamente apprezzabili». La Corte ha poi ribadito come la reintegrazione non rappresenti «l’unico possibile paradigma attuativo dei principi costituzionali», potendo la tutela esplicarsi in una pluralità di rimedi parimenti idonei. Ciò detto, tuttavia, i giudici costituzionali hanno ribadito che, nell’apprestare le garanzie necessarie a tutelare la persona del lavoratore, il legislatore, pur nell’ampio margine di apprezzamento che gli compete, sia vincolato al rispetto dei principi di eguaglianza e di ragionevolezza desumibili dall’art. 3. Ed è proprio sulla scorta di tali parametri che la Corte riscontra problematicità nella normativa impugnata: il carattere meramente facoltativo della reintegrazione rivelerebbe infatti una disarmonia interna al peculiare sistema delineato dalla legge n. 92 del 2012, lesiva del principio di eguaglianza.
Non sarebbe infatti giustificabile, secondo la Consulta, una diversificazione quanto alla obbligatorietà o facoltatività della reintegrazione, una volta che si reputi l’insussistenza del fatto meritevole, in base alla valutazione del legislatore, del rimedio della reintegrazione. Tenendo poi conto che per il licenziamento economico è richiesto «finanche il più pregnante presupposto dell’insussistenza manifesta», la facoltatività della tutela reale per i soli licenziamenti economici sarebbe a maggior ragione priva «di una ragione giustificatrice plausibile».
Sarebbe poi «sprovvisto di un fondamento razionale» anche il menzionato orientamento giurisprudenziale legato alla valutazione sull’ eccessiva onerosità: i licenziamenti economici, secondo la Corte, «incidono sull’organizzazione dell’impresa al pari di quelli disciplinari e, non meno di questi, coinvolgono la persona e la dignità del lavoratore». Il criterio dell’eccessiva onerosità non sarebbe poi in grado di evitare quella «irragionevolezza intrinseca» caratterizzante la norma, dovuta alla totale mancanza di criteri applicativi idonei ad orientare il giudice, provocando «ulteriori e ingiustificate disparità di trattamento». Tale criterio, inteso come «incompatibilità con la struttura organizzativa nel frattempo assunta dall’impresa», appare configurarsi «indeterminato e improprio», poiché, da un lato, legato all’attività dell’autore dell’illecito e, dall’altro, anche «privo di ogni attinenza con il disvalore del licenziamento» e con gli altri elementi suscettibili di valutazione da parte del giudice, essendo lo stesso provocato da accadimenti successivi causalmente slegati.
È da notare come la Corte non connoti negativamente la discrezionalità del giudice di per sé, bensì solamente in quanto scollegata da «puntuali e molteplici criteri desumibili dall’ordinamento» e non orientata all’adattamento della tutela alle specificità del caso concreto (cfr. sentt. n. 194 del 2018 e n. 150 del 2020, in cui è stata valorizzata la discrezionalità del giudice, prima imbrigliata entro limiti risarcitori obbligati).
La sentenza in commento appare particolarmente significativa nella parte in cui afferma che i licenziamenti economici «incidono sull’organizzazione dell’impresa al pari di quelli disciplinari e, non meno di questi, coinvolgono la persona e la dignità del lavoratore». Di conseguenza, sembrano non potersi più sostenere quelle tesi che giustificano una differenziazione di tutele tra l’illegittimità del licenziamento disciplinare, da una parte, ed economico, dall’altra, sulla base della ragione per cui solo il primo coinvolgerebbe direttamente «la dignità della persona del lavoratore» (Pisani). Invero, una conclusione simile potrebbe aprire la strada a dubbi di costituzionalità che investono la disciplina dei licenziamenti contenuta nel d.lgs. n. 23/2015 e, in particolare, nel suo art. 3, in cui la differenza dei regimi sanzionatori è ancora più marcata (che, come noto, disciplina le assunzioni a decorrere dal 7 marzo 2015).