«Il diritto più favorito»: su alcune recenti pronunce della Corte Suprema degli Stati Uniti in materia di libertà religiosa

The essay is about the last developments of the American Supreme Court’s jurisprudence about religious freedom. After Employment Division v. Smith, the Congress had reinstated the Sherbert test, at least at the statutory level, enacting the Religious Freedom Restoration Act.
In the last decade, especially since the Hosanna-Tabor case in 2012, the Court has adopted an increasingly broader interpretation of religious freedom, consistent with that one advocated by RFRA. In its most recent decisions, in particular the cases involving Covid-19 restrictions of religious practices, the Court has openly adopted the so-called «most favored nation approach» to solve cases in which religion is at stake.


“Abortion is inherently different”: la Corte Suprema USA sancisce l’overruling di Roe e Casey

Il 24 giugno 2022, la Corte Suprema degli Stati Uniti ha deciso, con una maggioranza di sei giudici, il caso Dobbs v. Jackson Women’s Health Organization, che sancisce l’overruling di Roe v. Wade – la sentenza del 1973 che aveva radicato il diritto all’aborto nella Costituzione federale – e della pronuncia Casey del 1992 che in parte confermava, in parte rielaborava gli standard in materia di elective abortion dettati dalla precedente.
I contenuti della decisione, inevitabilmente dirompente e controversa, erano stati in gran parte preannunciati, agli inizi del mese di maggio, dalla divulgazione non autorizzata del draft dell’opinione di maggioranza, firmata dal Justice Alito, circostanza che ha infiammato ulteriormente un dibattito dai toni già estremamente aspri.
Prima di addentrarci nell’analisi di questa pronuncia, è bene tratteggiare, sia pure sinteticamente, l’immagine del right to abortion quale emergeva dalle due sentenze overruled: Roe v. Wade aveva delineato uno schema per cui, a seconda del trimestre di gestazione, si dava luogo ad un diverso bilanciamento dei diritti della madre e del feto, accordando maggior tutela in favore di quest’ultimo nella fase finale della gravidanza e fissando come punto cardine la c.d. viability, il momento in cui cioè, intorno alla ventottesima settimana, il feto è sufficientemente sviluppato da poter sopravvivere al di fuori dell’utero materno; nel periodo anteriore a tale fase, l’aborto poteva essere sì regolato dagli Stati, ma mai completamente vietato.
Quello della viability è stato da sempre uno dei profili più criticati della sentenza Roe e, anche a livello comparatistico, la disciplina statunitense rappresentava un unicum, tra i Paesi che ammettono l’aborto. Le legislazioni di questi ultimi fanno solitamente riferimento, come schema di base, ad un certo numero di settimane di gestazione, superato il quale l’aborto è vietato, salvo eccezioni tassativamente individuate. In linea generale, si può dire che tale limite si collochi in un momento antecedente rispetto a quanto stabilito dalla giurisprudenza americana, a prescindere dall’aspettativa di vita extrauterina del feto. Peraltro, proprio quest’ultimo aspetto si è progressivamente modificato rispetto all’epoca di Roe; grazie ai progressi della tecnologia e della medicina, oggi il momento della viability si è spostato indietro nel tempo, intorno alla ventitreesima settimana di gestazione; vedremo tra breve come questo profilo abbia esercitato un proprio peso specifico nelle valutazioni del Chief Justice Roberts, che ha infatti firmato un concurring in judgment, ritenendo legittima la normativa sottoposta al vaglio della Corte, ma dissociandosi dalla maggioranza per quanto concerne il completo overruling di Roe e Casey.
Quest’ultima decisione, vent’anni dopo Roe, pur confermandone essenzialmente il reasoning, aveva introdotto l’ulteriore criterio dell’undue burden (“onere eccessivo”), standard elastico che aveva dato vita ad una giurisprudenza variegata e non sempre coerente sulle limitazioni o condizioni cui gli Stati possono subordinare l’accesso alle procedure abortive e, proprio per questo, aspramente criticato dal giudice Alito in Dobbs.
Com’è noto, il diritto all’aborto, così come plasmato dalla giurisprudenza, ha rappresentato, negli ultimi cinquant’anni, il tema più divisivo del dibattito pubblico americano e su di esso si sono giocate intere campagne presidenziali e le nomine per gli scranni della Corte di Washington D.C..
In particolare, gli anni dell’amministrazione Trump, che della battaglia contro Roe aveva fatto una bandiera, hanno visto una vera e propria escalation dei c.d. trigger ban, legislazioni più o meno restrittive rispetto agli standard federali in tema di aborto – fino ad arrivare a divieti quasi assoluti – strumentali a riportare l’intera questione dinanzi alla Corte Suprema, nella speranza che prima o poi si giungesse all’esito attuale, ipotesi diventata sempre più concreta man mano che le nomine trumpiane spostavano inesorabilmente verso destra gli equilibri della Supreme Court (sui recenti sviluppi giurisprudenziali in tema di aborto si vedano, in questo blog, i contributi di L. Pelucchini e il contributo di C. De Santis sugli heart-beat bill).
L’impugnazione del Mississippi Gestational Age Act - che vieta il ricorso all’aborto oltre la quindicesima settimana, con le sole eccezioni dell’emergenza medica e di una severe fetal abnormality – è diventata, per i giudici di maggioranza di Dobbs (oltre ad Alito, Gorsuch, Kavanaugh, Barrett e Thomas), l’occasione per cancellare una pagina fondamentale della giurisprudenza costituzionale statunitense, negando al diritto all’interruzione di gravidanza qualsiasi protezione di carattere costituzionale e, di conseguenza, federale; protezione che, com’è noto, i precedenti in materia avevano rinvenuto nel XIV Emendamento, attraverso la dottrina del substantive due process e l’elaborazione di quel peculiare concetto americano di privacy che da tale norma costituzionale discendono e che hanno rappresentato, soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento, la valvola di apertura dell’ordinamento statunitense verso nuovi diritti.
L’esito più immediato di questa pronuncia è appunto quello di rimettere il diritto all’aborto nelle mani delle assemblee legislative dei singoli Stati le quali, peraltro, in assenza di qualsivoglia limite di rango costituzionale, resteranno d’ora in avanti libere di disciplinare la materia come meglio credono, potendo legittimamente sopprimere del tutto la possibilità di ricorrere alle diverse pratiche abortive anche a partire dal momento del concepimento, senza eccezioni di sorta, ivi compreso il caso in cui la gravidanza sia il risultato di stupro o incesto.
La narrazione di Roe come un atto di hybris giudiziaria che avrebbe ingiustamente defraudato gli Stati di una propria competenza, che la Corte Roberts intende restituire loro, è uno dei tasti su cui Alito batte con maggiore insistenza, definendo le decisioni del 1973 e del 1992 egregiously wrong.
Nel contesto di questa sentenza si consuma l’ennesima battaglia giurisprudenziale tra Originalismo e Living Constitution, che vede i giudici di maggioranza impegnati in una certosina ricostruzione storica. Negando il radicamento del diritto all’aborto nella storia e nelle tradizioni degli Stati Uniti, nonché nel concetto di ordered liberty, sotteso al XIV Emendamento, l’opinion di Alito chiama in causa tutte le voci più autorevoli della dottrina di common law dal XIII secolo in avanti, da Bracton a Blackstone, passando per Hale e Coke. Nella distinzione, cara a Scalia, tra original meaning oggettivo e original intent (soggettivo) dei Costituenti, la ricognizione dei giudici sembra affannarsi nella ricerca del secondo, individuato ripercorrendo la storia dell’aborto dal Medioevo fino all’epoca dei Reconstruction Amendment (per una lettura parzialmente diversa si veda Sunstein).
L’overruling delle due storiche pronunce viene giustificato analiticamente sulla base di una serie di criteri elaborati dalla stessa Corte Suprema nel corso del tempo e da ultimo scolpiti nella sentenza Janus v. AFSCME (2018); in particolare, si segnala come la Corte abbia escluso, rispetto a Roe e Casey, la sussistenza del requisito della reliance, vale a dire del legittimo affidamento dei singoli circa l’esistenza e l’ampiezza di un certo diritto; fattore che, ove ritenuto sussistente, avrebbe dovuto costituire un deterrente ad un overruling così clamoroso.
I giudici dissenzienti (Breyer, Kagan e Sotomayor, firmatari di un accorato dissent collettivo) hanno stigmatizzato la discutibile argomentazione della maggioranza che riconosce un affidamento rilevante e meritevole di tutela soltanto nell’area della property e del contract, mentre la stragrande maggioranza dei diritti costituzionali fondamentali – e soprattutto quelli riconducibili alla sfera della privacy - sarebbero insuscettibili di valutazione in termini economico-monetari.
Per contro, Alito richiama alcuni casi di overruling illustri paragonabili, per la loro portata eversiva, a Dobbs v. Jackson; per citare solo i più celebri, Brown e Plessy; Miranda, overruling di Crooker e Cicenia; Lawrence e Hardwick; Obergefell e Baker; Gobitis e il suo overruling West Virginia Board of Education v. Barnette, che forse rappresenta, nella storia della Corte Suprema, il punto più alto di quella funzione contromaggioritaria a cui i giudici oggi sembrano aver abdicato, demandando una materia sensibile come l’aborto al libero gioco della competizione elettorale in cui – scrive il Justice – le donne hanno, tramite il diritto di elettorato attivo e passivo, strumenti sufficienti a tutelare e a far valere le proprie ragioni nel processo democratico.
È sintomatico, peraltro, che l’opinione della Corte taccia su un aspetto fondamentale che tutte queste coppie di sentenze hanno in comune, aspetto che viene invece vigorosamente sottolineato dal dissent: queste decisioni sono accomunate dal fatto che l’overruling sia intervenuto sul precedente sempre in senso ampliativo, portando alla luce un diritto costituzionale precedentemente negato o misconosciuto dalla Corte; in nessun caso, i giudici hanno fatto ricorso all’overruling per limitare o elidere un diritto frutto di una consolidata giurisprudenza.
Nella contesa sono poi entrati, inevitabilmente, gli altri diritti provenienti dalla medesima constitutional fabric edificata sul concetto di privacy e sul substantive due process, quali il diritto di accesso alla contraccezione (sentenze Griswold e Eisenstadt), il diritto ad intrattenere relazioni intime con persone dello stesso sesso (Lawrence) e quello al matrimonio same-sex (Obergefell). Alle legittime preoccupazioni dei giudici dissenzienti per le ombre che Dobbs getta sul futuro di questi diritti, fanno da contraltare, da un lato, il veemente concurring del giudice Thomas, che suggerisce di sradicare l’albero avvelenato del due process sostanziale con tutti i suoi frutti; dall’altro – e questa è una delle poche innovazioni del testo definitivo rispetto al draft – i giudici di maggioranza si affrettano ad assicurare che tali diritti non potranno essere considerati alla stregua dell’aborto che, in quanto incide sulla potential life del feto, viene a più riprese definito come inherently, critically, fundamentally different.
Come hanno giustamente sottolineato i giudici dissenzienti, la sentenza Dobbs lascia senza dubbio uno spazio vuoto di tutela, tradendo, nei confronti della popolazione femminile, quella promessa costituzionale di equal citizenship che è coessenziale al concetto stesso di liberty. Il rischio maggiore è di fornire nuova linfa a pratiche abortive illegali, che sovente mettono a repentaglio la salute delle donne che vi ricorrono, nonché quello di esacerbare le disparità economiche, ove si consideri che a quante risiedono in Stati antiabortisti sarà necessario spostarsi altrove per avere accesso all’interruzione di gravidanza.
Più sfumata, come abbiamo accennato, la posizione del Chief Justice Roberts, espressione di un judicial restraint comprensibilmente preoccupato per le potenziali conseguenze di Dobbs in termini di legittimazione del ruolo della Corte nell’ordinamento americano (si veda Waldron).
Il Chief Justice suggerisce la scissione di Roe in due principi: uno, che identifica il diritto all’aborto come diritto costituzionale fondamentale, da salvare e riaffermare; l’altro, la viability rule, da superare in quanto non più attuale in un contesto, quello delle procedure abortive, che nell’arco di mezzo secolo è già profondamente mutato (basti solo pensare all’impatto della c.d. contraccezione d’emergenza).
Si può dire che la decisione proposta da Roberts avrebbe quasi certamente scontentato sia i detrattori che i difensori di Roe, la platea dei pro-life come quella dei pro-choice; ma forse, proprio per questo, avrebbe rappresentato una migliore composizione degli interessi in gioco.
Pochi giorni fa, l’amministrazione Biden, da subito molto critica nei confronti della pronuncia della Corte, ha varato un executive order per assicurare, per quanto possibile, l’accesso ai servizi di reproductive healthcare anche negli Stati che si apprestano a vietare l’aborto, predisponendo una serie di strumenti di supporto. Un’arma spuntata, nell’attesa di un intervento legislativo del Congresso - più volte invocato dal Presidente - che ripristini il diritto su tutto il territorio nazionale; dal momento che mancano attualmente le condizioni politiche per un simile intervento, si può dire che oggi le sorti del right to abortion siano legate agli incerti esiti delle prossime elezioni di mid-term.


Fulton v. Philadelphia: la Corte Suprema USA scrive una nuova pagina di giurisprudenza sul conflitto tra libertà religiosa e diritti delle persone LGBT; o forse no?

Il 17 giugno 2021, la Corte Suprema statunitense ha deciso il caso Fulton v. City of Philadelphia [593 U.S. _2021]; la controversia aveva ad oggetto l’attività di collocamento dei minori presso famiglie affidatarie e la relativa funzione di selezione e di certificazione di idoneità delle famiglie che aspirino, appunto, ad accogliere un minore. Tale attività, nella municipalità di Philadelphia, come in altre città americane, si avvale dell’opera di numerose agenzie private, che interagiscono con gli organi pubblici e costituiscono il cardine principale su cui ruota il foster-care service nella sua interezza; tra queste, la Catholic Social Services (CSS), ente direttamente dipendente dalla diocesi di Philadelphia, impegnata da moltissimi anni nello svolgimento del servizio in questione.
Le ragioni dell’attrito tra la CSS e le istituzioni cittadine risiedono nel rifiuto da parte dell’organizzazione cattolica di certificare, come possibili famiglie affidatarie, quelle composte da persone sposate dello stesso sesso nonché - è bene evidenziarlo - quelle formate da coppie, anche eterosessuali, non sposate; la città della Pennsylvania aveva quindi tentato di forzare la mano della CSS, prima imponendo tra le clausole contrattuali un divieto di discriminazione in base all’orientamento sessuale e poi, a fronte dell’inottemperanza dell’ente, sospendendo qualsiasi rapporto di collaborazione con la CSS, inibendole quindi lo svolgimento di ogni attività nell’ambito dei servizi di affidamento dei minorenni.
La pronuncia dei giudici di Washington D.C., adottata all’unanimità, ribalta le sentenze delle due Corti federali di grado inferiore, che avevano entrambe deciso il caso in senso favorevole alle ragioni della municipalità di Philadelphia.
Contrariamente a quanto forse si potrebbe pensare, per le particolari vicende da cui è scaturita la controversia, la decisione è totalmente imperniata sulla Free Exercise Clause di cui al I Emendamento, e quindi sulla libertà religiosa; il divieto di discriminazione in base all’orientamento sessuale, che tradizionalmente passa attraverso le maglie del XIV Emendamento alla Costituzione americana, non ha avuto accesso, neppure marginalmente, alle prospettazioni delle parti né, tanto meno, al reasoning della Corte. La consonanza dei nove giudici intorno alle rivendicazioni della CSS si è, in realtà, sfrangiata in quattro diverse opinion, quella della Corte, a firma del Chief Justice Roberts, e tre concurring, sottoscritti, rispettivamente, dalla giudice Barrett e dai Justice Alito e Gorsuch, questi ultimi in aperto contrasto con l’opinione principale sotto il profilo dell’iter argomentativo.
La sentenza si inscrive, appunto, nel solco della copiosa e frastagliata giurisprudenza della Corte americana sul I Emendamento e, proprio per questo, necessita di essere contestualizzata, almeno sommariamente, alla luce dei suoi precedenti, la cui analisi e ricostruzione ha trovato peraltro ampio spazio nella corposa opinione concorrente firmata dal giudice Alito. Nella materia in questione, il punto di partenza è rappresentato dal caso Sherbert v. Verner [374 U.S. 398 1963], in cui la Corte Warren aveva elaborato il c.d. Sherbert test, stabilendo che le leggi suscettibili di incidere la libertà religiosa dovessero superare uno strict scrutiny, soddisfacendo essenzialmente due condizioni: la sussistenza di un compelling interest statale alla cui tutela la legge doveva essere finalizzata e l’assenza di strumenti alternativi ugualmente capaci di proteggere il suddetto interesse, ma meno restrittivi nei confronti della libertà religiosa.
L’operatività dello Sherbert test era stata poi fortemente ridimensionata dalla successiva sentenza della Corte Suprema Employment Division, Department of Human Resources of Oregon v. Smith [494 U.S. 872 1990]; in questo caso, la maggioranza dei giudici, con una opinion a firma del Justice Scalia, aveva escluso l’applicabilità del test Sherbert a fronte di una normativa neutrale e generalmente applicabile - nel caso di specie, si trattava di una norma penale incriminatrice - che non avesse come oggetto immediato e diretto la pratica religiosa, ma si limitasse a colpire la libertà sancita dalla Free Exercise Clause solo in maniera incidentale e, potremmo dire, di riflesso; al singolo risultava quindi preclusa la possibilità di invocare un’eccezione alla legislazione generale nei propri confronti in ragione della propria fede.
Peraltro, come ci ricorda il giudice Alito nel suo concurring, il nuovo standard di scrutinio, elaborato nella sentenza Smith, si era rivelato di difficile applicazione e foriero di non poche contraddizioni sul piano pratico, tanto è vero che il Congresso aveva tentato di ripristinare lo Sherbert test per via legislativa, una prima volta nel 1993 con il Religious Freedom Restoration Act (RFRA), ritenuto, però, dalla Corte di Washington non applicabile alla legislazione dei singoli Stati (City of Boerne v. Flores), e una seconda volta nel 2000 con il Religious Land Use and Institutionalized Persons Act (RLUIPA), riferito esclusivamente alla legislazione federale.
In effetti, si può dire che il caso Fulton ruoti sostanzialmente intorno al possibile overruling di Smith, evocato dai ricorrenti, caldeggiato dai giudici Alito, Gorsuch e Thomas, ma arginato dal Chief Justice e dai giudici che hanno aderito all’opinione principale.  
La motivazione della Corte, alquanto stringata se si considera la rilevanza degli interessi in gioco, si basa su un’operazione ermeneutica, di ortopedia interpretativa potremmo dire, estremamente sofisticata e quasi funambolica: lungi dallo smentire definitivamente Smith, la Corte si focalizza e fa leva su un segmento specifico del suo reasoning, ove si afferma che qualora la legislazione incidente sulla libertà religiosa prospetti un meccanismo per garantire individualized exceptions, tale legislazione non potrà essere considerata, per sua stessa natura, suscettibile di general applicability. In sostanza, se è la normativa stessa a prevedere che i singoli possano essere esentati dall’obbligo di conformarvisi, questa non potrà definirsi come normativa a carattere generale e non potrà pertanto beneficiare del tipo di scrutinio, più facilmente superabile, prospettato da Smith.
È esattamente questo il percorso argomentativo imboccato dall’opinione della Corte: forzando le maglie della normativa statale vigente in materia e delle clausole contrattuali che regolavano i rapporti tra la municipalità di Philadelphia e la CSS, Roberts ha evidenziato come la possibilità di un’esenzione dal divieto di discriminazione in base all’orientamento sessuale fosse, in realtà, astrattamente prevista, escludendo quindi la natura generally applicable delle norme in questione e sancendo l’illegittimità della condotta adottata dagli organi di Philadelphia e, in particolare, del loro rifiuto di stipulare nuovi contratti con la CSS in relazione ai servizi di affidamento, qualora l’ente cattolico non avesse acconsentito a certificare come famiglie affidatarie anche quelle same-sex.
È questo un aspetto di indubbia criticità della decisione della Corte, che i giudici Alito e Gorsuch non hanno mancato di sottolineare nelle rispettive opinion; in effetti, nell’elaborazione del Chief Justice, la questione non viene risolta, bensì aggirata, lasciando al soggetto pubblico la possibilità di evitare future censure di costituzionalità riformulando la normativa e il regolamento contrattuale in senso coerente al dettato della sentenza Smith, con il rischio che la controversia tra le parti si riapra su nuove basi, protraendosi sine die.
Lo stesso giudice Alito ha poi evidenziato come Smith si puntellasse a sua volta sul precedente Minersville School District v. Gobitis [310 U.S. 586 1940], decisione tra le più impopolari assunte a Washington D.C. e destinata ad essere soppiantata, in tema di libertà religiosa, soltanto tre anni più tardi, da West Virginia Board of Education v. Barnette [319 U.S. 624 1943], forse la più celebre e citata pronuncia della Corte Suprema dopo Marbury v. Madison.
Come già accennato, la concurring opinion di Alito contiene un’accurata ricostruzione della libertà religiosa nel contesto costituzionale statunitense e ciò non soltanto con riferimento alla giurisprudenza della Supreme Court, ma anche con particolare attenzione al modo in cui tale diritto è stato elaborato in chiave storica e diacronica, partendo dalle Carte coloniali per arrivare alle Costituzioni degli Stati odierni. Certo, l’indagine del Justice Alito è indubbiamente guidata da un intento di matrice testualista e originalista, finalizzata al recupero dell’original public meaning del I Emendamento e, più precisamente, della Free Exercise Clause, snaturato dalla sentenza Smith e da una parte della giurisprudenza ad essa successiva.
In primo luogo, il Justice correttamente evidenzia come la libertà religiosa negli Stati Uniti non si limiti, storicamente, a parlare il linguaggio della non discriminazione, vale a dire che tale diritto, nel contesto americano, non implica meramente un divieto di discriminazione, una sorta di aspirazione alla parità di trattamento della condotta dettata dalla fede religiosa rispetto alla condotta che potremmo definire laica o secolare; una costruzione di tale diritto in questi termini comporterebbe che qualsiasi legge che non mirasse a colpire direttamente la pratica religiosa o la libertà di culto dovrebbe essere considerata, almeno in linea di massima, costituzionalmente legittima; è questo, appunto, lo standard sostanzialmente delineato dalla sentenza Smith.
Inoltre, Alito rileva come la storia dell’applicazione del I Emendamento sia, anche e soprattutto, la storia della giurisprudenza sulle esenzioni da determinati obblighi di legge che i singoli possono invocare a tutela della propria libertà religiosa; così è avvenuto, ad esempio, per quanto riguarda l’obbligo di prestare giuramento così come per l’obbligo di prestare il servizio militare e in numerose altre fattispecie, puntualmente individuate dal Justice; i casi in cui invece un’esenzione da un obbligo di legge veniva negata sono, pressoché esclusivamente, quelli in cui la condotta del singolo avrebbe rappresentato una minaccia per la pace o la sicurezza pubblica o l’ordine pubblico.
Se una parziale incoerenza rispetto all’impianto testualista può ravvisarsi nelle parole di Alito, essa risiede proprio nel fatto che il giudice rivendica alle Corti il ruolo di custodi della religious liberty, mentre Smith aveva sostanzialmente radicato o quanto meno tentato di radicare questa funzione nel processo politico e nelle mani del legislatore; come sappiamo, invece, i sostenitori dell’original meaning sono, tradizionalmente, fautori del judicial restraint e del primato della volontà del legislatore o del Costituente sull’interpretazione giudiziaria.
È inevitabile, poi, che, tanto nell’opinione di Alito quanto in quella di Gorsuch, faccia la sua comparsa il fantasma, neppure troppo evanescente, di Masterpiece Cakeshop, il caso del pasticciere obiettore nei confronti del matrimonio same-sex (sul quale si veda C. De Santis, https://www.diritticomparati.it/la-mia-religione-non-lo-permette-la-corte-suprema-usa-fonda-il diritto-allobiezione-di-coscienza-nei-confronti-del-matrimonio-sex/) che la Corte ha scelto di decidere alla luce della Free Exercise Clause, aprendo forse più questioni e problemi di quanti sia riuscita a risolverne.
Peraltro, a parere di chi scrive, i due casi non sono sovrapponibili, in primo luogo perché diversissima è, nelle due fattispecie, la cornice normativa. In secondo luogo, è ben diverso obbligare un privato, fornitore di beni o servizi, a non discriminare tra i propri clienti in base all’orientamento sessuale, ove la sua prestazione non implica alcuna adesione alle scelte di vita o ai valori morali del committente che il fornitore non condivida; altro è pretendere che un ente che rappresenta a tutti gli effetti una costola della Chiesa cattolica certifichi l’idoneità di famiglie affidatarie composte da persone dello stesso sesso, atto che certamente implicherebbe, quanto meno, il riconoscimento di quelle unioni in aperto contrasto con i principi della dottrina cattolica. Non si dimentichi che la CSS di Philadelphia non certificava neppure l’idoneità di coppie eterosessuali non sposate, mentre nella valutazione dell’affidamento a persone singole prescindeva da qualsiasi indagine in merito all’orientamento sessuale.
Peraltro, non si può non concordare con i giudici Alito e Gorsuch quando evidenziano come la pandemia da Covid-19, con tutte le limitazioni e le restrizioni che ha comportato in tutti gli ambiti della vita sociale, ivi comprese la partecipazione alle funzioni religiose e l’espressione del culto, abbia imposto un ripensamento della libertà religiosa e della giurisprudenza della Corte Suprema in materia; pronunce come Roman Catholic Diocese of Brooklyn v. Cuomo [592 U.S. _ 2020] (su cui si veda Michele M. Porcelluzzi, https://www.diritticomparati.it/senza-celebrazioni-non-si-puo-vivere-la-liberta-religiosa-in-tempo di-covid-19-e-la-corte-suprema-americana/) hanno dimostrato non solo quanto sia difficile individuare il giusto termine di comparazione, in ambito secolare, per capire se si sia verificata o meno una limitazione illegittima della religious liberty, sia, soprattutto, quanto sia scivoloso e accidentato il terreno sul quale, in base alla sentenza Smith, si dovrebbe stabilire se una legge miri direttamente o meno ad incidere la libertà religiosa.


“The People v. Roe”: negli Stati Uniti l’ondata antiabortista non si arresta e punta dritta verso Washington D.C.

In principio fu la promessa elettorale di Donald Trump: ben prima di varcare la soglia del n. 1600 di Pennsylvania Avenue e ignaro del fatto che, durante il proprio mandato, avrebbe avuto l’opportunità di nominare ben due giudici della Corte Suprema, l’attuale Presidente degli Stati Uniti mieteva consensi (e alimentava il dissenso) nell’elettorato assicurando il proprio impegno per smantellare definitivamente Roe v. Wade (410 U.S. 113 [1973]), la storica e controversa pronuncia della Corte Suprema che dal 1973 sancisce il diritto di tutte le donne americane ad interrompere una gravidanza, rinvenendone il fondamento costituzionale nel XIV Emendamento e nel complesso right to privacy che da esso discende e che tanta parte ha avuto nell’evoluzione dell’interpretazione costituzionale statunitense per quanto riguarda i diritti individuali afferenti alla sfera delle relazioni familiari, affettive ed intime.
In realtà, Roe è stata da sempre una sentenza difficile da metabolizzare per una parte non irrilevante dell’opinione pubblica americana e a dimostrarlo basterebbe considerare quanto il tema sia stato dibattuto in sede di confirmation hearings ogniqualvolta, dal 1973 in poi, si è profilata la sostituzione di uno dei nove Justice di Washington D.C.. La stessa Supreme Court è stata più volte costretta a tornare sull’argomento, in primis nel 1992 con la sentenza Casey (505 U.S. 833 [1992]), rivedendo in maniera parzialmente restrittiva l’approccio adottato in Roe; tale decisione accordava ampia tutela alla libertà di scelta della gestante fino al momento della c.d. viability, a partire dal quale il feto può vivere autonomamente al di fuori dell’utero materno, vale a dire, in sostanza, nell’ultimo trimestre di gestazione. A partire dal 1992, invece, la Corte ha configurato il c.d. undue burden scrutiny, approccio che, fatto salvo il nucleo fondamentale della pronuncia Roe, consente però agli Stati di adottare misure di maggior tutela della unborn life, volte a scoraggiare il ricorso alla procedura abortiva, ritenute quindi legittime fintanto che non integrino appunto un undue burden, un aggravio eccessivo e illegittimo suscettibile di impedire di fatto alla donna l’esercizio del proprio diritto.
Forse anche a causa di questo atteggiamento della Corte Suprema, il movimento antiabortista americano non ha mai veramente deposto le armi, sperando evidentemente di arrivare, se non ad un esplicito, totale overruling, quanto meno ad un sostanziale svuotamento di significato della sentenza Roe. In tempi meno recenti, le iniziative in questa direzione sono state piuttosto nel senso di occupare gli spazi di manovra e gli spiragli lasciati aperti dalla sentenza Casey, sfruttando, cioè, la leva delle misure preliminari per l’accesso all’interruzione di gravidanza, le cui maglie quanto più si stringono tanto più ostacolano le donne nella realizzazione della propria scelta e scoraggiano, imponendo oneri finanziari particolarmente gravosi, le stesse strutture sanitarie che operano in questo delicato settore; peraltro, solo pochi anni fa, con la pronuncia Whole Woman’s Health v. Hellerstedt (579 U.S. _ [2016]), la Corte di Washington ha cassato una normativa texana che andava esattamente in questa direzione, ribadendo che uno Stato non può arrivare, mediante surrettizi aggravi procedurali, al punto di negare di fatto il diritto ad interrompere una gravidanza.
Tuttavia, soprattutto tra la fine del 2018 e questi primi mesi del 2019, i tentativi di demolire il diritto costituzionale all’aborto si sono fatti più frequenti e più incisivi, specie se si guarda alle modalità dei provvedimenti adottati che, rispetto al passato, perseguono meno i loro scopi per il tramite indiretto degli ostacoli procedurali all’interruzione di gravidanza e sempre più spesso, invece, aggrediscono direttamente il diritto in questione, destituendolo di fondamento costituzionale a livello statale o, al contrario, elevando espressamente la “vita prenatale” a tale rango di protezione, come è avvenuto, ad esempio, in Alabama (per una ricostruzione dettagliata delle tappe precedenti di questa vicenda, si vedano L. Pelucchini, https://www.diritticomparati.it/whole-womans-health-v-hellerstedt-la-corte-suprema-statunitense-torna-sul-diritto-allaborto/; L. Pelucchini https://www.diritticomparati.it/rights-fell-alabama-il-diritto-allaborto-negli-stati-uniti-seguito-degli-emendamenti-costituzionali-alabama-e-west-virginia/; L. Pelucchini https://www.diritticomparati.it/se-roe-cade-nello-stato-del-pellicano-il-futuro-incerto-del-diritto-allaborto-negli-stati-uniti/).
Complice anche il fatto che la maggioranza degli Stati americani è attualmente governata da esponenti del partito repubblicano, gli ultimi mesi hanno visto un’escalation vertiginosa della legislazione antiabortista; proprio l’Alabama si è resa protagonista delle cronache degli ultimi giorni, quando la governatrice repubblicana Kay Ivey ha sottoscritto la normativa più severa tra quelle attualmente in vigore o recentemente varate nei singoli Stati. La legge in questione sancisce a tutti gli effetti la responsabilità penale del medico che procuri un aborto (definito un vero e proprio felony, un crimine grave) in qualunque caso, contemplando la sola eccezione, peraltro normativamente molto circoscritta, di un serio rischio per la salute fisica della gestante; e se nei confronti del medico si prescrive, evidentemente in funzione deterrente, l’irrogazione di condanne a pene detentive estremamente afflittive in termini di durata, la posizione della donna, pur tenuta indenne dalla responsabilità sia civile che penale, non appare maggiormente protetta, ove si consideri che la legge non le lascia libertà di scelta alcuna neppure nel caso in cui la gravidanza sia il frutto di uno stupro o di incesto.
Ad ogni modo, la legge dell’Alabama rappresenta al momento un’eccezione nel panorama statunitense; in effetti, il nuovo fronte della legislazione pro-life è attualmente rappresentato dai c.d. heart-beat bills, che non erano ignoti agli americani prima d’ora, ma che, soprattutto nelle ultime settimane, stanno decisamente proliferando, propagandosi a macchia d’olio da uno Stato all’altro. Sebbene formulate in termini diversi da quelli dell’abortion ban dell’Alabama, si tratta di leggi comunque fortemente erosive del diritto all’aborto, dato che rendono illegittimo ricorrervi a partire dal momento in cui può essere percepito il battito cardiaco del feto, rilevabile, dagli attuali strumenti diagnostici, all’incirca a partire dalla sesta settimana di gestazione; ed è appunto questo il limite di tempo oltre il quale l’aborto viene considerato illegittimo e quindi, sempre e solo per quanto riguarda il personale medico, punito anche severamente (in un solo caso, quello del Missouri, il limite massimo è fissato, senza però andare troppo lontano, all’ottava settimana di gestazione). Nonostante la lettera della legge sembri in apparenza meno restrittiva rispetto all’Alabama Human Life Protection Act, lo scopo perseguito e l’effetto che ne deriverebbe sono sostanzialmente analoghi, dato che la previsione di un margine di tempo così fortemente limitato per interrompere una gravidanza finirebbe, in molti casi, per precludere totalmente l’accesso alla procedura abortiva. Solo in alcune normative, poi, come ad esempio nella legge della Georgia, è prevista un’eccezione in caso di gravidanza derivata da stupro o incesto, subordinandone però l’operatività al fatto che la donna abbia presentato, relativamente a tali reati, una regolare denuncia; anche questa si configura quindi come un’eccezione che tutela la libertà di scelta della madre, oltre il limite delle sei settimane, solo parzialmente e relativamente, dato che le vittime di violenza sessuale, specie in ambito familiare, sono spesso restie a denunciare gli abusi subiti e chi ne è responsabile.
Georgia, Ohio, Mississippi e Missouri sono gli Stati che proprio ultimamente hanno varato il proprio heart-beat bill, ma, a ben vedere, il panorama degli Stati americani è più complesso e variegato e leggi simili venivano elaborate in diversi Stati già qualche anno fa, sebbene attualmente si trovino in stadi diversi del procedimento legislativo o siano già passate al vaglio delle Corti: per fare solo qualche esempio, in Arkansas, l’HB bill, superato dalle Camere il veto del Governatore, è stato poi reso inoperante da un giudice federale, così com’è avvenuto in Kentucky e nel North Dakota; nel West Virginia, in Texas, Tennessee, Maryland, Minnesota e Florida, si tratta, per il momento, solo di una proposta di legge; nel South Carolina, il disegno di legge è già stato approvato da una delle due Camere, mentre in Louisiana si attende ormai solo che il Governatore apponga la propria firma al provvedimento.
Al di là del fatto che il periodo di vacatio previsto per queste recenti leggi in materia di aborto è piuttosto lungo - si tratta, nella maggior parte dei casi, di leggi destinate ad entrare pienamente in vigore non prima del prossimo autunno - è bene sottolineare, a questo punto, che, sia nel caso della legge dell’Alabama, sia nel caso delle normative heart-beat, si tratta, sempre e comunque, di c.d. trigger-laws, di leggi, cioè, che intanto potranno dispiegare i loro effetti, in quanto vengano rimossi a livello federale e costituzionale, dalla stessa Corte Suprema, i limiti che gli Stati attualmente incontrano nel disciplinare (o meglio, nel circoscrivere) il diritto di aborto, nel perimetro tracciato in primo luogo dalla sentenza Roe, ma anche da quelle che l’hanno seguita, rendendo magari più labili i confini di quel perimetro, ma mai abiurando totalmente il contenuto essenziale di quella decisione.
Parimenti devono essere considerati trigger-laws i divieti di aborto preesistenti a Roe che, come spesso accade negli ordinamenti di common law, ancora giacciono silenti e inoperanti, e tuttavia mai formalmente abrogati, nel panorama legislativo degli Stati americani.
Lo scopo di quest’ultima levata di scudi contro l’aborto diventa, quindi, chiaro ed evidente, a maggior ragione se si tiene conto delle modifiche da ultimo apportate da Trump alla composizione della Corte di Washington: riportare la questione, una volta per tutte, dinanzi alla Corte Suprema Federale, forzandole la mano, dato che, in questi ultimi anni, avvalendosi dei benefici del certiorari, i nove giudici, in materia di aborto, sovente hanno scelto di astenersi del tutto dall’esaminare il caso, evitando prese di posizione troppo nette nell’una o nell’altra direzione.
Il futuro operato della Corte non appare però così facilmente prevedibile, se si tiene conto dei costi, non materiali, bensì in termini di valori costituzionali in gioco, che la restituzione dell’aborto alla potestà legislativa dei singoli Stati potrebbe comportare.
Innanzitutto, un punto di frizione non di poco conto si profilerebbe per quanto riguarda le disparità profonde che potrebbero determinarsi tra uno Stato e l’altro, dato che non si tratterebbe di ammettere semplicemente una diversa declinazione del diritto - che, peraltro, come si è visto, per certi aspetti, è comunque consentita - , bensì di accettare la possibilità che alcuni Stati lo neghino del tutto alla propria popolazione femminile; leggi così marcatamente diverse finirebbero, inevitabilmente, per penalizzare soprattutto le donne che versano in condizioni di indigenza, ridando, magari in un domani più lontano, linfa alle pratiche abortive illegali che faticosamente, a partire dagli anni ’70, si è cercato di estirpare.
Inoltre, sia la legge dell’Alabama, sia le altre, come abbiamo detto, apparentemente meno severe, stridono fortemente sia con la protezione accordata alla libertà personale anche solo in senso meramente fisico, sia con un profilo di tutela della salute della madre, dietro la quale, a differenza di quanto avvenuto in passato, le recenti normative difficilmente potrebbero trincerarsi, dal momento che, anche in caso di stupro o incesto, la salute psicologica della madre viene considerata automaticamente soccombente rispetto alla protezione dell’integrità fisica del nascituro, in assenza di qualsiasi operazione di bilanciamento che consenta di contemperare e comporre al meglio i delicatissimi interessi in gioco.


Anche la Corte Suprema del Regno Unito si pronuncia a favore della libertà di coscienza dei pasticceri obiettori

Il 10 ottobre scorso la Supreme Court del Regno Unito ha emesso la propria decisione nella controversia Lee v. Ashers Baking Company Ltd. [2018 UKSC 49]; il collegio giudicante (Hale, Mance, Kerr, Hodge, Black), ribaltando la sentenza della Court of Appeal di Belfast e quella del giudice di primo grado, si è pronunciato all’unanimità.
Questi, brevemente, i fatti di causa: nel 2014, Gareth Lee, attivista della comunità LGBT di Belfast, si rivolgeva alla pasticceria Ashers Baking Company per il confezionamento di una torta destinata ad un evento antiomofobia organizzato dall’associazione in cui Lee prestava la sua opera; trattandosi di un evento volto a porre l’attenzione sul matrimonio same-sex, o meglio, sulla necessità della sua introduzione – l’Irlanda del Nord è attualmente l’unica enclave tra Regno Unito e Irlanda in cui tale matrimonio non è consentito – la torta avrebbe dovuto recare la scritta “Support Gay Marriage”.
In ragione delle profonde convinzioni religiose dei titolari della Ashers Baking Company, contrarie alle unioni omosessuali, Lee si vedeva negare il soddisfacimento della propria richiesta; di conseguenza, affiancato e supportato dalla Equality Commission for Northern Ireland, agiva in giudizio, contestando il comportamento della Ashers Baking, ritenuto discriminatorio sulla base di tre parametri cioè, al contempo, l’orientamento sessuale, le opinioni politiche e le convinzioni religiose. Come già accennato, i giudici sia di primo che di secondo grado avevano determinato la soccombenza della Ashers Baking, condannandola anche al risarcimento del danno nei confronti di Gareth Lee.
È bene richiamare, a questo punto, la cornice normativa all’interno della quale si sono mossi, attraverso i vari gradi di giudizio, i giudici inglesi: da un lato, Gareth Lee assumeva la violazione, da parte dei titolari della pasticceria, della normativa antidiscriminatoria vigente per l’Irlanda del Nord, vale a dire le Sexual Orientation Regulations (SORs), emanate sulla base dell’Equality Act del Parlamento di Westminster, che vietano le discriminazioni sulla base dell’orientamento sessuale nell’accesso a beni e servizi, e il Fair Employment and Treatment Order (FETO), order in Council che, sempre in tema di accesso a beni e servizi, proibisce le discriminazioni basate sul credo religioso o sulle opinioni politiche. La difesa della Ashers Baking si appellava invece alla Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (incorporata nell’ordinamento britannico dallo Human Rights Act del 1998) e riposava, in particolare, sugli articoli 9 e 10, che tutelano rispettivamente, anche nel loro aspetto negativo, la libertà di pensiero, di coscienza e di religione e la libertà di espressione.
Tuttavia la Supreme Court non ha avuto bisogno di valutare concretamente la compatibilità delle normative antidiscriminatorie rispetto alle norme convenzionali appena richiamate, effettuando una sorta di bilanciamento; la Corte si è infatti sostanzialmente limitata ad affermare l’insussistenza di qualsivoglia atteggiamento discriminatorio da parte della Ashers Baking, e ciò a prescindere dal parametro considerato.
Il fulcro del ragionamento della Corte si ravvisa principalmente nello spostamento dell’attenzione dai soggetti del rapporto all’oggetto, vale a dire, più che la torta in quanto tale, il messaggio di sostegno nei confronti dell’istituzione delle nozze gay che la torta stessa avrebbe dovuto recare, secondo le intenzioni del committente (“The objection was to the message, not the messenger”; e ancora: “The less favourable treatment was afforded to the message not to the man”). “Firmare” la propria creazione di pasticceria destinata a quello specifico evento avrebbe significato anche sottoscrivere quel determinato messaggio e, a fronte di ciò, la Supreme Court britannica afferma in maniera categorica che i titolari della Ashers Baking avessero pieno diritto di rifiutarsi di fornire il bene richiesto, non potendo la loro libertà di espressione, di religione e di coscienza essere coartate al punto da costringerli a sottoscrivere uno slogan profondamente e radicalmente confliggente con le loro più intime convinzioni religiose.
La questione, a ben vedere, non è nuova e l’alternativa tra soggetti e messaggio riproposta dal caso nordirlandese si era già palesata nel caso Masterpiece Cakeshop [584 U.S. _ 2018] (su cui si veda  C. De Santis, https://www.diritticomparati.it/la-mia-religione-non-lo-permette-la-corte-suprema-usa-fonda-il-diritto-allobiezione-di-coscienza-nei-confronti-del-matrimonio-sex/), deciso dalla Corte Suprema degli Stati Uniti nel giugno scorso; è la stessa Supreme Court inglese a richiamare, come una sorta di argomento ad adiuvandum, la pronuncia americana.
Correttamente, peraltro, la Corte inglese sembra accostare la propria decisione, più che al caso effettivamente deciso dai giudici di Washington, alle decisioni della Colorado Civil Rights Commission, richiamate in Masterpiece Cakeshop, che si erano espresse a favore della libertà di coscienza di tre pasticceri i quali si erano rifiutati di confezionare torte recanti messaggi denigratori e di odio nei confronti della comunità omosessuale e del matrimonio same-sex.
A parere di chi scrive, nel caso del Masterpiece Cakeshop, dal momento che la torta richiesta era effettivamente un dolce nuziale certamente destinato ad un matrimonio gay, ma totalmente privo di qualsiasi iscrizione in grado di assumere una valenza religiosa o politica, appariva alquanto problematico sostenere che la torta stessa potesse veicolare un qualunque messaggio o slogan politico cui il pasticciere avrebbe rischiato, contro le sue intenzioni e la sua fede religiosa, di essere associato. Diversamente, negli altri casi verificatisi in Colorado e anche nel caso della pasticceria di Belfast, può effettivamente intravedersi un profilo di frizione e di attrito tra il messaggio, sia esso di odio o di supporto, recato dal dolce tramite le iscrizioni e la decorazione, e le convinzioni politiche o religiose dell’artefice della creazione dolciaria, che, non condividendo le idee del committente, potrebbe non aver altro modo per dissociarsi da esse che quello di rifiutarsi di fornire il bene richiesto.
Tuttavia, sia la pronuncia americana che quella dei giudici britannici lasciano aperto un interrogativo piuttosto difficile da sciogliere: se cioè, nel verificare se sussista o meno una condotta discriminatoria, questo spostamento del terreno di riflessione dai soggetti all’oggetto, al messaggio sia davvero opportuno e non rischi invece di risultare fuorviante. Entrambe le sentenze pongono l’accento sul fatto che il bene richiesto, con quelle caratteristiche, sarebbe stato negato a qualsiasi cliente, a prescindere dal suo orientamento sessuale, mentre qualunque cliente omosessuale che avesse richiesto un bene diverso sarebbe stato servito in condizioni di totale parità rispetto ad un eterosessuale.
In maniera alquanto tortuosa, per non dire contraddittoria, la Supreme Court del Regno Unito giunge ad affermare che, in tema di discriminazioni, contano e devono essere tenute in considerazione esclusivamente le condizioni personali (sesso, colore della pelle, orientamento sessuale, etc.) e le convinzioni politiche o di fede del soggetto passivo della condotta discriminatoria, trascurando o sottovalutando il dato ineliminabile che, se di discriminazione si tratta, essa può sussistere esclusivamente in una dimensione relazionale, come scontro o antitesi di opposti modi di essere, di vivere, di pensare che evidentemente, da parte del soggetto attivo, sono visti come inconciliabili e radicalmente alternativi e, pertanto, impossibilitati a coesistere.
È abbastanza certo, comunque, che quello nordirlandese non sarà l’ultimo caso capace di attirare l’attenzione della dottrina costituzionalistica su questo tema; sarà interessante vedere, però, se Corti di altri ordinamenti inscriveranno le loro decisioni nel solco tracciato da Masterpiece Cakeshop e da Ashers Baking o se invece determineranno un’inversione di tendenza.


“La mia religione non me lo permette”: la Corte Suprema USA fonda il diritto all’obiezione di coscienza nei confronti del matrimonio same-sex?

Lo scorso 4 giugno, nella causa Masterpiece Cakeshop, ltd. v. Colorado Civil Rights Commission [584 U.S. _ 2018], la Corte Suprema Federale degli Stati Uniti ha reso, con l’ampia maggioranza di sette giudici contro due, una pronuncia che traccia un inedito punto di intersezione tra il divieto di discriminazioni basate sull’orientamento sessuale, il cui fondamento costituzionale è stato più volte ribadito dalla Corte nella sua giurisprudenza, e alcuni diritti costituzionalmente tutelati (e potenzialmente confliggenti col divieto in questione), quali la libertà religiosa (Free Exercise Clause) e la libertà di espressione (Freedom of Speech).
Le vicende concrete che hanno dato origine a questa decisione della Corte Suprema sono abbastanza articolate ed è indispensabile riassumerle brevemente. Innanzitutto, è bene ricordare che l’intera vicenda inizia nel 2012, in un momento, cioè, in cui ancora la Corte non era intervenuta sulla questione del same-sex marriage, come poi è avvenuto nel 2013 con la sentenza Windsor e soprattutto nel 2015 con la pronuncia Obergefell, che ha obbligato tutti gli Stati della Federazione non solo a riconoscere, ma anche ad istituire effettivamente questo tipo di unione; nel 2012, quindi, vi erano ancora diversi Stati che espressamente vietavano o che comunque non riconoscevano il matrimonio tra persone dello stesso sesso e, tra questi, anche il Colorado, Stato in cui si collocano i fatti relativi a questa causa.
Nel 2012, appunto, Jack Phillips, fervente cristiano, titolare del Masterpiece Cakeshop di Denver, si rifiutava di preparare una wedding cake destinata al ricevimento nuziale della coppia formata da Dave Mullins e Charlie Craig; il diniego del pasticciere era da questi motivato sulla base delle proprie profonde convinzioni religiose che ostavano alla sua “partecipazione”, seppur solo nella misura del confezionamento di una torta, a quel tipo di matrimonio, ma che peraltro non gli avrebbero impedito di fornire, anche in futuro, ai medesimi clienti prodotti dolciari diversi destinati ad altre occasioni d’uso. Craig e Mullins, ritenendosi vittime di una violazione, ad opera del pasticciere, del Colorado Anti-Discrimination Act (CADA), legge che vieta, tra l’altro, le discriminazioni basate sull’orientamento sessuale nell’accesso a beni o servizi da parte dei gestori o titolari degli esercizi commerciali che li forniscono, azionavano quindi gli strumenti di tutela predisposti da tale normativa; si tratta, in effetti, di un sistema di administrative review che, pur non contornato da tutte le garanzie e le forme proprie della giurisdizionalità, assicura comunque diversi gradi di “giudizio” da parte di organi diversi. Ad ogni modo, sia la Colorado Civil Rights Commission, posta al vertice di tale sistema, sia, successivamente, la Court of Appeals del Colorado si erano pronunciate a favore dei ricorrenti, ritenendo discriminatorio il rifiuto opposto dal pasticciere Phillips ad averli come committenti; la Supreme Court del Colorado, adita dal cake designer, non aveva accettato di esaminare il caso che giungeva quindi alla Corte Suprema Federale che ha appunto ritenuto di accogliere il writ of certiorari e di decidere la controversia, la prima, nel suo genere, ad arrivare dinanzi alla massima istanza giurisdizionale degli Stati Uniti.
Diversamente da quanto avvenuto in casi analoghi a livello statale, dove le corti si sono generalmente espresse a favore delle coppie omosessuali, stigmatizzando come discriminatorio il comportamento dei fornitori “obiettori” (pasticceri, fiorai, ecc.), la Corte Suprema ha accolto e fatto proprie le ragioni del pasticciere, seppure attraverso iter argomentativi non precisamente convergenti tra i diversi giudici. La maggioranza, infatti, coagulata intorno all’opinione del giudice Kennedy (estensore di tutte le decisioni a favore dei diritti degli omosessuali, da Romer a Obergefell, passando per Lawrence e Windsor), si sfrangia poi in un articolato ventaglio di opinioni concorrenti: le prime due firmate da giudici che hanno comunque aderito alla plurality opinion (i giudici Kagan e Gorsuch, appoggiati, rispettivamente, da Breyer e Alito); la terza, a firma del Justice Thomas che non aderisce all’opinione di maggioranza e ne sottoscrive una concurring in part e concurring in the judgment, supportata dallo stesso Gorsuch. Dissentono, infine, le giudici Ginsburg e Sotomayor, che si associa al dissent elaborato dalla prima.
Come già accennato, Phillips censurava l’operato della Civil Rights Commission alla luce di due parametri costituzionali diversi, entrambi radicati nel I Emendamento: la Freedom of Speech, da un lato, e la Free Exercise Clause, relativa all’esercizio della libertà religiosa, dall’altro. Forse la maggiore peculiarità di questa sentenza risiede nel fatto che l’opinione di maggioranza del Justice Kennedy, nell’accedere alle ragioni del Masterpiece Cakeshop, rinunci ad avventurarsi sul sentiero, certamente scivoloso, della libertà di espressione e si limiti ad esaminare, neppure in maniera eccessivamente approfondita, solo il secondo profilo di censura, quindi analizzando la condotta sanzionatoria della Commissione nei confronti di Phillips solo alla luce della completa neutralità rispetto alle confessioni religiose che la Costituzione prescrive ed impone di osservare al legislatore e, più in generale, ai titolari dei poteri pubblici, al Governo federale come ai singoli Stati.
Peraltro, tanto l’opinione dissenziente del giudice Ginsburg, quanto le concurring opinion di Gorsuch e Thomas suggeriscono invece, pur con esiti diversi, una lettura della controversia maggiormente orientata in chiave di Freedom of Speech e ne approfondiscono i relativi profili.
Un posto centrale nelle argomentazioni dei giudici autori delle diverse opinion è poi occupato dall’analisi delle decisioni della Colorado Civil Rights Commission in tre diversi casi (Jack v. Gateaux, Ltd.; Jack v. Le Bakery Sensual, Inc.; Jack v. Azucar Bakery) in cui questa si era pronunciata in favore di tre pasticceri che si erano rifiutati, nei confronti del medesimo committente, di confezionare una torta apponendovi sopra immagini e messaggi (i cui dettagli sono noti e descritti nella sentenza) offensivi e denigratori nei confronti degli omosessuali e del matrimonio same-sex, in quanto considerati contrari alle proprie profonde ed intime convinzioni e palesemente discriminatori. In questi casi, specularmente, potremmo dire, alla vicenda di Phillips, emergeva, da un lato, la disponibilità dei pasticceri a fornire a quel cliente qualunque prodotto, purché privo di contenuti offensivi o discriminatori, dall’altro l’indisponibilità degli stessi a fornire quel particolare tipo di dolce a qualunque cliente, a prescindere da caratteristiche quali il suo orientamento sessuale o le sue convinzioni religiose.
È bene precisare che, tra la vicenda di Phillips e quella dei tre pasticceri incaricati invano dal medesimo cliente di confezionare una torta a tema biblico-religioso, recante contenuti offensivi per gli omosessuali, i parametri di riferimento cambiano: nel caso di Phillips, veniva in rilievo, un profilo di discriminazione sulla base dell’orientamento sessuale del cliente, dettata da obiezioni di carattere religioso; nel caso degli altri tre pasticceri, il cliente si riteneva oggetto di una discriminazione, basata sulla sua appartenenza ad una fede religiosa, dettata dalle convinzioni profondamente laiche (secular) dei cake designer interpellati.
È proprio sulla presunta disparità di trattamento tra questi tre casi e quello del pasticciere Phillips che si concentra l’opinione di maggioranza firmata da Kennedy; in sostanza, per la Corte, il fatto che il rifiuto dei tre pasticceri di apporre su un loro prodotto messaggi denigratori sia stato valutato dalla Commissione come scevro di intenti discriminatori, su base religiosa, nei confronti del committente, mentre l’obiezione di Phillips è stata configurata e sanzionata in quanto discriminatoria, per lo meno negli effetti se non negli intenti, in relazione all’orientamento sessuale del potenziale cliente, dimostrerebbe, da parte della Commissione stessa, un atteggiamento di prevenzione e di pregiudizio, se non proprio di disprezzo, nei confronti delle convinzioni religiose del pasticciere di Denver. Quest’ultimo aspetto risulterebbe suffragato, secondo la Corte, dai verbali di alcune riunioni della Commissione, durante le quali alcuni dei suoi componenti avevano usato, parlando di obiezioni dettate dalla religione, espressioni particolarmente veementi, al limite dell’offensivo.
Vale la pena ricordare a questo punto che, forse anche per quelle che sono le origini profonde e antiche dell’ordinamento statunitense, esso accorda alla libertà religiosa, nel senso onnicomprensivo del termine, uno status di protezione particolarmente ampio che impone di applicare alle eventuali discriminazioni su base religiosa uno strict scrutiny, quindi uno standard di giudizio particolarmente rigoroso e severo rispetto alle possibili violazioni di tale libertà ad opera del legislatore o dei pubblici poteri. Questo aspetto è stato efficacemente sottolineato dal giudice Gorsuch nel suo concurring, in cui questi ha altresì valorizzato maggiormente, rispetto all’opinione di Kennedy, il profilo della libertà di espressione; anche sotto questa angolazione, la protezione accordata dalla Costituzione federale, soprattutto nell’interpretazione che ne ha dato la Supreme Court, è la più ampia possibile: non importa quanto offensivi, scandalosi o odiosi siano i contenuti attraverso i quali tale libertà si esplica; nella stragrande maggioranza dei casi, la Freedom of Speech prevale su possibili istanze di tutela della sensibilità dell’opinione pubblica.
Non spetta al legislatore e tanto meno ai giudici, né ad un organo come la Commissione del Colorado, afferma Gorsuch, tracciare la linea di confine tra ciò che è offensivo e ciò che non lo è, tra ciò che stride con il credo religioso di un individuo e ciò che vi si può conciliare: questa valutazione, sostiene il Justice, può provenire solo dalla coscienza dell’individuo posta dinanzi alle concrete circostanze del vivere.
Il tema della Freedom of Speech diventa poi protagonista dell’opinione concorrente del giudice Thomas, che si sforza di sviscerare alcune questioni particolarmente vischiose che altrimenti avrebbero rischiato di rimanere sullo sfondo; le medesime questioni, seppure più sinteticamente trattate e ovviamente risolte in senso opposto, riaffiorano anche nel breve dissent delle giudici Ginsburg e Sotomayor. Come già accennato, al di là della condivisibilità del suo punto di approdo, l’aspetto che rende l’opinione di maggioranza di questa pronuncia alquanto claudicante e carente dal punto di vista dell’argomentazione risiede proprio nella scelta di ignorare il versante del Free Speech, che pure risulta centrale nelle difese del pasticciere. Thomas, invece, fa ruotare il proprio concurring intorno al perno della nozione di “expressive conduct”, elaborata dalla Corte in funzione, potremmo dire, estensiva della stessa Freedom of Speech; è questa nozione che consente al Justice di accedere alle tesi del Masterpiece Cakeshop e di considerare l’attività di Phillips come una vera e propria forma di espressione artistica, che pertanto non può essere fatta oggetto di limitazioni o costrizioni quanto ai messaggi da veicolare.
Nonostante la giurisprudenza della Corte Suprema in tema di “expressive conduct” mostri una casistica ampia e variegata, è opinabile, a parere di chi scrive, la tesi che una torta possa costituire una forma di esercizio della libertà di espressione e che essa possa effettivamente integrare una sorta di messaggio che, in questo caso, secondo la difesa di Phillips e secondo la lettura del giudice Thomas, equivarrebbe ad una manifestazione di approvazione e di sostegno nei confronti del matrimonio egualitario; e, anche acquisendo questa prospettiva, non appare così scontata la risposta alla domanda se il messaggio in tal modo veicolato sia da attribuirsi, nel caso di specie, al cake designer piuttosto che al committente. Quanto al confronto con gli altri tre casi verificatisi in Colorado, non sembra che sussista una contraddizione nel considerare diversamente, anche per quanto riguarda il legame tra il produttore e il prodotto, il caso di un dolce commissionato appositamente per veicolare un messaggio di odio o di discriminazione da quello di una torta nuziale, i cui dettagli peraltro non hanno mai formato oggetto di discussione tra le parti, cui, con ogni probabilità, non sarebbe stata apposta nessuna particolare scritta e nessun messaggio di valenza religiosa o politica. All’opinione del giudice Thomas deve essere in ogni caso riconosciuto il merito di aver affrontato una questione assolutamente centrale per la valutazione della controversia nel suo insieme, sulla quale gli altri giudici della Corte avrebbero altrimenti glissato per imboccare la strada, in questo caso decisamente più facile, della Free Exercise Clause.
A voler tirare le somme, si può dire che Masterpiece Cakeshop sia una sentenza che, più che risolvere problemi o sciogliere dubbi, finisce per sollevarne di nuovi. Innanzitutto, ripiegandosi sulla libertà religiosa, la Corte ha rinunciato a scrivere una pagina significativa della sua giurisprudenza, in un senso o in un altro, per quanto riguarda il divieto di discriminazioni e, in particolare, di quelle basate sull’orientamento sessuale. Mentre ad esempio per quanto riguarda il parametro razziale, la Corte è sempre stata categorica nel sottoporre le relative discriminazioni ad uno scrutinio stretto, sin dai tempi della sentenza Romer, i giudici di Washington D.C. non hanno saputo o voluto chiarire quale tipo di standard sia applicabile alle discriminazioni basate sull’orientamento sessuale, mantenendo, da questo punto di vista, una giurisprudenza abbastanza ondivaga.
Desta perplessità poi, e lo ha rilevato il giudice Ginsburg nel suo dissent, il fatto che in questa decisione sembri riaffiorare la dicotomia tra matrimonio eterosessuale e matrimonio omosessuale che proprio la pronuncia Obergefell aveva cercato di smantellare in favore di un unico e inclusivo right to marriage.
Da ultimo, se dall’angolazione di Masterpiece Cakeshop si guarda appena un po’ più indietro a decisioni precedenti della Supreme Court affini per tematica a quest’ultima (si pensi al noto caso Hobby Lobby di qualche anno fa), ci si rende conto di come la Corte stia fronteggiando, in questi ultimi anni, la riemersione e la recrudescenza di profonde linee di tensione che, radicate nella cultura statunitense e mai completamente sopite, solcano il rapporto tra la libertà religiosa e gli altri diritti costituzionali.
Non c’è dubbio, peraltro, che i nodi che la Corte ha sollevato con questa decisione, che sembra configurare una sorta di diritto all’obiezione di coscienza rispetto al matrimonio same-sex, sono destinati, in breve tempo, a venire al pettine e la Corte sarà certamente chiamata quanto prima a delimitare i confini del divieto di discriminazioni nei rapporti interprivati, determinando il peso specifico di tale divieto anche a livello orizzontale.


La Corte Suprema dà il via libera al Travel Ban versione 3.0

Il 26 giugno 2017 la Corte Suprema Federale degli Stati Uniti, pronunciandosi su ricorso dell’Amministrazione Trump, aveva dichiarato parzialmente applicabile il c.d. Travel Ban, l’executive order n. 13780, che prevedeva la temporanea sospensione del rilascio dei visti di ingresso negli Stati Uniti e delle pratiche di riconoscimento dello status di rifugiato nei confronti degli individui provenienti da sei Paesi a maggioranza musulmana. La decisione della Corte, che tra l’altro ribaltava le pronunce precedentemente emesse dai giudici federali del IV e del IX Circuito, ricavava la parziale applicabilità del provvedimento all’esito di un iter argomentativo alquanto tortuoso, finendo così quasi col riscrivere l’executive order enucleando dei criteri applicativi forieri di non poche incertezze quanto alle loro ricadute pratiche.
Ad ogni modo, la Supreme Court si era riservata la decisione definitiva riguardo al Muslim Ban, rimandandola al term autunnale, e quindi al mese di ottobre. Proprio in questo periodo, e precisamente il 24 settembre scorso, prima che la Corte potesse intervenire definitivamente sulla questione, e comunque nel momento in cui ormai si approssimava la scadenza delle misure temporanee previste dall’executive order n. 13780, l’Amministrazione presidenziale ha rimescolato per l’ennesima volta le carte emettendo un nuovo provvedimento (Presidential Proclamation enhancing vetting capabilities and processes for detecting attempted entry into the United States by terrorists or other public-safety threats), destinato ad avere un impatto ben più forte dei precedenti sulle pratiche relative all’immigrazione e alle procedure di ingresso negli Stati Uniti.
Infatti, il nuovo Ban si differenzia, rispetto alle sue due precedenti versioni, per il carattere definitivo o, per meglio dire, stabile, e non più temporaneo, delle restrizioni da esso previste; queste ultime, inoltre, colpiscono adesso i soggetti provenienti da otto diversi Paesi (cinque – Siria, Libia, Yemen, Iran e Somalia – già presenti nel secondo ban, che colpiva anche il Sudan, poi “riabilitato”, cui si aggiungono adesso il Ciad e le new entry non afferenti ai Paesi dell’area islamica, Venezuela e Corea del Nord). Le procedure di identificazione e riconoscimento delle persone vigenti nei Paesi suddetti sono, a vario titolo, ritenute non all’altezza degli standard statunitensi e quindi foriere di potenziali pericoli per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, soprattutto per quanto riguarda l’eventuale ingresso in territorio americano di individui affiliati a reti o organizzazioni terroristiche.
Le misure restrittive si presentano poi come asimmetriche e diversificate, articolate in maniera differente e connotate, potremmo dire, da un grado più o meno intenso di afflittività a seconda del Paese cui si rivolgono; ad esempio, per quanto riguarda il Venezuela, il divieto di ingresso negli Stati Uniti è rivolto specificamente ad alcune categorie di funzionari governativi e statali e non si estende ai cittadini, mentre, nel caso di altri Paesi, il provvedimento esclude finanche il rilascio di visti turistici o per ragioni di studio.
Infine, il provvedimento presidenziale esclude dall’area di operatività del divieto i soggetti permanentemente residenti negli Stati Uniti, individua la disciplina transitoria applicabile e definisce i casi in cui le amministrazioni competenti possono, con valutazione da effettuare caso per caso, ammettere deroghe al divieto di ingresso negli Stati Uniti nei confronti di singole persone, in considerazione della loro particolare situazione.
La Corte Suprema era già intervenuta a dirimere l’imponente contenzioso suscitato dal secondo executive order, emettendo, nel mese di settembre, alcune pronunce interinali; queste ultime erano volte sia a fornire alle amministrazioni ulteriori indicazioni relativamente ai criteri dettati con la decisione del 26 giugno, in particolare il criterio della bona fide relationship, sia a disciplinare l’applicazione del secondo profilo del Ban (che peraltro non appare intaccato o modificato dalla terza ed ultima versione), vale a dire quello relativo al contingentamento dei rifugiati.
Ad ogni modo, la pronuncia definitiva della Corte sul Muslim Ban avrebbe dovuto essere emessa il 10 ottobre, mentre l’entrata in vigore delle nuove misure dettate dalla Presidential Proclamation era prevista a decorrere dal 18 ottobre. Dinanzi al nuovo provvedimento, il 10 ottobre, la Corte Suprema non ha potuto fare altro che rinviare i casi alle Corti federali del IV e IX Circuito, ordinando ai giudici federali di secondo grado di dismettere i rispettivi giudizi sulla base del loro carattere moot, vale a dire, sulla base della sopravvenuta, sostanziale irrilevanza della questione da essi sollevata.
Come già avvenuto per i primi due provvedimenti, il decreto presidenziale è stato oggetto di nuove contestazioni in sede giudiziaria e il contenzioso si è già spostato dalle Corti federali di distretto a quelle di appello, tornando nuovamente proprio davanti alle stesse Corti del IV e IX Circuito, già protagoniste del braccio di ferro con l’Amministrazione Trump sull’executive order n. 13780; le Corti federali di primo e secondo grado, fedeli al loro operato precedente, e sulla base del criterio della bona fide relationship dettato dalla stessa Corte Suprema con la decisione del 26 giugno, hanno quindi adottato provvedimenti (injunctions) fortemente limitativi e restrittivi dell’efficacia e della portata del nuovo Ban. Com’è ovvio, l’Amministrazione presidenziale non è rimasta a guardare e lo scorso 4 dicembre la questione è tornata dinanzi alla Supreme Court che, in maniera abbastanza imprevedibile, si è espressa, a larga maggioranza, a favore delle ragioni della Presidenza, privando di efficacia i provvedimenti inibitori interinali delle Corti federali inferiori e consentendo così il pieno enforcement del terzo Travel Ban nelle more dei diversi procedimenti di cui è oggetto, che sfoceranno, questo è certo, in un’ulteriore, e forse definitiva, pronuncia, della stessa Corte di Washington D.C..
Bisogna tenere conto che quest’ultima decisione della Corte Suprema, resa relativamente ai casi Trump v. Hawaii e Trump v. International Refugee Assistance Project, non consiste in una vera e propria sentenza, ma semplicemente in due unsigned orders che si limitano ad enunciare il dispositivo e a far trasparire il dissenso dei giudici Ginsburg e Sotomayor, che avrebbero tenuto in piedi i provvedimenti limitativi della portata del Ban emessi dalle Corti inferiori, mentre invece nulla ci è dato sapere sulla motivazione di maggioranza e sulle ragioni alla base di questi due dissent.
Alla luce di queste scarne informazioni, è possibile ipotizzare, come molti hanno fatto, che la connotazione (almeno in apparenza) meno spiccatamente antimusulmana di questo terzo provvedimento abbia spinto la maggior parte dei giudici di Washington a pronunciarsi in favore dell’Amministrazione, autrice, questa volta, di un provvedimento più articolato e più saldamente motivato sulle ragioni della tutela della sicurezza nazionale, ragioni che, in passato, la Corte Suprema non ha comunque disdegnato di tenere in considerazione.
Ad ogni modo, come evidenziato all’indomani della pronuncia, non vi è dubbio che, con questa decisione adottata con la larga maggioranza di sette giudici contro due, l’Amministrazione Trump sia riuscita ad iscrivere una pesante ipoteca sulla decisione finale della Supreme Court, sempre che, in questo coacervo di nuove restrizioni, di nuovi ricorsi giudiziari e di pronunce giurisdizionali rese a diversi livelli, sia possibile ipotizzare che la questione trovi un punto di equilibrio definitivo prima che il mandato dell’attuale Presidente giunga a scadenza e i risultati delle sue politiche migratorie siano rimessi al vaglio dell’elettorato.


Il Travel Ban è (solo in parte) applicabile: la Corte Suprema apre spiragli di costituzionalità per l’executive order del Presidente Trump

Il 26 giugno scorso, nella causa Trump v. International Refugee Assistance Project (582 U.S. _ 2017), la Corte Suprema degli Stati Uniti ha scritto l’ennesimo, e non definitivo, capitolo sulla vicenda del c.d. Travel Ban varato dall’amministrazione Trump per la prima volta nel mese di gennaio, immediatamente impugnato in diverse sedi giudiziarie (per maggiori dettagli sulle vicende giudiziarie che hanno investito l’executive order, anche nella sua prima versione, v., in questo blog, D. de Lungo, L’executive order di Trump: una “cronaca costituzionale”, 15 febbraio 2017; M.C. Locchi, Il “Muslim Ban” del Presidente Trump alla prova dell’Establishment Clause: alcuni aggiornamenti, 29 maggio 2017), revocato quindi dallo stesso Presidente e poi riproposto, con alcune modifiche, lo scorso 16 marzo.
Il primo provvedimento (executive order  n. 13769), in realtà più complesso e articolato di quanto si potrebbe pensare, prevedeva, per finalità di prevenzione del terrorismo internazionale, una sospensione di novanta giorni degli ingressi negli Stati Uniti di stranieri provenienti da sette Paesi (oltre all’Iraq, che non viene più menzionato nella seconda versione, Siria, Yemen, Libia, Iran, Somalia e Sudan), nonché una sospensione di centoventi giorni per le procedure di riconoscimento dello status di rifugiato; da ultimo, si stabiliva in cinquantamila il numero massimo di rifugiati che gli Stati Uniti avrebbero potuto accogliere nell’anno in corso. Il secondo executive order (n. 13780) sembrerebbe accogliere parzialmente le critiche e i rilievi mossi da parte dell’opinione pubblica e in sede giurisdizionale, individuando con precisione le categorie di soggetti esentate dall’applicazione del ban (tra gli altri, in primis, i titolari di green card, ovvero coloro che risiedono legalmente e permanentemente negli Stati Uniti), nonché diverse categorie di persone che, in ragione delle loro particolari condizioni, potrebbero essere esentate, sebbene solo all’esito di una valutazione discrezionale, caso per caso, delle amministrazioni competenti.
L’introduzione di questi correttivi non ha però impedito che gran parte delle censure riscontrate nei confronti del primo executive order si trasferissero al secondo provvedimento, con prosecuzione delle controversie giudiziarie già in atto e l’avvio di nuove impugnazioni. Queste ultime si basano essenzialmente su due parametri costituzionali, che si assumono violati dall’atto presidenziale: da un lato, il V Emendamento della Costituzione americana, sotto il profilo dell’eguale protezione delle leggi (clausola ricavata, in via interpretativa, dall’assimilazione della norma al XIV Emendamento, che espressamente la contempla); dall’altro, l’Establishment Clause di cui al I Emendamento che, prima ancora di sancire la libertà di culto, vieta al Congresso di adottare atti volti ad istituire una religione di Stato o anche solo a favorire una confessione religiosa rispetto ad un’altra. Le corti federali di distretto, dinanzi alle quali il Travel Ban è stato impugnato in prima istanza, lungi dal ritenerlo un provvedimento neutro sotto quest’ultimo punto di vista, vi hanno ravvisato un animus ostile nei confronti della religione musulmana e degli stessi individui che la professano e, sulla base di questo, ne hanno bloccato l’operatività, sospendendone l’efficacia relativamente a tutto il territorio nazionale, seppure con strumenti di portata e rilevanza diverse. Le Corti d’appello del IV e IX Circuito, cui l’amministrazione federale si è successivamente appellata, hanno sostanzialmente avallato l’operato delle corti inferiori, sebbene seguendo percorsi argomentativi non coincidenti. Soltanto la prima, infatti, ha valutato i possibili profili di incostituzionalità del Muslim Ban relativamente all’Establishment Clause, facendo leva, tra l’altro, anche sul contenuto di alcune affermazioni fatte da Trump e dai componenti del suo staff in campagna elettorale; la seconda, invece, si è attenuta ad un risalente principio dettato dalla Corte Suprema in base al quale, se un atto normativo viola sia lo statutory law sia il diritto costituzionale, è il primo ordine di censure che deve essere affrontato con priorità, evitando di sollevare la constitutional question. Pertanto, la Corte del IX Circuito ha incentrato le proprie valutazioni sul carattere esorbitante del provvedimento rispetto ai poteri conferiti al Presidente dalla legislazione federale (Immigration and Nationality Act), poteri che, seppure ampi, non sono assoluti. È indubbio che la normativa presidenziale si ponga in attrito con il principio costituzionale della separazione dei poteri; tuttavia, l’argomentazione della Corte si focalizza più precisamente sul divieto di discriminazioni in base alla nazionalità contemplato dall’Immigration and Nationality Act, in quanto espressione di una precisa volontà del Congresso disattesa dal Presidente. In definitiva, il Travel Ban, secondo i giudici del IX Circuito, è esorbitante proprio in quanto fortemente discriminatorio; a questo proposito infatti, e forse contraddicendo la propria intenzione iniziale di evitare la questione di costituzionalità, i giudici hanno evocato lo spettro di Korematsu v. United States, la sentenza che ha conferito il crisma di legittimità della Corte Suprema alla segregazione dei membri della comunità nippo-americana durante il secondo conflitto mondiale, le cui opinioni dissenzienti sono - queste sì - tutte basate sul V Emendamento.
La Corte Suprema, pronunciandosi in via interinale sul ricorso della Presidenza e rimandando la decisione definitiva al prossimo ottobre, ha formulato una per curiam opinion in cui, con una soluzione interpretativa abbastanza ardita, ma non inconsueta nella storia delle sue pronunce, ha sostanzialmente disegnato e delimitato una categoria di soggetti cui il ban non può legittimamente applicarsi, aprendo invece la strada all’enforcement dell’ordine esecutivo nei confronti di ogni altra persona e restringendo quindi l’operatività dei provvedimenti sospensivi assunti dalle corti federali inferiori. Le categorie esentate sono state individuate dalla Corte in riferimento alle condizioni dei respondent nei casi provenienti dalle Corti del IV e IX Circuito; nella fattispecie, si trattava di due soggetti residenti negli Stati Uniti che attendevano l’arrivo di un familiare stretto dalla Siria e, nell’altro caso, dello Stato delle Hawaii, la cui università aveva ammesso degli studenti stranieri provenienti dai sei Paesi musulmani oggetto del divieto. In sostanza, per essere comunque ammesso negli Stati Uniti, il soggetto deve poter vantare (credible claim) una bona fide relationship, o di tipo familiare, con un individuo già residente negli Stati Uniti, o fondata su ragioni lavorative o di studio, con un ente avente sede in America e, in tal caso, deve ovviamente trattarsi di un rapporto reale e non costruito e documentato ad hoc al fine di ottenere l’ingresso nel Paese. Ove questa connessione, questo legame con gli Stati Uniti non sussista, manca, da parte statunitense, un soggetto titolare di una legittima e qualificata aspettativa che possa essere concretamente danneggiato dal divieto di ingresso e pertanto l’esigenza del Governo federale di tutelare la sicurezza nazionale si riespande pienamente e deve prevalere (“Denying entry to such a foreign national does not burden any American party by reason of that party’s relationship with the foreign national”).
Della decisione fa parte altresì un’opinione, parzialmente concorrente e parzialmente dissenziente, del giudice Clarence Thomas, condivisa dai giudici Alito e Gorsuch, che critica la soluzione di compromesso escogitata dalla Corte sia perché essa grava l’amministrazione competente di un ulteriore carico di lavoro finalizzato a sondare la sussistenza dei requisiti individuati dalla pronuncia, sia soprattutto perché, a detta dei tre giudici, le ragioni della tutela della sicurezza nazionale portate avanti dalla Presidenza avrebbero legittimato l’applicazione in toto e senza eccezioni del Travel Ban.
Ad ogni modo, se è vero che la disciplina dei divieti di ingresso è destinata a restare in vigore per un periodo di tempo definito, sia la struttura dell’atto, che prevede l’eventuale protrarsi delle restrizioni ed una possibile estensione del divieto ad altri Paesi, sia più in generale le linee direttrici della politica dell’amministrazione Trump in materia di sicurezza, terrorismo e immigrazione fanno presagire che la Corte potrebbe anche trovarsi ad affrontare un contenzioso più ampio e di non agevole soluzione. Sarà interessante in questo caso vedere se la Corte Suprema, con la maggioranza conservatrice saldamente ricostituita in seno ad essa dopo la nomina di Gorsuch ad Associate Justice, sarà in grado, come già accadde ai tempi della legislazione Bush del post-11 settembre, di mediare tra politiche presidenziali restrittive e diritti dei singoli, facendo da argine alle normative che maggiormente rischierebbero di incidere sulle posizioni dei singoli tutelate dalla Costituzione, anche e soprattutto sotto il profilo del divieto di discriminazioni e dell’eguale protezione delle leggi. A prescindere dall’orientamento dei singoli giudici (che, peraltro, non sempre si è rivelato un buon criterio di prevedibilità delle decisioni della Supreme Court), la Corte ha ormai abituato i suoi osservatori più attenti ad una difesa gelosa delle proprie prerogative e a pronunce che esprimono in modo incisivo il proprio ruolo contro-maggioritario.