Le prospettive di riforma dell’Unione economico-monetaria e il mito dell’unità politica europea

La crisi economica ha colpito la difettosa impalcatura istituzionale europea ereditata dal Trattato di Maastricht, il quale ha separato la politica monetaria (affidata a un’istituzione sovranazionale come la BCE) dalle politiche economiche (assegnate al coordinamento intergovernativo).
Questo assetto, incapace di rispondere agli shock causati dalla crisi, ha costretto l’Unione europea ad intervenire con una serie di misure che hanno tentato di colmare le lacune istituzionali dei Trattati.
Il diritto europeo dell'emergenza ha impattato sui tradizionali percorsi dell'integrazione, innescando un pervasivo processo di regolamentazione e di accentramento orizzontale delle funzioni di politica economica, con contestuale valorizzazione degli esecutivi  dell’Unione e degli Stati membri, secondo una dinamica (per certi versi paradossali) di burocratizzazione dei processi politici e di politicizzazione delle istituzioni tecnocratiche.
Questa dinamica, che ha preso il nome di “federalismo esecutivo”, è irriducibile a un autentico processo federativo, capace di portare verso forme più compiute di unità politica. L’attuale dinamica federale in corso in Europa rimanda, infatti, a una centralizzazione “gerarchica” imposta, almeno in parte, dal centro, amplificando il dualismo tra istituzioni sovranazionali e Stati membri tipico della governance multilivello; inoltre, l’unità politica, assente in un sistema di matrice neo-funzionalista, non è il risultato ma il presupposto dei processi di integrazione di un sistema federale.
L’attuale processo istituzionale dell’Unione è passato indenne al sindacato deferente della Corte di Giustizia, ma ha innescato la reazione delle Corti costituzionali nazionali (in particolare, del Tribunale costituzionale tedesco), le quali hanno voluto riaffermare la natura derivata (e, dunque, intrinsecamente limitata) dell’Unione europea.
Dopo aver passato in rassegna le varie ipotesi di riforma dell’assetto istituzionale, l’articolo sostiene che nessuna delle proposte in campo metta in discussione il peccato originale dell’Unione europea, creazione «neo-funzionalista» frutto delle «réalisations concrètes» di élite politico burocratiche. Si persevera, infatti, nella costruzione di una Unione senza unità, in mancanza, quindi, di un progetto di unificazione della comunità politica europea, id est di un processo costituente di unificazione politica, costruito sui valori fondamentali del popolo europeo.
In conclusione, l’articolo sottolinea come la dinamica istituzionale in corso nell’Unione smentisca buona parte delle principali dottrine sull’integrazione europea.


Sul caso Baka c. Ungheria: la Corte Edu condanna la “distruzione” della separazione dei poteri (e della libertà di espressione)

Come la “distruzione della ragione” perpetuata dall’irrazionalismo anti-illuminista ha contraddistinto il retroterra teorico-culturale dell'esperienza nazista e dei totalitarismi europei (secondo l’intuizione del grande filosofo magiaro György Lukács), così la nuova Costituzione ungherese ha tradotto in termini normativi la democrazia plebiscitaria e il “bonapartismo” populista di Viktor Orban, “distruggendo” – o quanto meno rivedendo al ribasso – il sistema di pesi e contrappesi che caratterizzava il precedente regime costituzionale. La (spericolata?) analogia consente di cogliere l’importanza della pronuncia della Corte Edu: nonostante Baka v. Hungary coinvolga, in punto di stretto diritto convenzionale, il grado di tutela offerto dalla Convenzione alla libertà di espressione, le circostanze del caso concreto e le conseguenti argomentazioni dei giudici di Strasburgo lasciano intravvedere un orizzonte ben più ampio, che colloca il principio della separazione dei poteri al vertice dell'acquis convenzionale. Una di quelle decisioni, insomma, che tradisce una rinnovata vocazione costituzionale della Corte Edu, che ha preso particolarmente sul serio il sempiterno monito della Dichiarazione del 1789, secondo il quale “[t]oute Société dans laquelle la garantie des Droits n'est pas assurée, ni la séparation des Pouvoirs déterminée, n'a point de Constitution”.

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Re melius perpensa, o della virata garantista della Corte Edu in tema di negazionismo

Contestare l'attribuzione della qualifica di “genocidio” ai massacri e alle deportazioni subite dal popolo armeno nel 1915 è manifestazione del pensiero tutelata dall'art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo. Questo, in breve, è quanto ha affermato la Corte Edu nella decisione Perinçek c. Svizzera, che scrive una nuova pagina della controversa giurisprudenza dei giudici di Strasburgo sulla repressione del negazionismo (per un primo commento v. Lobba Un ''arresto'' della tendenza repressiva europea sul negazionismo, su www.penalecontemporaneo.it). Come noto, la Corte europea si è mostrata, nel tempo, particolarmente insensibile alle ragioni della libertà di espressione, riconducendo all'alveo dell'art. 17 Cedu (che prevede la clausola dell'abuso del diritto) le opinioni che negano l'esistenza dell'Olocausto (per una ricostruzione critica di questo orientamento, cfr., se si vuole, Caruso, Dignità degli “altri” e spazi di libertà degli “intolleranti”: una rilettura dell'art. 21 Cost., in Quad. cost. 4/2013, 800 e ss., nonché Id., La libertà di espressione in azione. Contributo a una teoria costituzionale del discorso pubblico, Bologna, 2013, 244 e ss.). In questa giurisprudenza, il mancato richiamo all'art. 10 Cedu è strumentale all'adozione di decisioni che rifiutano di scendere nel merito del giudizio, di esaminare la questione alla luce circostanze del caso e, quindi, di valutare tempo, luogo e modalità della condotta espressiva. L'applicazione sic et simpliciter dell'art. 17 Cedu produce un “effetto ghigliottina” che esclude dalla tutela convenzionale - a priori e in via generale - determinate categorie di opinioni in ragione del loro contenuto.

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Il “Political speech” nella Convenzione europea sui diritti dell’uomo: il caso Eon c. France

Con l’affaire Eon c. France (ric. n. 26118/2010) la V sez. della Corte Edu ha accertato la violazione dell’art. 10 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Il caso risulta di particolare interesse non solo per il richiamo a tecniche di giudizio e luoghi argomentativi tipici della giurisprudenza Edu sulla libertà di manifestazione del pensiero, ma anche perché suscettibile di essere ascritto al genere dei “grandi classici” in tema di libertà di espressione: in questo caso, infatti, la ponderazione giudiziale coinvolge interessi naturalmente conflittuali, come il prestigio delle istituzioni (che conferisce un’aura di sacralità alla pubblica autorità), da un lato, e il diritto di critica del quisque de populo nei confronti del potere costituito, dall’altro.

La decisione prende le mosse dalla condanna, emessa dalle autorità giurisdizionali francesi, di un attivista politico socialista, colpevole di aver accolto l’allora Presidente della Repubblica Nicolas Sarkozy con un piccolo cartello che riportava le parole usate qualche tempo prima dallo stesso Presidente nei confronti di un contestatore: “Casse toi, pauvre con!”. Nel difendere la condanna emessa ai sensi dell’art. 26 della legge sulla stampa (loi 29 juillet 1889), che punisce l’offesa al Presidente della Repubblica, il Governo francese sottolinea la ratio della disposizione, che mirerebbe a tutelare non solo l’onore e la dignità della persona che riveste il munus, ma anche il corretto esercizio della funzione pubblica. In particolare, la condanna si giustificherebbe per la protezione accordata all’“ordine” e ai “rappresentanti delle istituzioni”. D’altro canto, a parere del Governo, lo Stato godrebbe di un ampio margine di apprezzamento qualora il discorso pubblico, come nel caso di specie, non verta su un tema di interesse pubblico o non abbia, comunque, un rilievo politico. In questo senso, le autorità francesi propongono una nozione restrittiva di “discorso pubblico” fondata sulla qualifica soggettiva del dichiarante, piuttosto che sulle oggettive circostanze del caso, o comunque, sulla pubblica funzione rivestita dall’offeso. Il ragionamento è chiaro, e pone, di fatto, una irragionevole differenziazione sociale a base di un diverso trattamento giuridico: poiché l’espressione è frutto di un’attività giornalistica, né il dichiarante è un “eletto” che ricopre un particolare ruolo pubblico, le sue opinioni possono collocarsi nell’ambio di uno “spazio convenzionalmente indifferente”, perché non contribuiscono in alcun modo al dibattito su questioni di rilievo pubblico.

Nel decidere la controversia, la Corte si serve dello schema triadico con cui, generalmente, risolve i casi che coinvolgono l’art. 10 della Convenzione: in base a questa tecnica di scrutinio, affinché le limitazioni statali superino il “vaglio di legittimità convenzionale” è necessario che 1) siano previste dalla legge; 2) perseguano un fine legittimo; 3) si pongano in un rapporto di necessaria strumentalità rispetto all’esistenza di una società democratica. Ed è proprio su quest’ultimo profilo che i giudici si concentrano, una volta riscontrata la sussistenza dei primi due requisiti. Come già rilevato in un dictum del leading case sull’art. 10 Cedu (Handyside v. United Kingdom, ricorso n. 549372/72, 1976) la Corte di Strasburgo riafferma la necessità di  verificare la proporzionalità dell’intervento alla luce di una valutazione complessiva delle circostanze concrete. Il carattere offensivo delle espressioni deve essere raffrontato, in particolare, con le qualifiche soggettive del destinatario della critica e del dichiarante in relazione al particolare contesto spazio-temporale del fatto. In questo senso, l’insulto indirizzato al Capo dello Stato ha una valenza chiaramente politica: in effetti, i limiti della critica devono essere valutati con minor rigore quando questa riguardi un uomo politico che, “(…) sottoposto ad un attento controllo dei suoi fatti e dei suoi gesti (…) dalla massa dei cittadini”, deve mostrare una tolleranza più ampia rispetto al comune cittadino. Inoltre, il tono chiaramente satirico delle espressioni utilizzate, che riprendevano, in un paradossale gioco delle parti, un insulto precedentemente riferito ad un contestatore dallo stesso Capo dello Stato, rafforza la posizione privilegiata della critica e, contestualmente, la necessità di assicurare il “libero dibattito sulle questione di interesse generali senza la quale non può esistere una società democratica”.

Accertata la violazione dell’art. 10 Cedu, tale pronuncia si colloca lungo quell’orientamento giurisprudenziale (inaugurato in Lingens vs Austria, ric. n. 9815/82, 1986, poi confermato più recentemente in Oberschlick vs. Austria, ric. n. 20834/92, 1997,) che riconosce una posizione privilegiata alla critica, potenzialmente offensiva nei toni, rivolta nei confronti  dell’uomo politico (per una panoramica v. G. E. Vigevani, Libertà di espressione e discorso politico tra Corte europea dei diritti e Corte costituzionale, in N. Zanon (a cura di), Le corti dell’integrazione europea e la Corte costituzionale italiana, Napoli, 2006, pp. 459 e ss.). Non sembra, tuttavia, che all’estensione del diritto di critica corrisponda una diffusa protezione convenzionale del discorso pubblico, che, al di là delle impegnative dichiarazioni di principio contenute in numerosi obiter dicta, trova nella giurisprudenza della Corte Edu numerosissime eccezioni. Non solo, infatti, l’ambito di estensione del diritto di critica viene riplasmato a seconda della qualifica rivestita del soggetto offeso (così, ad esempio, non sono ammesse opinioni che mettono in dubbio  l’integrità di chi esercita la funzione giurisdizionale, cfr. ad esempio Barfod. vs Denmar, ric. n. 11508/1985, 1989, Praeger and Obeschlick vs Austria, ric. n. 15974/90 1994, Schöpfer vs Switzerland, ric. no. 25405/94, 1998), ma si è consolidato, nella giurisprudenza convenzionale, un pervasivo controllo sul contenuto delle espressioni (un controllo content based, per dirla secondo una classica tecnica di giudizio della Corte Suprema USA).  Non solo, infatti, l’ hate speech negazionista o antisemita è escluso a priori dalla tutela convenzionale grazie all’effetto “ghigliottina” derivante dall’applicazione della clausola di abuso del diritto (art. 17 Cedu), perché contrario ai valori ispiratori della Convenzione (su cui, se si vuole, C. Caruso,  Ai confini dell’abuso del diritto: l'hate speech nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, in L. Mezzetti, A. Morrone (a cura di), Lo strumento costituzionale dell'ordine pubblico europeo,  Torino 2011, pp. 329 e ss.); persino i vilipendi che non coinvolgono valutazioni critiche sull‘operato dei governanti, ma che offendono la “reputazione” dello stato, non sono considerati “convenzionalmente” protetti (v. ad esempio, recentemente, Rujak vs Croatia, ricorso 57942/10 (2012), su cui P. Tanzarella,  Il limite logico alla manifestazione del pensiero secondo la Corte europea dei diritti, su www.forumcostituzionale.it).

Alla luce di tali considerazioni, non può non apprezzarsi il rifiuto, espresso nella decisione in commento, di qualsiasi concezione “sacrale” della pubblica autorità, capace di giustificare la repressione del pensiero del quisque de populo. Eppure, tale pronuncia deve essere realisticamente valutata alla luce di “una giurisprudenza amplissima e in taluni casi contraddittoria”, (G. E. Vigevani, Libertà di espressione e discorso politico cit., p. 467) che rende difficile l’individuazione “in maniera chiara e univoca”, di “(…) un dato che possa valere in (…) generale, indipendentemente dal caso concreto” (è questa la conclusione cui giunge, pur nell’ambito  di una valutazione complessiva della giurisprudenza della Corte dei diritti dell’uomo, D. Tega nel suo recente lavoro monografico I diritti in crisi, Milano, 2012, p. 145).