La Loi relative à la protection patrimoniale des langues régionales et à leur promotion: un rimedio efficace contro il rischio estinzione delle lingue regionali francesi?

Le questioni linguistiche in Francia occupano da tempi risalenti una posizione centrale nel dibattito politico e giuridico. L’approvazione della legge Loi n° 2021-641 du 21 mai 2021 relative à la protection patrimoniale des langues régionales et à leur promotion, e la relativa decisione del Consiglio costituzionale n. 2021-818 DC del 21 maggio 2021, offrono l’occasione per tornare su questo dibattito, e in particolare sul rapporto complicato che esiste tra lingua francese e lingue regionali, nonché sul compromesso stato di salute di queste ultime, in un momento in cui, secondo la classificazione elaborata dall’UNESCO, quasi tutte le 75 lingue regionali francesi sarebbero in pericolo di estinzione o estremamente vulnerabili.
La lingua francese ha acquisito di fatto uno statuto ufficiale a partire dal 1539, quando l’Ordonnance de Villers-Cotterêts prescrive che gli atti giuridici siano redatti in lingua francese. In quell’epoca, coerentemente con quanto avviene anche in altri contesti caratterizzati da un precoce raggiungimento dell’unità territoriale e politica, l'unificazione linguistica diviene uno dei principali ambiti di intervento del potere pubblico al fine di consolidare lo Stato stesso.
Le spinte verso l’omogeneizzazione linguistica in Francia si rafforzano tra la fine del Settecento e l’Ottocento. La Rivoluzione francese, che sul piano politico e giuridico persegue il superamento dei particolarismi che avevano caratterizzato l’ancien régime, si traduce a livello linguistico nell’avversione all’utilizzo dei dialetti locali, chiamati in senso dispregiativo patois. La politica di superamento del particolarismo linguistico in età rivoluzionaria ha visto, tra i suoi protagonisti, l’Abbé Gregoire e il suo Rapport sur la nécéssité et le moyens d’anéantir les patois et d’universaliser l’usage de la langue française, presentato nel 1794 alla Convenzione nazionale. Nel corso del XIX secolo, la strutturazione dell’insegnamento scolastico, insieme alla riorganizzazione della burocrazia e dell’esercito, rafforzano l’utilizzo e la diffusione del francese su tutto il territorio nazionale.
Il Novecento dimostra, tuttavia, come tale processo sia in continua evoluzione e mai compiuto; in particolare, negli ultimi decenni si assiste, anche in Francia e nonostante l’impegno profuso dallo Stato, a quella che può essere definita una grande contaminazione linguistica, frutto della permeabilità nei confronti sia della lingua inglese che delle lingue degli immigrati. I fenomeni dell’argot, prima, e del verlan, in seguito, mostrano la particolare incidenza di queste contaminazioni nella lingua francese.
Proprio alla fine del secolo scorso, forse anche in reazione a questi processi, la lingua francese acquisisce per la prima volta uno statuto costituzionale, tramite l’inserimento, nel 1992, di un nuovo comma in apertura all’art. 2 della Costituzione, fino a quel momento dedicato ai simboli della nazione (bandiera, inno, motto e principi): “La langue de la République est le français”. Due anni più tardi, la Loi n° 94-665 du 4 août 1994 relative à l'emploi de la langue française interviene a dare attuazione alla novella costituzionale, attraverso disposizioni assai penetranti volte ad assicurare la primazia della lingua francese in diversi ambiti della vita pubblica.
Negli ultimi anni, una rinnovata attenzione sembra essere prestata ad un altro aspetto importante della politica linguistica francese, ovvero il ruolo delle lingue regionali, un tempo avversate in nome del superamento del particolarismo e dell’esaltazione dell’unità, adesso difese e promosse come parte del patrimonio nazionale a rischio di estinzione. In tal senso, nel 2008, si inserisce nella Costituzione una nuova disposizione, in base alla quale si afferma che “Les langues régionales appartiennent au patrimoine de la France”; inizialmente proposta come nuovo comma dell’art. 1, e quindi prima ancora dell’affermazione del francese come lingua della Repubblica, si è deciso infine di posizionare la disposizione nel capitolo dedicato alle collettività territoriali, creando un nuovo art. 75-1.
A partire da questa novella costituzionale, il Parlamento è intervenuto con alcune leggi per tentare di dare una prima attuazione al nuovo statuto riconosciuto alle lingue regionali, con interventi puntuali e mirati soprattutto all’ambito scolastico (Loi du 8 juillet 2013 d’orientation et de programmation pour la refondation de l’école de la République; Loi du 7 août 2015 portant nouvelle organisation territoriale de la République; Loi du 26 juillet 2019 pour une école de la confiance).
La Loi relative à la protection patrimoniale des langues régionales et à leur promotion recentemente approvata rappresenta un tentativo di attuazione organica dell’art. 75-1 della Costituzione; tentativo, va detto, soltanto in parte riuscito, considerato il progressivo ridimensionamento subito della legge, avvenuto sia in sede parlamentare sia in sede di controllo di costituzionalità.
La proposta, presentata da Paul Molac e altri deputati del gruppo di minoranza Libertés et territoires, e inizialmente sostenuta anche dal gruppo di maggioranza La République en marche, era inizialmente organizzata in tre settori: la protezione patrimoniale delle lingue regionali, l’insegnamento e i servizi pubblici.
Nella prima parte della proposta di legge si prevedeva il riconoscimento delle lingue regionali come parte del patrimonio culturale immateriale e si assicurava ai beni materiali di particolare rilevanza per la promozione di queste lingue una protezione rinforzata. L’ultima parte conteneva essenzialmente nuove norme per legittimare la traduzione in lingua regionale dei segnali stradali e l’utilizzo dei segni diacritici non comuni per la lingua francese negli atti dello stato civile. Le disposizioni contenute in queste parti sono state grosso modo confermate in sede parlamentare, nell’ambito della quale si è altresì proceduto a inserire una modifica della Loi du 4 août 1994 relative à l’emploi de la langue française in base alla quale “Les dispositions de la présente loi ne font pas obstacle à l’usage des langues régionales et aux actions publiques et privées menées en leur faveur”, oltre a una serie di obblighi in capo al Governo di informare il Parlamento sullo stato delle lingue regionali.
La parte più controversa è stata tuttavia, fin da subito, quella centrale, dedicata alla scuola, nell’ambito della quale tra l’altro si valorizzavano l’insegnamento della lingua regionale nel normale orario scolastico, le pratiche di insegnamento immersivo nella scuola pubblica e il finanziamento delle scuole private impegnate nell’insegnamento delle lingue regionali. Una parte delle disposizioni contenute in questa parte sono state eliminate già nel corso del dibattito parlamentare, anche per via delle posizioni espresse in Parlamento dal Ministro dell’educazione nazionale, Jean-Michel Blanquer, appartenente allo stesso La République en marche. In particolare, è stata eliminata la possibilità per le collettività territoriali di finanziare gli investimenti delle scuole private impegnate nell’insegnamento delle lingue regionali; al contrario, è stata mantenuta la disposizione che prevede la partecipazione alle spese di scolarizzazione presso le stesse scuole private, per gli studenti che desiderano studiare una lingua regionale e che non incontrano tale opportunità nel proprio Comune di residenza, da parte del Comune stesso.
Quest’ultima disposizione, contenuta all’art. 6 della legge approvata dal Parlamento, è stata oggetto di una saisine parlamentaire dagli interessanti risvolti politici e costituzionali. Su un piano strettamente politico, la vicenda appare curiosa soprattutto in relazione all’atteggiamento di La République en marche, gruppo che, come detto, ha inizialmente appoggiato l’approvazione della legge, per poi ufficialmente avversarlo, seguendo in tal senso anche il parere del Ministro dell’educazione nazionale. Nonostante la posizione espressa in sede dichiarazione di voto, il gruppo ha nondimeno votato in grande parte a favore della legge.
Lo stesso gruppo si è reso poi tra i promotori della saisine, presentata da un totale di 61 deputati, lamentando una possibile violazione dell’art. 2 della Costituzione da parte dell’art. 6 della legge. Il ricorso alla saisine da parte della maggioranza parlamentare, di per sé fatto raro nella V Repubblica, è stato reso ancora più singolare dal repentino ripensamento di alcuni deputati di La République en marche, che hanno chiesto di ritirare la propria firma dal ricorso; richiesta che ha reso necessario, per il Conseil constitutionnel, chiarire come “Aucune disposition de la Constitution non plus que de la loi organique relative au Conseil constitutionnel ne permet aux autorités ou parlementaires habilités à déférer une loi au Conseil constitutionnel de le dessaisir en faisant obstacle à la mise en oeuvre du contrôle de constitutionnalité engagé”.
Passando dalla procedura al contenuto, il Conseil ha rigettato in maniera concisa il ricorso presentato, sostenendo come la necessità che i Comuni sostengano le spese di scolarizzazione degli studenti che desiderano studiare una lingua regionale e che non incontrano tale opportunità nel proprio Comune di residenza non sia contraria all’art. 2 della Costituzione, in quanto siffatta necessità non comporterebbe né l’imposizione dell’utilizzo di una lingua diversa dal francese da parte di enti pubblici o enti privati che esercitano funzioni pubbliche, né l’affermazione di un diritto dei singoli ad utilizzare una lingua diversa dal francese con le amministrazioni pubbliche.
Una volta aperta la possibilità di giudicare sulla costituzionalità della legge, il Conseil decide tuttavia di non limitarsi all’esame dell’art. 6, giungendo a dichiarare l’illegittimità costituzionale degli artt. 4 e 9 della legge.
L’art. 4 prevedeva in particolare la possibilità dell’insegnamento immersivo in lingua regionale presso le scuole pubbliche, vale a dire non soltanto l’insegnamento di una lingua regionale, ma l’utilizzo della stessa come lingua principale di insegnamento per altre discipline. Tale tipologia di offerta formativa, secondo i giudici costituzionali, viola l’art. 2 della Costituzione, proprio perché determinerebbe l’utilizzo prioritario di una lingua diversa dal francese da parte di enti pubblici o enti privati che esercitano funzioni pubbliche. Peraltro, è interessante notare come pur essendo, l’art. 4 della legge, indirizzato esclusivamente alle scuole pubbliche, la posizione del Conseil sembra estendersi anche alle scuole private, le quali in alcuni casi già aderiscono al modello dell’insegnamento immersivo in lingua regionale.
L’art. 9 conteneva invece la già citata autorizzazione all’utilizzo dei segni diacritici non comuni per la lingua francese negli atti dello stato civile, un tema giunto alla ribalta pubblica negli ultimi anni a causa dell’Affaire Fañch, sorto dal rifiuto da parte degli ufficiali di stato civile di registrare un nome con la tilde sulla lettera “n” (“ñ”), carattere particolarmente utilizzato nelle lingue bretone e basca (caso giunto fino alla Corte di Cassazione, che ha infine avallato in quel caso l’utilizzo della “ñ”). La disposizione è dichiarata incostituzionale da parte del Conseil, in quanto garantirebbe ai singoli un diritto all’utilizzo di una lingua diversa dal francese nei rapporti con le amministrazioni pubbliche.
L’intervento del Conseil constitutionnel ha dunque comportato un ulteriore ridimensionamento della portata della Loi relative à la protection patrimoniale des langues régionales et à leur promotion, rispetto a quello già avvenuto in sede parlamentare.
Nata con l’obiettivo di dare attuazione all’art. 75-1 della Costituzione, la legge infine entrata in vigore avrà un impatto tutto sommato limitato sulla protezione e sulla promozione delle lingue regionali. Le 75 lingue regionali francesi versano in uno stato di salute fortemente compromesso; la legge in commento, pur testimoniando la presa di coscienza da parte del legislatore francese della necessità di intervenire sul tema, al fine di tutelare questa parte fondamentale del patrimonio culturale francese, non sembra purtroppo costituire una medicina efficace per curare questo preoccupante deperimento.


L’indipendenza dei Tribunali elettorali in America latina: profili costituzionali e comparati

The creation and diffusion of the Electoral Tribunals is one of the most original contribution of the Latin American constitutionalism. These bodies are established in order to resolve election disputes. This paper analyses the provisions contained in Latin American constitutions aimed at guaranteeing the independence of the Electoral Tribunals, which is an essential condition for their legitimacy.


Knesset v. Corte suprema, secondo round: continua il botta e risposta sulla Prevention of Infiltration Law

Su questo stesso sito, meno di un anno fa (era marzo 2014), commentavo la recente evoluzione in materia di immigrazione nello Stato di Israele. Avevo parlato, in quell’occasione, del dialogo tra Corte suprema e Knesset sulla Prevention of Infiltration Law 5714-1954, che aveva preso forma in una serie di emendamenti alla legge intervallati da una dichiarazione di incostituzionalità della Corte. Il titolo dato in quell’occasione al mio intervento –  “Infiltrators o refugees? I tre atti di una storia non ancora conclusa” – si è rivelato adatto soltanto a metà: è vero che la vicenda non è ancora definita, come dimostrano i nuovi fatti che mi appresto a commentare. Qualche dubbio ho invece sull’immagine che avevo voluto evocare, quella dell’opera teatrale divisa in atti: meglio si adatta, a questo punto, lo scenario di un ring in cui gli attori che prima recitavano gli atti si trasformano in pugili che combattono un secondo round (immagine, questa del ring, utilizzata del resto anche da autorevoli commentatori come Ruvi Ziegler, University of Reading-UK). Gli immigrati, quelli sì, rimangono tali: protagonisti-spettatori di una storia in cui non possono intervenire, impotenti di fronte al duro botta e risposta tra giudice e legislatore che ha trasformato l’iniziale dialogo in uno scontro frontale.

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Figli di haitiani in transito? Note sui recenti sviluppi in materia di cittadinanza nella repubblica dominicana

La decisione resa recentemente dal Tribunale costituzionale della Repubblica dominicana (sentenza TC/0168/13) in materia di cittadinanza merita alcune considerazioni perché tocca aspetti fondamentali per il funzionamento di qualsiasi società democratica. In particolare, l’analisi della sentenza ci porterà ad approfondire due elementi: il significato e la funzione della cittadinanza e gli strumenti di garanzia dei diritti fondamentali.

Partiamo dai fatti: Juliana Dequis Pierre, cittadina dominicana nata nel 1984 da genitori haitiani, lavoratori migranti, si reca all’ufficio anagrafe della sua città per ottenere il documento di identità ed elettorale. L’ufficio, tuttavia, riscontrando che la sua registrazione come cittadina dominicana è avvenuta, alla nascita, in modo irregolare, non rilascia il documento richiesto, costringendo la donna in uno “stato di indefinitezza”. A nulla serve il ricorso presentato al Tribunale di primo grado di Monte Plata, respinto per motivi formali, né quello sollevato dinanzi al Tribunale costituzionale, dove non soltanto la donna non vede riconosciuto il suo diritto ad ottenere il documento, ma addirittura vede privarsi dello status di cittadina, ricevendo in cambio un permesso di residenza temporaneo nell’attesa dell’approvazione (fortunatamente in seguito avvenuta) di un piano nazionale di regolarizzazione. E, fatto ancora più grave, dato che al peggio non c’è limite, il Tribunale allarga gli effetti della sua decisione agli altri cittadini, secondo alcune stime circa 200.000, nelle stesse condizioni di Juliana Dequis Pierre.

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Infiltrators o refugees? I tre atti di una storia non ancora conclusa

La recente evoluzione che ha interessato la Prevention of Infiltration Law in vigore nello Stato di Israele è una storia in tre atti che ha come attori, da una parte, la Knesset e il governo israeliano e, dall'altra, la Corte suprema. I rifugiati (infiltrators?), veri protagonisti delle “vicende” che qui brevemente si ripercorrono, stanno per adesso a guardare, in attesa che un eventuale quarto atto possa meglio chiarire la loro posizione. Come tutte le storie, però, anche questa ha un antefatto, da cui conviene senz'altro partire per inquadrare l'evoluzione di cui in seguito si darà conto.

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Test linguistici e cittadinanza: il cammino (tortuoso) del Belgio

L’introduzione di requisiti linguistici come condizione per l’ingresso in uno Stato e per l’ottenimento della cittadinanza costituisce oggi un trend che interessa diversi paesi dell’Unione europea e non solo; in questo senso non dovrebbe stupire più di tanto il caso del Belgio che con le recenti modifiche al codice della cittadinanza ha introdotto tra i requisiti per l’ottenimento dello status di cittadino proprio una prova della conoscenza linguistica. Tuttavia almeno due aspetti impongono in questo caso una riflessione più approfondita: il primo è, ovviamente, il fatto che in Belgio non esiste un’unità linguistica dal momento che sono riconosciute tre lingue ufficiali - francese, olandese e tedesco - più altre lingue storiche non ufficiali; il secondo è invece l’incerto andamento del legislatore belga in materia, che nel 2000 aveva abrogato alcune parti del codice del 1984 relative proprio alle condizioni di integrazione.

Ma andiamo con ordine e partiamo dal primo aspetto. Lo strumento dei test linguistici è utilizzato, negli ordinamenti dove è stato introdotto, come prova di integrazione; si crea così una catena che parte dalla conoscenza della lingua, presupposto dell’integrazione in una comunità, che a sua volta è posta come condizione per l’ottenimento della cittadinanza. È evidente come in Belgio tale catena sia quantomeno propensa ad incepparsi; non si può certo dire, infatti, che in Belgio la lingua costituisca un fattore di integrazione, anzi, è forse l’elemento che maggiormente è in grado di dividere la comunità belga. Stato multinazionale e multilinguistico, la spaccatura linguistica è insieme la prima responsabile e l’espressione più saliente del “divorzio belga” che si è consumato a partire dai primi anni del Novecento e che dopo la seconda guerra mondiale ha quasi portato il Belgio alla disgregazione, riuscendo comunque a condizionare le riforme costituzionali che hanno dato vita ad un processo federale disaggregativo.

La legge approvata il 4 dicembre 2012, che introduce i requisiti linguistici modificando il codice della cittadinanza del 28 giugno 1984, si pone in maniera del tutto indifferente di fronte a questo aspetto, limitandosi a stabilire che per prova di conoscenza della lingua debba intendersi la prova di conoscenza di una delle tre lingue nazionali (art. 2 della legge del 2012, che modifica l’art. 1 del codice della cittadinanza) e introducendo il requisito come condizione per l’ottenimento della cittadinanza belga per declaration (art. 9 della legge che modifica l’art. 12bis del codice) ovvero per naturalisation (art 17 della legge che modifica l’art. 21 del codice).

Dunque, il paradosso: dal momento che è stata scelta la via del separatismo linguistico invece del bilinguismo (multilinguismo), soprattutto per paura che il tentativo di integrazione si potesse trasformare in strumento di assimilazione da parte della comunità politicamente più forte in questo o quel momento, nessuno sforzo integrativo è richiesto ai cittadini belgi dal punto di vista dell’utilizzo della lingua; viceversa, tale compito ricade sugli “aspiranti” cittadini. Tuttavia in questo modo non si fa altro che rafforzare i timori reciproci di debolezza che contribuiscono a distanziare le diverse parti che formano la comunità belga. Sotto questo aspetto credo, dunque, che l’introduzione di requisiti linguistici per l’ottenimento della cittadinanza sia da valutare in maniera negativa; lungi dal costituire un mezzo di integrazione, esso certo non contribuisce alla creazione di una cittadinanza belga ma piuttosto rafforza l’idea della presenza in Belgio di diverse nazioni che non hanno come prospettiva comune quella del consolidamento di una comunità politica unita.

Il secondo aspetto che impone qualche riflessione è, come anticipato, il fatto che in Belgio i requisiti linguistici erano già stati introdotti con il codice della cittadinanza del 1984, salvo essere eliminati dalla riforma del codice stesso nel 2000. Quali sono gli effetti  di questi cambi di direzione effettuati dal legislatore belga in questi tre decenni? Per capirlo occorre senz’altro andare più a fondo e comprendere cosa è veramente cambiato nella legislazione in materia e in particolare in che modo i requisiti linguistici operano come condizione per la naturalizzazione e l’ottenimento dello status di cittadino del Belgio.

In questo senso, senz’altro si deve partire proprio dal 1984, quando il Belgio introduce, tra i primi paesi in Europa, il requisito di conoscenza della lingua come condizione per l’ottenimento della cittadinanza. Il codice era imperniato sul concetto di ‘volontà di integrazione’ che doveva essere dimostrata per l’acquisizione della cittadinanza per option (possesso di requisiti legali e richiesta all’autorità giudiziaria) come per naturalisation (mancanza di requisiti legali e richiesta al Parlamento). Al contrario, con la riforma del 2000 cade la necessità di dimostrare tale volontà di integrazione, con la conseguenza che viene meno anche l’obbligo per il richiedente di conoscere una delle tre lingue nazionali belghe. La riforma del 2000 era stata accolta favorevolmente sia in Belgio che a livello internazionale. In controtendenza con quanto stava avvenendo in Europa, il paese allentava le maglie in materia di ottenimento della cittadinanza e soprattutto ribaltava il paradigma che stava diventando dominante proprio in quegli anni e che si sarebbe affermato in diversi paesi del vecchio continente: porre l’integrazione come condizione per l’ottenimento di uno status stabile e sicuro come quello di cittadino e, di conseguenza, addossare la responsabilità dell’integrazione sullo straniero e non sulla società. Viceversa in Belgio non veniva meno l’obiettivo dell’integrazione, che tuttavia tornava ad essere un fine e non una condizione per diventare cittadini.

L’ultima riforma, entrata in vigore nel 2013, sembra dunque voler porre un freno al cammino di apertura intrapreso nel 2000. Non si può dire tuttavia che manchino tratti di discontinuità pure con la disciplina del 1984. Occorre qui distinguere la tipologia di requisito linguistico richiesto per le diverse modalità di acquisizione della cittadinanza. Per quanto riguarda la naturalisation in verità la conoscenza della lingua non costituisce un vero e proprio requisito, ma piuttosto un fattore importante per la valutazione che deve essere compiuta dalla Camera dei rappresentanti per concedere la cittadinanza: rispetto a quanto stabilito in origine dal codice del 1984, che poneva come condizione la verifica della volontà di integrazione, e a quanto disposto a seguito della modifica del 2000, che eliminava tale requisito ma lasciava di fatto ampia discrezionalità al Parlamento, la maggior precisione con cui vengono definiti gli elementi che vengono presi in considerazione dall’organo cui spetta la decisione in materia deve essere senz’altro giudicata positivamente, come tentativo di rendere maggiormente “prevedibile” una decisione che comunque resta  assolutamente discrezionale e inappellabile. Diversa la situazione della declaration (già option), ove si è passati dalla verifica della volontà di integrazione, che si traduceva nella capacità di parlare in una delle tre lingue nazionali, al possesso della conoscenza linguistica di livello A2 (art. 2 della legge del 2012) che, come specificato dal successivo decreto attuativo (decreto reale del 14 gennaio 2013), può essere provato attraverso una serie di certificati rilasciati da enti competenti oppure mediante attestazioni di frequenza di scuole secondarie, corsi  professionali, corsi di integrazione ovvero dimostrando di aver lavorato ininterrottamente in Belgio nei cinque anni che hanno preceduto la domanda. L’evoluzione quindi è senz’altro positiva con riferimento alla disciplina disegnata nel 1984: il livello di conoscenza linguistica richiesto è minimo (nel quadro comune europeo di riferimento per la conoscenza delle lingue è definito ‘elementare’) e inoltre, in un senso adesso ampio di ‘volontà di integrazione’, esso può essere anche sostituito dalla prova di comportamenti dello straniero che siano in grado di dimostrare il tentativo di integrarsi nella comunità belga.

Dunque, al netto dei dubbi sulla scelta della conoscenza linguistica come mezzo di prova della volontà di integrazione - quando in Belgio la lingua costituisce un fattore fortemente e certamente disgregativo - la chiara definizione degli elementi che sono alla base delle scelte degli organi competenti in materia di acquisizione di cittadinanza belga non può essere giudicata in maniera del tutto negativa. Molto dipenderà, però, dalle politiche che saranno affiancate a questa nuova disciplina; l’esempio da seguire è quello delle Fiandre, Regione che dal 2003 organizza corsi di integrazione - obbligatori ma senza test finale - che forniscono agli immigrati non solo competenze linguistiche, ma anche conoscenze della cultura e della società fiamminga.

Il punto, come già affermato in precedenza, è continuare a far si che l’integrazione sia un fine e non soltanto una condizione per l’ottenimento di uno status: la modifica al codice e soprattutto il decreto attuativo sembrano andare proprio nel senso sperato.