Infiltrators o refugees? I tre atti di una storia non ancora conclusa

La recente evoluzione che ha interessato la Prevention of Infiltration Law in vigore nello Stato di Israele è una storia in tre atti che ha come attori, da una parte, la Knesset e il governo israeliano e, dall’altra, la Corte suprema. I rifugiati (infiltrators?), veri protagonisti delle “vicende” che qui brevemente si ripercorrono, stanno per adesso a guardare, in attesa che un eventuale quarto atto possa meglio chiarire la loro posizione. Come tutte le storie, però, anche questa ha un antefatto, da cui conviene senz’altro partire per inquadrare l’evoluzione di cui in seguito si darà conto.


La Prevention of Infiltration Law 5714-1954 è una legge che, approvata nel quadro della disciplina in materia di immigrazione e di cittadinanza (dopo due anni dalla Nationality Law 5712-1952 e dalla Entry into Israel Law 5712-1952 e dopo quattro dalla Law of Return 5710-1950), cercava di dare attuazione al disegno tratteggiato nel 1948 dalla Dichiarazione di indipendenza che aveva posto le basi per la nascita di Israele come Stato ebraico e democratico. In particolare, attraverso questi atti il legislatore metteva in campo tutti quegli strumenti che fin dai primi anni di vita dello Stato sarebbero stati utilizzati per combattere una delle battaglie più dure per la difesa del carattere ebraico di Israele: quella demografica.

La Prevention of Infiltration Law si inseriva pienamente in questo strumentario: essa predisponeva, nel testo in vigore a partire dal 1954, una serie di pene molto severe (artt. 2-8), fino al carcere a vita, per coloro che venivano considerati “infiltrati”. La stessa legge si occupava di definire questa categoria (art. 1): erano “infiltrati” coloro che migravano in Israele consapevolmente e illegalmente e che tra il 29 novembre 1947 e il loro ingresso erano cittadini di Libano, Egitto, Siria, Arabia Saudita, Giordania, Iraq o Yemen, ovvero residenti in uno di questi Paesi o in una parte della regione palestinese non amministrata da Israele, ovvero Palestinesi (cittadini o residenti) che avevano lasciato la loro residenza abituale in Israele per uscire dallo Stato. Nonostante le pene molto severe, la legge in vigore in quegli anni prevedeva anche una serie di garanzie giurisdizionali, come il diritto di difesa e il doppio grado di giudizio (artt. 11-26).

È evidente che, oltre alle motivazioni di carattere demografico, queste misure rispondevano anche a una serie di preoccupazioni circa la sicurezza dello Stato e in particolare dei suoi confini, alla luce degli scontri con i Palestinesi e gli Stati arabi che proprio in quegli anni iniziavano a segnare la storia di Israele e che portarono, tra l’altro, a proclamare uno stato di emergenza non ancora cessato.

Fin qui l’antefatto. La storia che qui invece vogliamo raccontare comincia nel 2012, quando sorgono diversi elementi di discontinuità rispetto alla precedente situazione normativa che meritano di essere adesso approfonditi.

Atto primo: il 10 gennaio 2012 la Knesset approva un emendamento (il numero 3) alla legge “anti-infiltrazione”. Il primo macroscopico elemento di discontinuità rispetto al passato è rappresentato dalla modifica della definizione stessa di “infiltrato”, che in base alla nuova legge (art. 1) è colui che non è residente in Israele e vi entra illegalmente. Se, precedentemente, la posizione di tali individui veniva regolata dalla Entry into Israel Law, che prevedeva la detenzione fino a un massimo di 60 giorni e l’eventuale espulsione dal Paese per gli immigrati “irregolari”, in seguito a tale emendamento la pena può essere anche quella del carcere a vita. Ma c’è di più: la modifica approvata nel 2012 cancella anche tutte quelle garanzie giurisdizionali di cui si è detto prima e che costituivano una tutela, pur limitata, della posizione dell’individuo accusato di essere “infiltrato”. Il procedimento che porta alla detenzione e all’eventuale espulsione assume, in base a questo emendamento, carattere amministrativo con garanzie senz’altro minori di quelle che erano previste dalla normativa precedentemente vigente. Allargando in maniera così importante l’ambito di applicazione della legge, e restringendo al contempo le garanzie, l’emendamento è andato così a colpire soprattutto i tanti richiedenti asilo che provengono dall’Africa orientale e centrale che difficilmente, a dispetto di quanto ha fatto il legislatore israeliano, possono essere definiti “infiltrati”. È evidente come l’esigenza di sicurezza dello Stato, già alla base della legislazione precedente, venga completamente meno a seguito dell’emendamento del 2012; resta, come unico fine, quello di combattere l’immigrazione – ogni tipo di immigrazione – per preservare il carattere ebraico dello Stato.

Atto secondo: la Corte suprema, il 16 settembre 2013, dichiara incostituzionale l’emendamento approvato l’anno precedente dalla Knesset. In particolare, i giudici hanno dichiarato all’unanimità che la modifica apportata alla legge “anti-infiltrazione” nel 2012 non è conforme alla Basic Law: Human Dignity and Liberty, che garantisce tra le altre la libertà personale di tutti gli individui (art. 5). La stessa legge fondamentale prevede peraltro che sia impossibile limitare i diritti garantiti in tale testo, se non con una legge conforme ai valori dello Stato di Israele che sia approvata per un fine appropriato e che preveda mezzi proporzionati allo scopo perseguito (art. 8). È evidente come l’emendamento oggetto del giudizio della Corte suprema fallisca proprio in relazione a quest’ultimo requisito, giacché il mezzo utilizzato dal legislatore, ovvero la detenzione, potenzialmente a vita, degli immigrati “irregolari”, è sproporzionata rispetto al fine da raggiungere, quello della limitazione dei rischi di infiltrazione causati dall’aumento dei flussi migratori. La Corte aggiunge infatti, nella sua decisione, come la previsione di un periodo di detenzione limitato avrebbe passato indenne il controllo di conformità rispetto alla Basic Law: Human Dignity and Liberty.

Atto terzo: proprio cogliendo questa opportunità lasciata al legislatore israeliano dalla Corte suprema, la Knesset approva, il 10 dicembre 2013, un nuovo emendamento (il numero 4) alla Prevention of Infiltration Law. La nuova modifica prevede effettivamente una riduzione del periodo di detenzione, che viene fissato nel massimo di un anno. Tuttavia, permangono alcuni decisivi aspetti critici: innanzitutto, è previsto che, al termine del periodo di detenzione, coloro che non possono essere rimpatriati siano trattenuti, per un tempo indefinito, in strutture aperte gestite però dall’amministrazione carceraria; inoltre, continuano a mancare le garanzie giurisdizionali che dovrebbero tutelare la posizione dell’immigrato “irregolare” di fronte alle autorità israeliane; infine, è la stessa definizione di “infiltrato”, immutata ai sensi del nuovo emendamento, che desta ancora perplessità, dal momento che si finisce per comprendere nella categoria i richiedenti asilo dell’Africa orientale e centrale che difficilmente possono attentare alla sicurezza dello Stato e che tuttavia sono i più colpiti dalla nuova disciplina.

La storia non è ancora finita: nuovi ricorsi sono stati presentati alla Corte suprema, che quindi nei prossimi mesi tornerà a dover giudicare l’operato del legislatore in questo settore così delicato e importante nel dibattito pubblico israeliano; un settore che, una volta di più, mostra la fragilità e la delicatezza di quel rapporto tra carattere democratico e carattere ebraico dello Stato di Israele che, sancito dalla Dichiarazione di indipendenza, subisce una continua tensione che spesso vede l’elemento democratico dello Stato recedere di fronte all’esigenza di mantenere, in primis da un punto di vista demografico, l’ebraicità di Israele.