Il percorso della riforma del Patto di Stabilità: il compromesso raggiunto peggiora la buona proposta della Commissione (ma è comunque un passo in avanti rispetto al “vecchio” Patto)

1. La riforma del Patto di Stabilità e Crescita è stato uno dei temi più dibattuti degli ultimi mesi, soprattutto perché, se non si fosse trovato un accordo, a partire dal gennaio 2024 sarebbero tornate in vigore le regole del “vecchio” Patto, dopo la loro sospensione per rispondere alla pandemia da Covid-19 prima e dopo che il Next Generation EU aveva contribuito ad alterare, nella sostanza, i connotati della governance economica europea. Appare utile, allora, confrontare la Comunicazione della Commissione del 9 novembre 2022 con il compromesso raggiunto, alla fine dei negoziati, il 21 dicembre 2023 (qui il comunicato stampa), nel corso di una riunione online dell’Ecofin (dopo che, la sera precedente, i Ministri dell’economia francese e tedesco avevano annunciato insieme, da Parigi, che l’accordo era stato trovato e che l’Italia era allineata). L’accordo sarà ora valutato dal Parlamento Europeo, ma dovrebbe essere approvato – con eventuali modifiche – nei primi mesi del 2024.
Nella Comunicazione della Commissione del 2022, il grande assente era la creazione di una capacità fiscale dell’Unione europea. Nonostante questa mancanza, si facevano comunque importanti passi avanti nel superare alcune criticità delle vecchie regole di bilancio. Essendo già stata integrata la governance dei PNRR nel semestre europeo, attraverso la Comunicazione si rafforzava la capacità della Commissione di spingere alcuni Paesi ad “ascoltare” le sue Raccomandazioni economiche (sebbene con molta meno capacità di farlo rispetto al meccanismo individuato col Next Generation EU a causa della mancanza di risorse europee).
Con la Comunicazione, poi, la Commissione prendeva atto di alcune delle ragioni alla base di una riforma delle regole fiscali europee. Una prima ragione è nella scarsa comprensibilità delle regole del vecchio Patto, così come modificate dapprima nel 2005 e poi nel periodo della crisi dei debiti sovrani (2011-2013), non solo dando un peso eccessivo ad alcuni indicatori non osservabili, ma anche cercando di conciliare l’esigenza di rendere il sistema più incisivo, ma al tempo stesso di consentire una maggiore flessibilità. Una seconda ragione si può individuare nel fatto che quelle regole avevano finito per contrastare l’uso della politica fiscale in modo anticiclico e spinto i governi europei a peggiorare la qualità della spesa, tagliando quella di investimento invece di quella corrente. Infine, la rigidità di quelle regole ha provocato una estrema flessibilità, che ha di fatto minato la credibilità dell’Unione, spingendo i mercati a “pesare” la credibilità dei singoli Stati. Tutto questo ha portato a uno scarso rispetto delle regole.
Tali ragioni, insieme alla maggiore attenzione al lato “qualitativo” del coordinamento delle politiche economiche e tenendo conto del nuovo “metodo di governo” inaugurato col NGEU, erano pertanto alla base della comunicazione del 2022, che proponeva di introdurre un quadro di sorveglianza più trasparente e basato sul rischio, differenziato tra Paesi e che avrebbe tenuto conto delle differenze tra i debiti pubblici nazionali. Per questo, la Commissione aveva intenzione di abbandonare sia il parametro di riferimento per la velocità di rientro dal debito (riduzione di 1/20 l’anno del debito per quei Paesi che superano la soglia del 60% del rapporto debito/PIL), ritenuto pro-ciclico e oneroso, sia la regola dell’obiettivo di bilancio a medio termine (OMT), che si basa sul saldo strutturale di bilancio, sebbene sarebbero rimasti validi i criteri del 3% del rapporto deficit/PIL e del 60% del rapporto debito/PIL, stabiliti dal Trattato di Maastricht.
Le principali novità si sarebbero dunque situate nel percorso di avvicinamento al 60% del rapporto debito/PIL, che avrebbe dovuto tenere conto della sostenibilità del debito. Il meccanismo proposto prevedeva che l’Unione europea avrebbe dovuto adottare un quadro normativo comune basato sulla crescita sostenibile e sui rischi per la sostenibilità del debito, e disegnare un percorso di aggiustamento fiscale basato sulla spesa pluriennale diverso da Paese a Paese che coprisse almeno quattro anni, ancorato ad una Analisi della sostenibilità del debito (Debt Sustainability Analysis – DSA) concordata con gli Stati membri in base alla loro classificazione in Paesi con debito pubblico elevato, moderato o basso (Salmoni).
Era tuttavia la proposta di introdurre dei National medium-term fiscal-structural plan, sul modello dei Piani nazionali di ripresa e resilienza, che avrebbe cambiato definitivamente i connotati della governance economica. Questi nuovi Piani – concordati tra Stati membri e istituzioni europee – avrebbero dovuto integrare obiettivi di bilancio, riforme e investimenti, inclusi quelli per affrontare gli squilibri macroeconomici, laddove necessari. Gli Stati con debito elevato avrebbero dovuto assicurare che, entro i quattro o sette anni previsti dal Piano, la traiettoria di riduzione del debito a politiche invariate sarebbe rimasta discendente e che il rapporto deficit-PIL fosse al di sotto del 3% nello stesso arco temporale.
Con quella proposta si rafforzava la titolarità nazionale delle decisioni di politica economica, rendendo più complicato attribuire alle istituzioni europee scelte complicate. Si trattava di un rilevante pregio della Comunicazione della Commissione, considerando che la disciplina del vecchio Patto si basava su regole numeriche di riduzione del deficit e del debito, da applicarsi su base annuale e con efficacia generale per tutti gli Stati membri. Al contrario, la riforma prevedeva percorsi differenziati per i singoli Stati membri, che avrebbero dovuto tener conto delle diverse situazioni di partenza, fissando per ciascuno obiettivi da raggiungere alla fine del Piano.
Inoltre, la Commissione proponeva di concentrarsi solo sulla regola della spesa primaria netta, definita come la spesa pubblica totale al netto della spesa per interessi, della spesa ciclica per sussidi di disoccupazione, delle spese finanziate da sovvenzioni UE e al netto dell’impatto finanziario delle misure discrezionali sul lato delle entrate: la regola della spesa “è soggetta a minori variabili e risulta più facilmente osservabile a livello europeo e nazionale” (Tosato). Allo stesso tempo, con Piani più diluiti nel tempo anche per la riduzione del deficit e del debito, ma concordando con le istituzioni europee riforme e investimenti, si sarebbe potuto porre un freno a quel meccanismo per il quale sono diminuite le spese per investimenti per centrare gli obiettivi di bilancio.

2. Alla Comunicazione della Commissione del 2022 hanno fatto seguito, il 26 aprile 2023, tre proposte per riformare le regole della governance economica dell’Unione (sulle quali cfr. Francescangeli). I negoziati su tali proposte della Commissione sono stati poi defatiganti, si sono protratti sino alla fine del 2023 e non solo sono stati influenzati dalle elezioni europee del giugno 2024 alle porte, ma anche da altri fattori: si pensi alle vicende interne alla Germania, come la decisione del Tribunale Costituzionale Federale tedesco sui fondi costituiti dal governo fuori bilancio (Bundesverfassungsgericht). Nell’ambito dei negoziati, è emerso che i Paesi “frugali” – temendo un eccesso di discrezionalità – hanno chiesto una soglia numerica per la riduzione del deficit e del debito e, a loro volta, Francia e Italia hanno rivendicato maggiori spazi per finanziare a debito gli investimenti pubblici, attraverso lo scorporo dal deficit di alcune tipologie di spese. Tuttavia, al netto del dilemma tra flessibilità e rigidità delle regole fiscali, resta molto difficile stabilire cosa e quanto scorporare dal deficit essendo un chiaro incentivo di azzardo morale, considerando che, per di più, le dinamiche dei mercati potrebbero ignorare gli scorpori e agire comunque sullo spread.
Nell’accordo finale raggiunto il 21 dicembre 2023, si stabilisce che ogni Stato fuori dal parametro del 60% debba negoziare con la Commissione un percorso di riduzione che può durare 4 o 5 anni, prorogabile a 7 se si realizzano riforme e investimenti che migliorano il potenziale di crescita e sostengono la sostenibilità di bilancio (e che includeranno ora le misure previste nei PNRR). Sono tuttavia state introdotte clausole di salvaguardia. Pertanto, i Paesi con un debito superiore al 90% dovranno ridurlo almeno dell’1% ogni anno, mentre quelli con un debito tra il 60% e il 90% dovranno ridurlo dello 0,5%. Allo stesso modo, si stabilisce che il deficit debba essere portato all’1,5% del PIL.
In caso di superamento del limite del 3% del rapporto deficit/PIL il Paese è sottoposto ad una procedura per deficit eccessivo e deve ridurlo dello 0,5% all’anno. Quando il rapporto scende sotto il 3%, è indicato il percorso di aggiustamento che un Paese deve seguire per raggiungere il nuovo obiettivo sul deficit pari al 1,5%: un miglioramento del deficit primario strutturale dello 0,4% all’anno in media nel caso di un piano di durata quadriennale, dello 0,25% all’anno in media nel caso di un piano settennale.
In relazione alla procedura per i disavanzi eccessivi basata sul debito, il Consiglio ha convenuto che, per avviare il processo, la Commissione elaborerà una relazione quando il rapporto debito pubblico/PIL supera il valore di riferimento, il disavanzo nominale non è vicino al pareggio o in avanzo e le deviazioni registrate nel conto di controllo dello Stato membro superano 0,3 punti percentuali del PIL ogni anno o 0,6 punti percentuali del PIL complessivamente. Il Consiglio e la Commissione procederanno a una valutazione globale equilibrata che tiene conto di tutti i fattori significativi che incidono sulla valutazione dell’osservanza dei criteri del disavanzo e/o del debito nello Stato membro interessato. Tra questi, figurano il livello dei problemi di debito pubblico, l’entità della deviazione, i progressi nell’attuazione delle riforme e degli investimenti e, se del caso, l’aumento della spesa pubblica per la difesa.
Il Consiglio ha mantenuto le norme della procedura per i disavanzi eccessivi nella misura in cui, quando la procedura per i disavanzi eccessivi è avviata sulla base del criterio del disavanzo, il percorso correttivo di spesa netta deve essere coerente con un aggiustamento strutturale annuo minimo pari almeno allo 0,5% del PIL. Tuttavia, il Consiglio ha anche deciso che la Commissione può, per un periodo transitorio nel 2025, 2026 e 2027, tener conto dell’aumento dei pagamenti degli interessi ai fini del calcolo dello sforzo di aggiustamento nell’ambito della procedura per i disavanzi eccessivi. Qui si è dunque ottenuto che la Commissione, nel determinare la correzione dei conti pubblici prevista nel triennio 2025-2027, tenga conto dell’incremento nella spesa per interessi intervenuta nel periodo (Bordignon). Quindi, l’accettabilità politica della riforma è stata “comprata” spostando sostanzialmente l’applicazione della disciplina alle future legislature, considerando che nel 2024, presumibilmente, l’Italia e altri Stati saranno sottoposti alla procedura.

3. La Comunicazione della Commissione conteneva quattro importanti innovazioni: in primo luogo, una drastica semplificazione delle regole, eliminando numerosi indicatori basati su variabili non osservabili che creavano incertezza; in secondo luogo, un approccio specifico per Paese con la proposta del percorso di aggiustamento del debito ipotizzato dal Paese stesso; in terzo luogo, un equilibrio fra sostenibilità delle finanze pubbliche e supporto alla crescita attraverso la “spalmatura” dell’aggiustamento su un periodo più lungo nel caso di riforme e investimenti; infine, un minor rischio di pro-ciclicità delle regole che in passato non hanno favorito il consolidamento fiscale in periodi di ciclo favorevole (Buti).
In definitiva, quindi, si può ritenere che la proposta della Commissione di novembre 2022 sia stata peggiorata notevolmente dai negoziati. Ad ogni modo, l’accordo che ne è uscito (come hanno osservato in molti, a partire dal Presidente del Consiglio e dal Ministro dell’economia) è comunque migliore del Patto di Stabilità originario, perché si è preservata la capacità di investimento e una certa flessibilità, sono state semplificate le vecchie regole e sono stati introdotti dei Piani nazionali su misura, basati sulla spesa primaria netta e che tengono conto delle specificità nazionali, almeno in parte. Il vecchio Patto era molto più rigido e non veniva quindi applicato; il nuovo Patto sembra più realistico e si spera che contenga regole che reggano nell’applicazione alla realtà, riuscendo a coniugare stabilità e crescita, anche incentivando gli Stati a fare riforme e investimenti, dando in cambio più tempo per l’aggiustamento fiscale.
Allo stesso tempo, tuttavia, il sistema delle regole fiscali che emerge è molto più complicato di quello originariamente ipotizzato dalla Commissione, per la sovrapposizione di vincoli e criteri diversi, non necessariamente coerenti tra di loro (Bordignon). Non è poi chiaro il senso dell’analisi sulla sostenibilità del debito nel momento in cui vengono reintrodotte soglie rigide, specialmente nel caso in cui tale analisi dovesse dare risultati contrastanti con le altre regole. E, soprattutto, si torna ai problemi legati alle grandezze strutturali, cioè aggiustate per il ciclo, in quanto basate sull’output gap, cioè una variabile non osservabile e il cui processo di stima è instabile e poco noto. Ciò non toglie che, nonostante questi problemi dell’accordo raggiunto, sono poco realistiche le critiche ad una presunta rinnovata “austerity”, considerando che sarebbe stato illusorio immaginare che non si sarebbero poste regole anche volte alla riduzione del debito pubblico (specie quello italiano).
Infine, se non si mettono risorse comuni per finanziare le riforme contenute nei piani pluriennali – ma solo più tempo per il rientro dal bilancio – il metodo di governo del PNRR trasposto nel Patto di Stabilità rischia di essere meno incisivo nei risultati conseguiti a livello nazionale. L’elemento cruciale del futuro e auspicabile sviluppo dell’integrazione europea rimane pertanto il completamento di una capacità fiscale. Anche nel momento in cui l’Unione europea si trova di fronte a un ulteriore allargamento (cfr. le Conclusioni del Consiglio europeo del 14-15 dicembre 2023), è necessario allora non ripetere gli errori commessi in passato, espandendo la periferia senza rafforzare il centro (Draghi). Risulta allora del tutto cruciale federalizzare parte delle spese d’investimento, in tal modo lasciando alle politiche fiscali nazionali la possibilità di concentrarsi sulla riduzione del debito e rendendo maggiormente percorribili regole fiscali più automatiche.


Le reazioni della politica francese (attraverso gli strumenti costituzionali) alla strage del 13 novembre.

État d'urgence e messaggio del Presidente della Repubblica dinanzi al Congresso

Il massacro di venerdì 13 novembre 2015 ha portato ad una immediata reazione della politica e degli organi costituzionali francesi. Innanzitutto il Consiglio dei ministri, convocato dal Presidente della Repubblica francese François Hollande e riunitosi alla mezzanotte del 14 novembre, ha dichiarato lo stato d’emergenza con effetto immediato su tutto il territorio francese. Un secondo decreto è stato adottato per attuare altre misure in tutte le città della regione Ile-de-France. Le disposizioni consentono l’arresto di qualsiasi persona la cui attività sia pericolosa, il divieto di manifestazione, la resa delle armi e la possibilità di effettuare perquisizioni. Inoltre, il Presidente della Repubblica ha deciso l’immediato ripristino dei controlli alle frontiere (tale misura era stata invero già prevista per la COP21, la conferenza ONU sul clima, organizzata a Parigi dal 30 novembre all’11 dicembre 2015; i controlli sarebbero stati ristabiliti dal 13  novembre al 13 dicembre). Scuole e università sono rimaste chiuse sabato 14 novembre nell’Ile-de-France. Un Consiglio della difesa è stato convocato per sabato 14 e altri 1500 soldati sono stati mobilitati. Si è previsto che il Presidente della Repubblica sarebbe rimasto a Parigi senza partecipare (il 15 e 16 novembre ad Antalya, Turchia) al G20.

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Recensione a M. Mezzanotte, La democrazia diretta nei Trattati dell’Unione europea, Padova, CEDAM, 2015.

Il volume di Massimiliano Mezzanotte risulta utile non solo perché ricostruisce dettagliatamente i due istituti che più “s’avvicinano” ad essere di democrazia diretta nei Trattati dell’Unione europea, ma anche perché – preliminarmente – li inquadra nel contesto del livello di democraticità dell’integrazione europea.
“Se la UE stessa dovesse presentare domanda per entrare tra i membri, dovremmo rispondere democraticamente insufficiente”. Questa la frase del commissario europeo Gunther Verheugen (durante la commissione Prodi e, quindi, prima del Trattato di Lisbona che, infatti, tenta di affrontare apertamente il “problema democratico”). Proprio dal deficit democratico che affligge l’Unione europea, sia per quanto riguarda la carenza di legittimazione che quella di accountability, prende le mosse Massimiliano Mezzanotte nel suo “La democrazia diretta nei Trattati dell’Unione europea”.

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