Live in Brussels: un piano quinquennale per rifugiarsi sotto il Patto di Stabilità. Sullo stato della proposta di modifica delle regole del PSC della scorsa primavera

Introduzione

Il tema della riforma del Patto di Stabilità sembra essere tornato oggetto delle cronache più immediate: si avvicinano, infatti, gli incontri dell’Eurogruppo e del Consiglio Ecofin previsti, rispettivamente, il 7 e l’8 dicembre 2023, ma anche il termine previsto (gennaio 2024) per la riattivazione dei parametri quantitativi delle regole del Patto di Stabilità, sospesi dalla pandemia.
Dal punto di vista politico, non sembra esserci ancora accordo tra gli stati. L’Italia, che ha ottenuto una modifica del PNRR e ancora non ha ratificato le modifiche al MES, sembra faticare nel trovare sponde europee alle sue richieste di scomputo di alcune spese da quelle rilevanti per il percorso di aggiustamento, mentre la Germania sembra ricollocarsi su posizioni simili a quelle olandesi. Vista la difficoltà nel formulare prognosi sulla sorte dell’accordo, appare utile in questa sede ripercorrere la proposta di riforma della governance economica presentata nella scorsa primavera, che sarà oggetto del prossimo dibattito in sede europea.
Il 26 aprile 2023 la Commissione europea ha presentato tre proposte per riformare le regole della governance economica dell’Unione, facendo seguito alla comunicazione n. 583 del 9 novembre 2022 e apportando diversi cambiamenti rispetto a quest’ultima (sulla quale si è già scritto, su queste pagine, con G. Gioia, alle quali si rimanda per un’introduzione del tema in oggetto).
Si tratta in particolare:
a. Della proposta di regolamento n. 240/2023 relativo al semestre europeo e al c.d. braccio preventivo (modifica reg. 1466/97);
b. Della proposta di regolamento del Consiglio n. 241/2023 relativa al c.d. braccio correttivo, ovvero alla procedura per i disavanzi eccessivi (modifica reg. 1467/97);
c. Della proposta di direttiva del Consiglio n. 242/2023 relativa ai requisiti per i quadri nazionali di bilancio (modifica dir. 85/2011).
Come è noto, tanto il raggiungimento dell’obiettivo di medio termine (OMT), finalità della sorveglianza delle politiche di bilancio degli stati membri (c.d. “braccio preventivo”), quanto la correzione dei disavanzi eccessivi rispetto ai parametri del 3 e 60% di deficit e indebitamento del settore pubblico sulla base del PIL (c.d. “braccio correttivo”), sono stati sospesi a seguito della pandemia, attraverso l’attivazione della c.d. “clausola di salvaguardia generale”. Dopo una serie di proroghe, la riattivazione degli effetti di tali parametri è prevista per gennaio 2024. La mancata conclusione in tempo utile dell’iter legislativo delle proposte in oggetto comporterebbe, alla disattivazione della clausola di salvaguardia generale, il completo ritorno alla normativa già in vigore sulla governance economica.
Si noti come le tre proposte appaiono destinate, in virtù della differente base giuridica, a seguire tre iter procedurali diversi: quella relativa al braccio preventivo segue la procedura legislativa ordinaria (col Consiglio che vota a maggioranza qualificata), quella relativa al braccio correttivo una procedura legislativa speciale che richiede il voto unanime del Consiglio e nella quale il Parlamento ha un ruolo meramente consultivo, mentre quella relativa ai quadri nazionali di bilancio richiede la maggioranza qualificata dello stesso.


Il braccio preventivo
Il “braccio preventivo” del Patto di stabilità e crescita è quello che presenta le maggiori novità all’interno delle proposte della Commissione. Nella versione attualmente vigente, esso è principalmente volto al conseguimento, da parte degli stati — al fine dichiarato del perseguimento della sostenibilità delle politiche pubbliche —, del proprio obiettivo di medio termine, ovvero il saldo strutturale di bilancio, “personalizzato” dalla Commissione per ogni paese membro (cioè l’espressione in termini numerici del c.d. pareggio o equilibrio di bilancio). Nel caso in cui uno Stato membro non adotti misure correttive in seguito a una significativa deviazione dall’OMT o dalla traiettoria di aggiustamento per il suo raggiungimento, sono previste delle sanzioni, la cui irrogazione non è automatica — essa muove dall’iniziativa della Commissione alla quale segue una complessa procedura, alla quale partecipa anche il Consiglio che vota a maggioranza qualificata inversa (sul punto cfr. Olivari) — ma si pone in una fase antecedente al superamento del limite del 3% di disavanzo sanzionato dal “braccio correttivo” (sul punto Boitani – Landi).
La proposta della Commissione relativa al nuovo braccio preventivo prevede che per tutti gli stati membri che non rispettano i parametri di Maastricht (3% del deficit ma soprattutto il 60% del debito su base PIL, art. 5 della proposta) la Commissione pubblichi delle c.d. “traiettorie tecniche” di evoluzione della spesa netta su un orizzonte temporale di 4 o 7 anni, basate su un’analisi della sostenibilità del debito. Rispetto al quadro attuale, una prima novità è riscontrabile nel fatto che la prospettiva adottata dalla Commissione non si limita al singolo esercizio di bilancio, ma si allarga verso il medio termine, mantenendo ed esaltando quella differenziazione per paese basata sul “rischio” di ciascuno stato.
Come è stato significativamente osservato (Servizio studi Parlamento, pp. 65 e ss.), dal punto di vista metodologico, la definizione della “traiettoria tecnica” da parte della Commissione non stabilisce il punto di partenza, ma piuttosto l’approdo finale di un processo logico che ha come presupposto la predeterminazione di un obiettivo inerente all’andamento del debito e alla sua sostenibilità. Tale percorso logico consta di tre fasi: 1) tramite l’analisi di sostenibilità del debito (DSA) si definisce un profilo discendente dello stesso volto a garantirne la sostenibilità; 2) sarà quindi definito il valore del saldo primario strutturale (cioè senza spese per interessi passivi) necessario per raggiungere tale livello di debito; 3) fissato tale obiettivo in termini di saldo primario strutturale, sarà possibile determinare l’andamento dell’aggregato di spesa primaria (“traiettoria tecnica”) ritenuto coerente con il raggiungimento dell’obiettivo di saldo primario strutturale individuato, al termine del periodo quadriennale (o settennale) di aggiustamento.
Tra quelle che vengono chiamate — in senso diametralmente opposto rispetto a quella del PSC — clausole “di salvaguardia” spicca quella (fortemente voluta dai paesi c.d. “frugali”) della riduzione obbligatoria del deficit dello 0,5% del PIL annuo in caso di disavanzo superiore al 3% (in modo quindi automatico, senza l’apertura della procedura di infrazione).
Come già previsto nella comunicazione del novembre 2022, a fronte delle “traiettorie tecniche” della Commissione, gli stati presentano “Piani strutturali di bilancio a medio termine” della durata di cinque o sette anni (sul punto infra), ovvero un documento «contenente gli impegni di uno Stato membro in materia di bilancio, di riforme e di investimenti» (art. 2). Tali piani vengono dapprima valutati dalla Commissione e, dopo l’eventuale giudizio positivo della stessa, sono successivamente approvati dal Consiglio, seguendo — come già rilevato — un modus operandi che ricalca esplicitamente quello dei PNRR all’interno del Recovery Fund.
Si notino già ora alcuni elementi significativi:

  • cambia il principale parametro di riferimento macroeconomico: non più il saldo di bilancio strutturale, ma la spesa netta;
  • per gli stati rientranti nei parametri di Maastricht (quindi quelli con un livello di indebitamento <60%, essendo il vincolo del deficit intrinsecamente temporaneo) la Commissione fornirà soltanto “informazioni tecniche”, quindi sostanzialmente non sono previste misure di nessun genere;
  • in caso di disaccordo tra il percorso di aggiustamento previsto dalla Commissione e la posizione dello stato prevale la “traiettoria tecnica” della Commissione;
  • il piano strutturale non riguarda solo l’aggiustamento fiscale (gli «impegni in materia di bilancio», ma anche le riforme strutturali (impegni «di riforme e di investimenti») che in tal modo diventano parte integrante del processo.


Braccio correttivo e sorveglianza sugli squilibri macroeconomici
Minori modifiche — ma non per questo meno rilevanti — sono proposte per il c.d. “braccio correttivo”.  Come è stato evidenziato, l’idea di fondo è quella per cui si intende assicurare un’applicazione più rigorosa ex post delle regole per controbilanciare la — asserita e non dimostrata — maggiore titolarità nazionale ex ante nella progettazione delle traiettorie di bilancio (Servizio studi Parlamento, p. 52).
In tal senso, se la procedura per i disavanzi eccessivi (PDE) basata sul deficit rimane sostanzialmente uguale al quadro vigente, l’apertura di una procedura basata sul debito viene resa automatica per i Paesi con livelli di debito superiori al 60% del PIL che deviano dal percorso di aggiustamento concordato.
Modifiche ulteriori riguardano il ruolo degli enti di bilancio indipendenti e il funzionamento dell’apparato sanzionatorio.
Invece, per quanto riguarda la procedura per la prevenzione e la correzione degli squilibri macroeconomici — che per diversi economisti rappresenta il vero fattore di instabilità della zona euro — la Commissione non propone modifiche rilevanti (sul punto Servizio studi Parlamento, p. 9). Nonostante alcuni paesi (Italia compresa) avessero espresso la necessità di promuovere, con riguardo agli squilibri macroeconomici, un approccio maggiormente rigoroso e simmetrico rispetto alla procedura per i disavanzi eccessivi (il che costituirebbe, tra le altre cose, un’applicazione del principio di parità di cui all’art. 11 Cost.), la proposta non si preoccupa di introdurre misure di correzione efficaci nei confronti di quei paesi che presentano elevati surplus di partite correnti nell’area euro (ovvero principalmente la Germania, su cui Cesaratto).


Principali aspetti problematici
Riassunte, seppur brevemente, le principali proposte, si evidenziano ora i principali punti critici, con particolare riferimento alla proposta relativa al “braccio preventivo”.

 a. Il Piano strutturale di bilancio a medio termine. Giuridificazione dei vincoli alla politica economica
L’introduzione del Piano appare avere come effetto principale quello di legare il percorso di aggiustamento macroeconomico all’adozione di riforme strutturali, strutturandosi come obbligo unico, volto a sostituire i programmi di stabilità ed i programmi nazionali di riforma, facenti parte delle procedure del c.d. “semestre europeo” e riuniti nel Documento di economia e finanza. Secondo un meccanismo di approvazione che pare ricalcare quello elaborato per i Piani nazionali di ripresa e resilienza, ai sensi dell’art. 12 della proposta, esso dovrà garantire che gli investimenti e le riforme prospettati siano coerenti con una serie di atti della Commissione e del Consiglio quali, ad esempio, quelli del semestre europeo (tra cui gli indirizzi di massima, su cui l’art. 3 della proposta) e le raccomandazioni specifiche per paese.
In tal senso, appare appena il caso di notare come l’utilizzo di atti non vincolanti per la definizione della politica economica europea non deriva, ovviamente, da un rigoroso self-restraint delle istituzioni europee ossequiose del principio di sussidiarietà, quanto piuttosto dalla mancanza di competenze dell’Unione europea in ambito della politica economica e di bilancio (salvo il coordinamento delle politiche, ai sensi dell’art. 5 TFUE).
Anche dal punto di vista del diritto dell’Unione il meccanismo si qualifica come anomalo (seppur non nuovo): secondo l’articolo 288, par. 5, del TFUE stabilisce infatti in modo inequivoco la natura non vincolante delle raccomandazioni, le quali «consentono alle istituzioni europee di rendere note le loro posizioni e di suggerire linee di azione senza imporre obblighi giuridici a carico dei destinatari», mentre gli orientamenti e gli indirizzi di massima non sono compresi nella lista degli atti giuridici dell’UE e la loro stessa denominazione ne suggerirebbe peraltro la natura non vincolante (sul punto Servizio studi Parlamento, p. 35).
La circostanza che un regolamento stabilisca conseguenze giuridiche per il mancato rispetto di tali documenti appare in grado di conferire loro una cogenza, almeno formalmente, inedita: difatti se prima il loro rispetto era “barattato” in cambio di flessibilità macroeconomica nell’ambito del semestre europeo (sul punto Somma), essi avevano già assunto vincolatività nell’ambito delle procedure del Recovery Fund. Tuttavia, il ricorso alla flessibilità o ai fondi del Recovery restava — almeno formalmente — volontario per gli stati membri che decidevano di accedervi, mentre la proposta in oggetto rende tale vincolatività automatica e sanzionabile per i paesi (e solo per quei paesi) che sforano i parametri macroeconomici, tra cui, in particolare, quello del debito pubblico (che per i paesi ad alto debito non costituisce una condizione transitoria, se non, forse, sul lunghissimo periodo).
Altro effetto della proposta è quello di porre un vincolo tra i Piani nazionali di ripresa e resilienza e quello strutturale (art. 12 lett. d). Il che, da un lato rispecchia indubbie esigenze di coerenza, anche nei confronti di quegli obiettivi di portata sovranazionale che il Recovery intende perseguire, ma dall’altro renderebbe, in ipotesi, il mancato rispetto di alcuni traguardi e/o obiettivi del PNRR suscettibile di sanzione, non solo attraverso la mancata erogazione dei relativi fondi, ma anche tramite gli strumenti sanzionatori della presente proposta (a causa della mancata coerenza tra i due piani).

b. (segue) Le clausole di salvaguardia
La proposta prevede, in caso di circostanze eccezionali, la possibilità di ricorrere a c.d. “clausole di salvaguardia” attraverso cui consentire uno scostamento dalla “traiettoria tecnica”. Tali clausole, attivabili secondo una procedura che vede l’approvazione di una raccomandazione da parte del Consiglio, sulla base di una previa raccomandazione della Commissione, hanno come presupposto due situazioni alternative: 1) a livello europeo (art. 24), in caso di «grave recessione economica nella zona euro o nell’Unione nel suo complesso»; 2) a livello nazionale, al verificarsi di «circostanze eccezionali al di fuori del controllo dello Stato membro aventi rilevanti ripercussioni sulle finanze pubbliche dello Stato membro interessato» (art. 25).
A tal proposito occorre rilevare due elementi, uno di natura teorica e uno di natura fattuale. Il primo vede — in coerenza con il passato — l’utilizzo del concetto di colpa nella finanza pubblica, nei confronti degli stati: mentre per l’Unione basta una «grave recessione» per attivare la clausola di salvaguardia, nei confronti dello stato vi deve essere una circostanza eccezionale sulla quale lo stesso non abbia potuto esercitare un controllo, risultando quindi lo stesso “incolpevole”. Il secondo elemento è, invece, il confronto rispetto al quadro normativo previgente: contrariamente a quanto ci si aspetterebbe successivamente alla crisi economica e alla pandemia, la possibilità di deroga (e quindi la flessibilità del sistema) viene a diminuire: rispetto alla clausola di salvaguardia vigente, che si riferisce a un «evento inconsueto», le «circostanze eccezionali» sembrano potersi ricondurre, almeno dal punto di vista lessicale e concettuale, a ipotesi più ristrette ed eventuali.

c. (segue) La proroga del Piano
Come già accennato, la durata del periodo di aggiustamento di bilancio può essere prorogata fino ad un massimo di sette anni qualora «lo Stato membro si impegni a realizzare una serie pertinente di riforme e di investimenti» ulteriori, rispetto a quelli già previsti nel Piano (art. 13, par. 2). In particolare, le riforme e gli investimenti dovranno, nel loro insieme, soddisfare i criteri elencati nel par. 2, comma 2, dell’articolo 13, tra i quali sostenere la sostenibilità di bilancio, affrontare le priorità comuni dell’UE, affrontare le raccomandazioni specifiche per Paese, incluse eventuali raccomandazioni approvate nel contesto della procedura per gli squilibri eccessivi. L’allungamento del periodo appare possibile, quindi, a fronte di ulteriori impegni di riforme: sembra dunque che in tal modo si passi da un «mercato delle riforme» (Somma) che vedeva uno scambio tra queste e maggiore flessibilità di bilancio a un mero scambio tra riforme (ulteriori) e (poco) tempo in più.

d. (segue) La revisione del piano
La revisione del piano, dopo la sua approvazione e prima della fine del periodo di aggiustamento, è possibile «se l’attuazione del piano originario è impedita da circostanze oggettive o se la presentazione di un nuovo piano strutturale nazionale di bilancio a medio termine è richiesta da un nuovo governo» (art. 14, par. 1). A proposito — contrariamente al PNRR, per cui l’art. 21 del regolamento sul Recovery (2021/241) prevede l’eventualità di modifica del piano solo a «causa di circostanze oggettive» — appare necessario sottolineare come la seconda condizione sembri, forse per la prima volta, porre come rilevante la vita democratica interna degli stati membri, segnando un significativo cambio di approccio rispetto al passato.
Tale virtuosità, che appare rilevante anche dal punto di vista concettuale, sembra tuttavia scontare limiti dovuti all’effettivo spazio a disposizione del decisore politico interno (su cui infra) nonché riconducibili alla previsione per cui la revisione del piano «non consente alcuno slittamento dello sforzo di aggiustamento di bilancio alla fine del periodo né porta ad una riduzione di tale sforzo». Appaiono quindi potersi rivedere — con il placet della Commissione e del Consiglio — esclusivamente le riforme e gli investimenti, ma non il percorso di aggiustamento (la “traiettoria tecnica”) che rimane appannaggio della Commissione.

e. L’analisi di sostenibilità del debito dei singoli stati
Ulteriori problematicità emergono con riferimento alla DSA (Debt Sustainability Analysis) la quale, oltre a scontare un elevato grado di complessità di calcolo, si basa su plurime variabili discrezionali (ipotesi di crescita del PIL, variazioni future dei tassi di interesse e di inflazione). Inoltre, la pubblicazione delle DSA appare suscettibile di generare un rilevante effetto reputazionale avverso, nei confronti degli stati particolarmente esposti sul piano debitorio, influenzando così la stessa valutazione del rischio del debito e innescando in tal modo un circolo vizioso (Bini Smaghi).

f. La “traiettoria tecnica”
Ulteriori problematiche emergono con riferimento alla c.d. “traiettoria tecnica”, ovvero l’aggregato di spesa di riferimento sottoposto a sorveglianza al fine di raggiungere il livello di debito stabilito. Essa, infatti, dipende da una serie di variabili — analogamente alla DSA — estremamente complesse e fortemente aleatorie e/o discrezionali (come ad esempio il tasso di crescita del PIL). In tal senso, la nuova variabile di riferimento non sembra correggere le problematiche relative alla discrezionalità del precedente obiettivo di medio termine (su cui Cottarelli et al.).
Inoltre, occorre evidenziare come la nuova proposta non espliciti il criterio metodologico di calcolo del saldo primario, da raggiungere attraverso la traiettoria tecnica, non risultando quindi esplicitati i criteri e i parametri in base ai quali determinare il livello di debito da definire ottimale e/o sostenibile da raggiungere nel quinquennio. Come è stato evidenziato, tale assenza — che rappresenta una soluzione di continuità rispetto alle regole vigenti, in cui i parametri sono esplicitati — «sembra comportare maggiori spazi di discrezionalità a disposizione della Commissione» (sul punto Servizio studi Parlamento, p. 69).
La questione appare determinante, perché se è vero che una maggiore flessibilità (e quindi politicità) delle regole appare auspicabile — anche al fine di non incorrere in vincoli «stupidi» (Degni – De Ioanna) — il soggetto che beneficerà di tale discrezionalità non pare indifferente né dal punto di vista politico né da quello del principio democratico. Sul punto, occorre rilevare, la pressione dei paesi “rigoristi”, tra cui la Germania, per l’introduzione di regole numeriche automatiche di riduzione del deficit e del debito.

g. Sull’accresciuto livello di titolarità nazionale dei piani di aggiustamento. Conclusioni
Nelle intenzioni (almeno formali) della Commissione, tale discrezionalità dovrebbe essere controbilanciata attraverso un rafforzamento dei margini a disposizione degli stati nella negoziazione del percorso di correzione della spesa da adottare a fronte della “traiettoria tecnica” proposta dalla Commissione. Tuttavia, come visto supra, in caso di disaccordo tra il percorso di aggiustamento previsto dalla Commissione e il percorso proposto dallo stato, prevale la posizione della Commissione. Ci si chiede, quindi, in che termini sarebbe accresciuto il potere dello stato in sede di contrattazione del proprio percorso se, comunque, in caso di disaccordo la sua posizione verrebbe accantonata e in che termini sarebbe possibile definire lo stesso come “titolare” del proprio Piano strutturale: da un lato il contenuto dello stesso deve conformarsi alle raccomandazioni della Commissione, dall’altro il percorso di aggiustamento può essere deciso in modo unilaterale da quest’ultima.
Da quanto esposto emergono forti dubbi che il quadro novellato possa costituire un effettivo miglioramento per la governance economica europea, quantomeno utilizzando un metro di giudizio attento alla divisione delle competenze sancita dai trattati, anche — e forse soprattutto — nell’ottica costituzionale della tutela del principio democratico.
In primis, difatti, la nuova proposta creerebbe una differenziazione tra stati basata sullo status di paese debitore. Solo per tali paesi la politica economica sarà sostanzialmente (co?)decisa a livello europeo, con una frizione evidente tanto del riparto di competenze tra politica economica e monetaria stabilite dai Trattati (cfr. Sciortino), quanto del principio di parità tra stati: difatti, anche al di là dell’effettiva portata del «coordinamento» delle politiche economiche (artt. 2, 5 e 119 TFUE), appare evidente come lo stesso, per essere definito tale, debba riguardare tutti gli stati, e non solo alcuni di essi. Inoltre, pur considerando il doppio standard che sembra caratterizzare la giurisprudenza del Bundesverfassungsgericht nel valutare il rispetto delle competenze da parte dell’Unione (molto attento per la Germania, poco per gli altri paesi, in altri termini cfr. Guazzarotti), non sembra potersi escludere che un patto di stabilità così riformato possa dare luogo a frizioni del tipo Gauweiler/Weiss, soprattutto nel caso in cui la Germania sfori il limite del 60% del debito e quindi le regole diventino concretamente applicabili anche nei suoi confronti.
In secondo luogo, la Commissione sembra così divenire organo di indirizzo delle politiche di bilancio di alcuni (e solo alcuni) paesi membri, senza tuttavia la possibilità di far valere nei suoi confronti forme reali di responsabilità politica, occultata da traiettorie che più che “tecniche” appaiono invero molto politiche  (cfr. Bini Smaghi).
Infine, tale differenziazione sembra rendere impossibile l’utilizzo delle nuove regole nell’ottica della definizione di un indirizzo politico economico comune europeo, minando con ciò la possibilità che tale proposta possa rappresentare — pur in contrasto con i trattati — un “piccolo” o forse grande passo ulteriore nel processo di integrazione. Se, infatti, la condizionalità può essere un utile «strumento di governo» applicabile anche al contesto dell’Unione europea (cfr. Baraggia, p. 155), occorre però chiedersi, parafrasando un noto slogan pubblicitario, che indirizzo europeo sarebbe senza la Germania?