Obblighi internazionali e ordinamento costituzionale a dieci anni dalle sentenze gemelle: breve cronaca di un lungo assedio

A dieci anni di distanza dall’adozione delle cc.dd. “sentenze gemelle” della Corte costituzionale (nn. 348 e 349 del 2007), che per prime hanno chiarito il rilievo assegnato al vincolo di «rispetto degli obblighi internazionali» introdotto all’art. 117, 1° comma, Cost. dalla novella del 2001, il presente lavoro si propone di fornire qualche spunto di riflessione sull’attualità del modello del “doppio scrutinio” delineato dal Giudice delle leggi per assicurare, da un lato, la conformazione della legislazione domestica agli standard di tutela dei diritti fondamentali stabiliti dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nell’esercizio della sua funzione di controllo sull’osservanza della CEDU – quale fonte interposta – e, dall’altro, la salvaguardia del primato costituzionale nei casi in cui il predetto vincolo di conformazione entri eccezionalmente in conflitto con la stessa Grundnorm. Dopo l’iniziale adesione a un orientamento pluralista, ispirato al canone della «massima espansione delle garanzie», con la sentenza n. 49/2015 la Corte costituzionale ha rivisitato in chiave assiologica il modello di scrutinio originariamente proposto. Sebbene, infatti, esso continui a rappresentare un riferimento per la giurisprudenza costituzionale più recente, l’affermazione del primato dei valori su quello della(e) tutela(e) contenuta nella decisione da ultimo citata è idonea a condizionare l’operato dei giudici comuni, costringendoli a effettuare per primi un bilanciamento tra diritti individuali e interessi di sistema – in precedenza riservato alla sola Corte delle leggi – suscettibile di condurli a sollevare una questione di costituzionalità della stessa fonte interposta. Il consolidamento di una simile prospettiva – esito rispetto al quale il lavoro si pone criticamente – porterebbe a ridimensionare, in modo significativo, la portata del vincolo imposto dall’art. 117, 1° comma e, con essa, il processo di «espansione delle tutele» dei diritti fondamentali.


La guerra dei droni e il diritto internazionale: verso una legittima difesa «diffusa e permanente» contro il terrorismo?

È da più di un decennio (il primo lethal strike messo a segno da un drone risale all’ottobre del 2001 in Afghanistan) che l’impiego di velivoli a controllo remoto – noti appunto come droni – in operazioni militari e di «polizia internazionale» è divenuto di uso corrente, al punto da caratterizzare la stessa strategia di contrasto condotta dall’attuale governo statunitense nei confronti di gruppi terroristici di matrice fondamentalista.

I vantaggi derivanti dal ricorso a questa nuova tecnologia appaiono, in effetti, piuttosto evidenti, con riferimento sia alla possibilità di garantire la piena incolumità del personale militare e dei servizi di intelligence coinvolto in tali operazioni (in proposito, è stato correttamente sostenuto come l’impiego dei droni traduca in realtà la comune aspirazione alla «guerra sicura»), sia alla riduzione dei costi molto ingenti che la «war on terror»lanciata dal Presidente George W. Bush dopo l’11 settembre aveva inizialmente richiesto.

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