La guerra dei droni e il diritto internazionale: verso una legittima difesa «diffusa e permanente» contro il terrorismo?

È da più di un decennio (il primo lethal strike messo a segno da un drone risale all’ottobre del 2001 in Afghanistan) che l’impiego di velivoli a controllo remoto – noti appunto come droni – in operazioni militari e di «polizia internazionale» è divenuto di uso corrente, al punto da caratterizzare la stessa strategia di contrasto condotta dall’attuale governo statunitense nei confronti di gruppi terroristici di matrice fondamentalista.

I vantaggi derivanti dal ricorso a questa nuova tecnologia appaiono, in effetti, piuttosto evidenti, con riferimento sia alla possibilità di garantire la piena incolumità del personale militare e dei servizi di intelligence coinvolto in tali operazioni (in proposito, è stato correttamente sostenuto come l’impiego dei droni traduca in realtà la comune aspirazione alla «guerra sicura»), sia alla riduzione dei costi molto ingenti che la «war on terror»lanciata dal Presidente George W. Bush dopo l’11 settembre aveva inizialmente richiesto.


Non sembra essere, invece, sufficientemente chiara, la cornice normativa in cui le missioni di «targeted killing» eseguite da droni vengono collocate e ciò ha portato a sollevare più di una perplessità sulla loro effettiva conformità agli standard previsti dal diritto internazionale.

Le critiche più frequenti provengono da inchieste condotte da ONG (come Amnesty International e Human Rights Watch) e da organi di stampa internazionali e si concentrano essenzialmente sull’assenza di dati certi riguardanti il numero di missioni effettuate e di vittime collaterali cagionate (si rinvia, per tutti, al reportage di M. Bowden, The Killing Machines, in The Atlantic, September 2013, pubblicato, nella traduzione italiana, sul settimanale Internazionale, 4-10 ottobre 2013, pp. 38-52).

Non mancano, inoltre, contributi di carattere scientifico che si interrogano sull’inquadramento giuridico della recente prassi delle uccisioni mirate di terroristi in territorio straniero, eseguite per mezzo di droni al di fuori di un formale contesto bellico. Sul punto, si segnalano opinioni fortemente discordanti tra coloro i quali si mostrano favorevoli all’utilizzo delle killing machines per questo genere di operazioni (considerato anzitutto il minore impatto – politico e mediatico – rispetto alle missioni che comportano l’invio di contingenti militari) e tendono perciò a giustificarle sul presupposto della piena applicabilità delle regole del diritto internazionale umanitario (vale a dire quello che, com’è noto, disciplina il cd. ius in bello) anche nella «guerra al terrorismo», nonostante le evidenti differenze rispetto ai conflitti armati tradizionali (cfr., ad es., J. J. Paust, Self-Defense Targetings of non-State Actors and Permissibility of U.S. Use of Drones in Pakistan, in Journal of Transnational Law and Policy, 2010, pp. 237-280) e chi, invece, contesta radicalmente l’ammissibilità di una simile ricostruzione, qualificando i lethal strikes dei droni come operazioni vietate perché implicanti l’uso illegittimo della forza armata oltre i limiti imposti dal diritto internazionale (M. E. O’ Connell, Remarks: The Resort to Drones Under International Law, in Denver Journal of International Law & Policy, 2011, pp. 585-600).

Anche le Nazioni Unite si sono occupate dell’argomento attraverso i propri organi di promozione e tutela dei diritti umani. Già il Relatore Speciale del Consiglio dei Diritti Umani Philip Alston, nel suo Report on extrajudicial, summary or arbitrary executions, aveva evidenziato come, al di fuori di un conflitto armato formalmente accertato, la possibilità di un «intentional, premeditated and deliberate use of lethal force»realizzato mediante l’impiego di droni non possa ritenersi ammissibile «under international law» (U.N. doc. A/HRC/14/24/Add.62 del 28 maggio 2010). I successivi Reports on extrajudicial, summary or arbitrary executions (U.N. doc. A/68/382 del 13 settembre 2013) e on Promotion and protection of human rights and fundamental freedoms while countering terrorism (U.N. doc. A/68/389 del 18 settembre 2013) redatti, rispettivamente, dai Relatori Speciali Christof Heyns e Ben Emmerson, hanno confermato che la prassi in argomento pone alcune rilevanti questioni di «legal controversy», in particolare per quanto attiene le condizioni di liceità dell’uso della forza «outside situations of armed conflict».

Proprio quest’ultimo aspetto assume, in effetti, un rilievo fondamentale per considerare nella giusta prospettiva i problemi posti dall’utilizzo dei droni nella lotta al terrorismo. Più precisamente, dalle note diplomatiche ufficiali e dai pertinenti contributi di dottrina, emerge come l’ammissibilità delle targeted killings di membri di gruppi terroristici rispetto alle legittime condizioni dell’uso della forza armata nel diritto internazionale (il cd. ius ad bellum) abbia natura preliminare rispetto all’accertamento della loro conformità alle regole codificate nelle Convenzioni di Ginevra del 1949 e nei Protocolli del 1977. Ciò in quanto solo un accertamento positivo in ordine alla legittimità dell’uso della forza armata nella lotta al terrorismo rende utile l’ulteriore verifica riguardo alla compatibilità delle concrete modalità di conduzione delle ostilità ai principi dello ius in bello. Si tratta, pertanto, di ambiti di indagine, seppur formalmente autonomi, tra loro collegati da un punto di vista logico-consequenziale. È noto, d’altro canto che la stessa «dicotomia» ius ad bellum-ius in bello (nell’accezione di N. Bobbio, Dalla struttura alla funzione. Nuovi studi di teoria del diritto, Milano, Edizioni di Comunità, 1977, p. 145 ss., richiamata proprio a questo riguardo da S. Pietropaolo, Jus ad bellum e jus in bello. La vicenda teorica di una “grande dicotomia” del diritto internazionale, in Quaderni Fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, vol. 38 (2009), p. 1170) viene in rilievo, in ambito giusinternazionalistico, solo a partire dal XX secolo e in particolare dopo il secondo conflitto mondiale, quando l’uso della forza armata è formalmente bandito dal novero dei mezzi ammissibili per la risoluzione delle controversie internazionali.

Lo ius ad bellum, come detto, disciplina le condizioni del ricorso legittimo all’uso della forza ai sensi del diritto internazionale vigente. Sul punto, è appena il caso di ricordare che la Carta delle Nazioni Unite sancisce l’illiceità della minaccia o dell’uso della forza armata «contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato» o «in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite» (art. 2, paragrafo 4), contemplando come uniche eccezioni l’esercizio del diritto naturale di autotutela in risposta a un attacco altrui (art. 51), ovvero l’autorizzazione concessa dal Consiglio di sicurezza nei casi in cui si renda necessario «mantenere o ristabilire la pace e la sicurezza internazionale» (art. 42).

Qualora, pertanto, l’impiego di droni armati ricada all’interno di un formale conflitto tra Stati– impregiudicata ogni valutazione circa la sua riconducibilità a una o all’altra ipotesi sopra richiamata – non sussiste alcun problema dal punto di vista della conformità alle regole dello ius ad bellum. Diverso, invece, è il caso in cui essi vengano utilizzati «in tempo di pace» per le uccisioni mirate di individui appartenenti a gruppi terroristici, sia pure in contesti di transizione o di forte instabilità politica. Per sostenere la legittimità di tali missioni ai sensi del diritto internazionale, sarà necessario, infatti, accertare preliminarmente se la «guerra al terrorismo» condotta dagli Stati Uniti sia riconducibile a una delle due eccezioni al divieto generale dell’uso della forza, ovvero se il ricorso a tale nuova tecnologia militare a controllo remoto sia idoneo ex se a qualificare le missioni anzidette in modo differente rispetto a quelle eseguite mediante mezzi bellici «tradizionali» e a introdurre, per l’effetto, una nuova eccezione al divieto anzidetto.

Secondo Harold Koh, legal advisor della Casa Bianca, l’uso dei droni in operazioni antiterrorismo è legittimato in primo luogo dall’Authorization for the use of military force against terrorists (AUMF), rilasciata dal Congresso al Presidente degli Stati Uniti il 14 settembre del 2001 per consentire l’impiego di ogni mezzo necessario a perseguire i responsabili degli attentati dell’11 settembre e ogni individuo o gruppo fiancheggiatore, ed è da ritenersi, altresì, conforme al diritto internazionale, poiché, dopo gli attacchi sul suolo americano e nei confronti dei contingenti militari impegnati all’estero, gli Stati Uniti sarebbero stati – loro malgrado – «attratti» in un conflitto armato contro le milizie di al-Qaida e sarebbero, per ciò stesso legittimati all’uso della forza ai fini di autodifesa. Sempre secondo Koh, una simile giustificazione coprirebbe anche i lethal strikes effettuati con tecnologie a controllo remoto.

Tale ricostruzione riflette pienamente la tradizionale «autoreferenzialità» della posizione statunitense: oltre ad anteporre gli obblighi interni derivanti dall’applicazione dell’AUMF all’osservanza dei principi di diritto internazionale (in linea con un consolidato orientamento interpretativo), il legal advisor propone un’interpretazione «estensiva» della nozione di legittima difesa (come già accaduto, d’altronde, in occasione del secondo conflitto iracheno e dell’applicazione della teoria della legittima difesa preventiva) per giustificare, dopo l’11 settembre, la conduzione di un conflitto armato «diffuso» (perché potenzialmente esportabile in qualsiasi luogo geografico) e «permanente» (perché destinato a concludersi solo quando la minaccia terroristica sarà definitivamente sventata) contro i terroristi di al-Qaida.

In quest’ottica, l’impiego dei droni appare strettamente funzionale all’implementazione di tale dottrina, che – si ricorda – ha origine dopo l’11 settembre, quando per la prima volta si pone il problema dell’esercizio del diritto di autodifesa contro gruppi armati non statali (sul punto, cfr. A. Cassese, Terrorism is Also Disrupting Some Crucial Legal Categories of International Law, in European Journal of International Law, 2001, pp. 993-1001). Potrebbe, in tal senso, ipotizzarsi che le uccisioni mirate di terroristi costituiscano l’espressione di una prassi indicativa di un cambiamento in atto nel diritto internazionale generale, orientato a riconoscere la legittimità di simili operazioni, ove riconducibili al regime derogatorio descritto.

Diversi fattori, tuttavia, inducono a essere piuttosto prudenti sul punto, dal momento che la stessa idea di una «permanent worldwide war» contro il terrorismo sembra poco accettabile, anche sul piano concettuale. In particolare, è difficile ammettere la possibilità di condurre un conflitto o eseguire singole missioni implicanti l’uso della forza letale sul territorio di uno Stato straniero senza il consenso – almeno implicito – di quest’ultimo (tenuto conto, peraltro, che lo stesso consenso all’uccisione di un terrorista da parte delle autorità dello Stato territoriale potrebbe risultare in linea di principio giuridicamente invalido, ove si consideri il diritto alla vita – e, correlativamente, il divieto di uccisioni arbitrarie – protetto, nel suo nucleo essenziale, da norme generali di natura imperativa e, quindi, insuscettibili di deroga convenzionale). Né la semplice assenza di volontà o la constatazione dell’incapacità operativa dello Stato territoriale ai fini della persecuzione dei terroristi appaiono da sole condizioni idonee a legittimare sul piano giuridico un intervento militare in via sussidiaria (in base al cd. «unwilling or unable test»: cfr. T. Reinold, State Weakness, Irregular Warfare, and the Right to Self-Defense Post-9/11, in American Journal of International Law, 2011, pp. 244-286) per scopi di autodifesa.

Nella consapevolezza che le questioni qui meramente accennate rappresentano altrettanti ambiti di indagine meritevoli di un più puntuale approfondimento, può osservarsi, in ultima analisi, che l’incerta evoluzione della prassi e l’assenza di un’opinio iuris generalizzata sulle condizioni e i limiti di impiego di tali tecnologie militari accresce l’esigenza di elaborare in tempi brevi una disciplina ad hoc. Fino ad allora, sembra opportuno, tuttavia, continuare a riferirsi alle più salde categorie del diritto internazionale generale vigente, mantenendo una chiara distinzione tra l’impiego dei droni nell’ambito di conflitti armati e in situazioni di pace. In quest’ultimo scenario, a prescindere, come detto, dal livello di instabilità politica, il ricorso alla forza letale dovrebbe essere ammesso solo come extrema ratio e a condizioni determinate.