Responsabilità del politico per i commenti d’odio pubblicati sulla sua bacheca Facebook personale: la sentenza della Grande Camera per il caso Sanchez c. Francia

In data 15 maggio 2023, la Grande Camera della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Corte EDU) ha pubblicato la sentenza relativa al caso Sanchez c. Francia, già oggetto, nel 2021, di una decisione resa in settembre 2021 dalla Quinta Sezione della stessa Corte. La nuova decisione della Grande Camera costituisce una pronuncia particolarmente significativa nel contesto della giurisprudenza della Corte EDU in materia di discorsi d’odio (hate speech, tema su cui il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa ha pubblicato una raccomandazione a maggio 2022) nonché, soprattutto, in materia di responsabilità vicaria derivante dalla mancata rimozione di contenuti illeciti di terze parti.
Il ricorrente, ai tempi esponente politico del partito francese Front National (oggi Rassemblement National), era nel 2011 in corsa alle elezioni parlamentari per la circoscrizione di Nîmes. In quell’occasione, egli pubblicava sulla propria bacheca di Facebook, accessibile pubblicamente, un post in cui segnalava, in chiave derisoria, il mancato funzionamento del sito internet del proprio avversario politico. Una quindicina di commenti era successivamente comparsa al di sotto del post, due dei quali contenenti frasi offensive nei confronti dell’avversario politico del ricorrente: questi veniva in particolare accusato assieme alla compagna, il cui cognome era stato associato dai commentatori a origini nordafricane, di essersi reso responsabile dell’incremento di immigrazione islamica a Nîmes nel periodo in cui era vicesindaco della città.
Sulla base della denuncia resa dalla compagna dell’avversario del ricorrente, le corti francesi, rilevando che i commenti oggetto del contendere costituivano forme di hate speech ai danni non solo della denunciante, ma anche della comunità islamica in generale, avevano condannato gli autori dei commenti e il ricorrente a una pena pecuniaria, rispettivamente, di 4.000 e 3.000 euro, nonché al risarcimento da parte dei danni non patrimoniali subiti dalla denunciante, quantificati in euro 1.000.
In particolare, le corti francesi avevano condannato il ricorrente alla luce dell’articolo 93-3, comma 2, della legge n. 82-652 del 29 luglio 1982 sulla comunicazione audiovisuale, come modificata dalla legge n. 2008-669 del 12 giugno 2009. Tale norma disciplina, infatti, la responsabilità penale per la commissione attraverso una comunicazione elettronica di uno dei reati previsti dalla legge sulla libertà di stampa in capo all’autore del contenuto illecito, al (co-)direttore della pubblicazione e al “produttore” (producteur) della comunicazione. Sia la Corte di cassazione sia il Conseil Constitutionnel francesi, negli anni antecedenti i fatti discussi in Sanchez c. Francia, si erano del resto occupati di definire il concetto di “producteur” ai sensi della legge n. 82-652 del 1982, concludendo infine che sia in sostanza da riconoscere come tale chiunque prenda l’iniziativa di creare un servizio di comunicazione online al pubblico al fine di promuovere uno scambio di opinioni su temi scelti da lui/lei scelti.
Secondo la parte ricorrente nel giudizio dinanzi alla Corte di Strasburgo, la pena inflitta avrebbe rappresentato una violazione dell’articolo 10 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), in quanto incompatibile con la tutela del diritto alla libertà di espressione, soprattutto alla luce del significativo ruolo tradizionalmente accordato dalla giurisprudenza di Strasburgo al discorso di carattere politico (si pensi, per esempio, alla sentenza Sürek c. Turchia (no.1); sul tema, v. anche qui). Tale argomentazione, già rigettata nel contesto della pronuncia della Quinta Sezione, viene peraltro rigettata altresì dalla sentenza della grande Camera del 15 maggio scorso.
Invero, la Grande Camera sottolinea in primo luogo l’elevato margine di discrezionalità goduto dai Paesi Contraenti nell’adottare misure restrittive, anche di carattere penale, al fine di contrastare la diffusione di discorsi d’odio in rete. In effetti, sin dalla sentenza Gunduz c. Turchia del 2004, la Corte EDU ha sempre affermato che, alla luce del ruolo essenziale ricoperto dalla tolleranza e dal rispetto per l’uguale dignità di tutti gli esseri umani nel contesto di una società democratica e pluralistica, è chiaramente possibile che si renda necessario in talune società democratiche sanzionare, se non addirittura prevenire, qualsiasi forma espressiva che diffonda, istighi, promuova o giustifichi forme d’odio basate sull’intolleranza (§40).
Alla luce di ciò, la Corte di Strasburgo, in Sanchez c. Francia, opera un giudizio di bilanciamento (§§167 ss.) rilevando, in primo luogo, che i commenti all’origine del contenzioso costituiscono effettivamente un chiaro esempio di “hate speech” illecito, diretto esplicitamente alla comunità islamica, e che, nonostante il discorso politico debba in linea generale godere di maggiori forme di tutela alla luce dell’articolo 10 CEDU, è allo stesso tempo compito e dovere degli attori politici quello di astenersi dal promuovere contenuti d’odio ai danni di gruppi minoritari, discriminati e/o marginalizzati. Ciò, prosegue, la Corte, soprattutto all’interno di un contesto di propaganda elettorale nel corso della quale, invero, gli animi sono già di per sé proni a essere “infiammati”.
Inoltre, richiamandosi al celeberrimo precedente Delfi AS c. Estonia (2015), la Corte sottolinea come, nel contesto di Internet, ove è maggiormente elevato rispetto ai media tradizionali il rischio di diffusione di contenuti illeciti e/o dannosi (cfr. Editorial Board of Pravoye Delo e Shtekel c. Ucraina), non risulta essere in contrasto con l’articolo 10 CEDU l’opzione di imporre forme di responsabilità vicaria (anche penale) a carico dell’intermediario digitale attraverso le cui infrastrutture siano stati pubblicati contenuti illeciti, laddove tale intermediario abbia mancato di rimuovere prontamente tali contenuti (per un commento su Delfi, v. qui). Alla luce di ciò, e alla luce, anche, della rilevata esiguità della pena commisurata, la maggioranza della Grande Camera ritiene soddisfatto il requisito della necessità all’interno di una società democratica richiesto dalla Convenzione stessa.
Tali conclusioni sollevano, peraltro, alcuni interessanti spunti di riflessione.
In primo luogo, appare senz’altro curioso l’accostamento di Delfi al caso in discussione, alla luce della assai differente posizione caratterizzante le parti ricorrenti nei due giudizi. Infatti, se in Delfi la parte ricorrente, condannata al pagamento dei danni non patrimoniali causati dalla mancata rimozione in tempi brevi di contenuti d’odio, era rappresentata dall’operatore di un portale di notizie online, operante come professionista nel mercato dell’informazione, Sanchez c. Francia, come si è detto, concerne invece la responsabilità di un attore politico per la pubblicazione di contenuti terzi all’interno della sua bacheca Facebook privata. La stessa Corte EDU sottolinea come la situazione di una bacheca Facebook sia assai differente rispetto a quella di un portale di news: tuttavia, essa sembra mettere da parte piuttosto sbrigativamente tale rilievo, limitandosi a sostenere come, pur mancando il grado di professionalità nel mercato dell’informazione che caratterizzava Delfi AS, nondimeno il ricorrente in Sanchez era da considerarsi un professionista nell’ambito dell’attività politica, nonché, alla luce di alcune sue previe esperienze lavorative, soggetto avvezzo e avente un certo grado di esperienza nel contesto dei servizi digitali (§180).
In effetti, come sottolineato dai giudici stessi, non rientra nella giurisdizione della Corte la valutazione dell’opportunità della legislazione francese stessa e, in particolare, del sistema di responsabilità individuato dal menzionato articolo 93-3 della legge n. 82-652 del 1982. Ciononostante, la conclusione raggiunta dalla Corte EDU non manca di sollevare alcune perplessità. In particolare, la decisione sembra aprire alla legittimità convenzionale della previsione di forme di responsabilità, anche penale, per la pubblicazione da parte di terzi di contenuti sulle bacheche, pubbliche, di soggetti individuali, di fatto ponendo sullo stesso piano la situazione di attori economici professionali, operanti nel mercato dei servizi digitali, e quella di privati individui in possesso di profili personali su social network e social media. Sebbene, come menzionato sopra, nel caso di specie le misure dell’autorità francese siano da considerarsi proporzionate alla luce dell’attività politica del ricorrente, non possono non rilevarsi i rischi, in termini di tutela della libertà di espressione, di una simile impostazione sistematico-giuridica (sul punto, v. anche qui).
Peraltro, la parificazione, sul piano della responsabilità per contenuti di terzi, tra intermediari digitali e soggetti individuali possessori di profili sui social network sembra sollevare non pochi dubbi di coerenza sistematica tra la legislazione francese e la disciplina stabilita, in materia, prima dalla Direttiva “e-Commerce e, ora, dal Digital Services Act.
Sotto un diverso profilo, la Grande Camera, in Sanchez c. Francia, sembra confermare un trend giurisprudenziale orientato all’eccezionalità dei discorsi d’odio nel più ampio contesto del dibattito sulla moderazione dei contenuti online e sulla responsabilità degli intermediari digitali per contenuti di terzi.
Invero, se in un primo momento Delfi AS c. Estonia aveva in apparenza riservato agli Stati contraenti un amplissimo margine di discrezionalità con riferimento al contrasto a contenuti illeciti online, già la successiva sentenza MTE e Index.hu c. Ungheria era giunta a una conclusione di segno sensibilmente diverso: infatti, in tale occasione, avendo la Corte rilevato che almeno uno dei ricorrenti (MTE), in quanto associazione rappresentativa di professionisti del giornalismo, non era da considerarsi un attore economico mosso da esigenze di profitto, e avendo rilevato che i commenti terzi non erano così gravi da costituire fattispecie di “hate speech”, essa era giunta alla conclusione di ritenere violato l’articolo 10 della Convenzione. Similmente, successive decisioni quali Høiness c. Norvegia e Pihl c. Svezia, pur confermando il precedente di Delfi sotto il profilo sistematico e logico-giuridico, avevano cionondimeno raggiunto risultati simili a MTE sottolineando che, a differenza di Delfi, i commenti e contenuti di terze parti, pur costituendo diffamazione, non raggiungevano tuttavia un grado di gravità tale da farli inquadrare quali fattispecie di discorsi d’odio.
In altre parole, la giurisprudenza avviata da Delfi e dai successivi casi menzionati sembra essersi mossa nella direzione di trattare l’hate speech quale caso particolarissimo che tende a giustificare, nell’opinione della Corte, un atteggiamento più severo e restrittivo a carico degli intermediari digitali i cui servizi siano stati utilizzati da terzi per diffondere tali contenuti. Sanchez c. Francia, in tal senso, sembra confermare e, anzi, rinforzare tale carattere di eccezionalità, alla luce, del resto, proprio del rilievo che, nel caso in discussione, il ricorrente non era un professionista dell’informazione.


Il Digital Markets Act: tra logiche concorrenziali e istanze costituzionali

Il 15 dicembre 2020, la Commissione Europea ha presentato un pacchetto costituito da due proposte di regolamento volte a rendere più sicuri ed equi l’ambiente digitale e i servizi resi al suo interno. Come è noto, il pacchetto si compone della legge sui servizi digitali, c.d. Digital Services Act (DSA), e della legge sui mercati digitali, c.d. Digital Markets Act (DMA).
Se, come esplicitato dalla Commissione, il primo mira a riequilibrare «i diritti e le responsabilità degli utenti, delle piattaforme di intermediazione e delle autorità pubbliche» a fronte dei crescenti rischi che la diffusione di Internet ha prodotto a carico dei diritti fondamentali degli individui e della società in generale, il secondo «affronta le conseguenze negative derivanti da determinati comportamenti delle piattaforme che hanno assunto il ruolo di controllori dell’accesso al mercato digitale». In tal senso, i due testi sono stati redatti con il dichiarato intento di produrre un sistema regolativo che si caratterizzi per la complementarità delle sue due anime: da un lato, quella rivolta al contrasto alla commissione di condotte illecite e/o dannose attraverso l’ecosistema online, ivi inclusa la disseminazione di contenuti illegali; dall’altro lato, quella che, in un’ottica più propriamente antitrust, mira a ridurre lo strapotere economico e di mercato delle piattaforme.
Con riferimento alla seconda anima del pacchetto presentato dalla Commissione, elemento caratterizzante del DMA è la prevista introduzione, a livello normativo, di una categoria già nota da tempo in dottrina (Laidlaw), ovverosia quella dei c.d. “gatekeeper”. Tali attori rappresentano il focus specifico della proposta, in quanto ritenuti d’ostacolo alla costruzione di mercati equi e contendibili nel contesto digitale. Ai sensi dell’art. 3 DMA, la nozione di gatekeeper identifica quelle imprese che, da un lato, offrono servizi di piattaforma di base (questi ultimi individuati in numerus clausus dall’art. 2 n. 2 DMA) e, dall’altro, soddisfano tre caratteristiche: devono cioè avere un impatto significativo sul mercato interno; gestire un servizio che costituisca un punto di accesso (gateway) importante affinché gli utenti commerciali possano raggiungere gli utenti finali; e detenere una posizione consolidata e duratura, attuale o prevedibile, nell’ambito delle proprie attività.
Al fine di garantire un maggior grado di certezza in ordine al rispetto di tali requisiti (Cole), la proposta individua altresì delle specifiche soglie quantitative, superate le quali un determinato fornitore di servizi è presunto, iuris tantum, essere ascrivibile alla categoria di gatekeeper. Tali soglie, riquantificate dal Parlamento Europeo in prima lettura, fanno riferimento sia al fatturato annuo e alla capitalizzazione di mercato media sia al numero di utenti nello spazio economico europeo, siano essi finali o commerciali, che utilizzano attivamente la piattaforma. Trattandosi di presunzione iuris tantum, e non iuris et de iure, è data facoltà alla piattaforma che superi tali soglie di notificare alla Commissione le informazioni che ritenga rilevanti a provare la non applicabilità dell’art. 3.
Il riconoscimento della qualità di gatekeeper comporta, in effetti, l’attribuzione di significativi obblighi aggiuntivi, individuati dagli artt. 5 e 6. Gli obblighi contenuti nella prima norma, secondo la proposta, sarebbero da applicarsi automaticamente ai soggetti riconosciuti come gatekeeper, mentre quelli indicati dall’art. 6 richiederebbero un’ulteriore specifica da parte della Commissione Europea. In linea con la finalità propria del DMA, tali obblighi mirano per lo più a limitare gli effetti negativi che un oligopolio (se non monopolio) di mercato, detenuto da una ristretta cerchia di piattaforme, sia in grado di produrre. L’art. 5, in particolare, prevede, tra gli altri, l’obbligo per il gatekeeper di astenersi dal combinare dati personali ricavati dai diversi servizi da esso offerti, ovvero dal combinare tali dati con quelli provenienti da terzi, senza il consenso delle persone interessate; l’obbligo di consentire agli utenti commerciali di offrire e/o promuovere i propri prodotti o servizi attraverso servizi di intermediazione terzi; l’obbligo di astenersi dall’impedire agli utenti commerciali di sollevare questioni sulle pratiche dei gatekeeper innanzi le autorità nazionali competenti; l’obbligo di fornire, su richiesta, a inserzionisti ed editori cui siano erogati servizi pubblicitari le informazioni relative a prezzi, importi e remunerazione relativi ai servizi offerti.
In tal senso, è possibile individuare quattro obiettivi principali (CERRE): rimediare alla mancanza di trasparenza caratterizzante il mercato pubblicitario; limitare il fenomeno del “platform envelopment”, ovverosia la cannibalizzazione da parte delle piattaforme di mercati terzi; facilitare la mobilità di utenti commerciali e utenti finali; prevenire pratiche scorrette.
Come detto, il sistema previsto dalla proposta di DMA si inserisce all’interno di una prospettiva prevalentemente concorrenziale, soprattutto se posto a paragone con quello suggerito dal DSA. Ciononostante, la norma di diritto primario su cui esso si fonda è l’art. 115 TFUE e non, come ci si sarebbe potuti aspettare, l’art. 103 (Eifert et al.). La scelta di riferirsi alla più generale disposizione del Trattato che prevede la possibilità per l’Unione di adottare strumenti di diritto derivato volti al ravvicinamento e all’armonizzazione delle normative nazionali a tutela del mercato interno, anziché a quella più prettamente preposta a individuare la competenza della stessa in materia concorrenziale, rivela un approccio di più ampio respiro. Invero, è stato rilevato come il DMA si caratterizzi per un lato approccio sistematico di contrasto ai fallimenti di mercato e al potere eccessivo dei gatekeeper (Monti).
Posto in questa prospettiva, l’aspetto della complementarità dei due elementi del pacchetto proposto dalla Commissione, ovverosia il DSA, da un lato, e il DMA, dall’altro, emerge in modo particolarmente chiaro. Sebbene attraverso prospettive diverse, i due regolamenti proposti mirano infatti a porre in essere meccanismi di correzione del sistema costituzionale alla luce della nuova società algoritmica (Balkin). La diffusione delle tecnologie e, in particolare, di Internet, ha infatti condotto alla creazione di nuove dinamiche di potere caratteristiche dell’ecosistema digitale. Invero, a fronte della natura transnazionale e globale della rete, si sono affiancati ai tradizionali attori delle dinamiche sociali di potere, ovverosia lo Stato da un lato e l’individuo dall’altro, nuovi soggetti privati che si sono imposti quali protagonisti per eccellenza dello scenario digitale. Emblema di tale passaggio da una struttura diadica a una struttura triadica, posto in luce dalle magistrali parole di Balkin secondo il quale, in particolare, la libertà di espressione è oggigiorno un “triangolo”, è senza dubbio la creazione da parte di Meta del Facebook Oversight Board (Klonick), presentato fin dagli inizi come una supposta “Corte Suprema” dell’omonimo social network.
Lo scopo ultimo del DMA sembra inserirsi pienamente all’interno di tale discorso, in quanto supera il ricorso a una prospettiva meramente di diritto privato e commerciale, mirando più in profondità a porre dei contrappesi all’eccezionale potere delle piattaforme digitali. In questo senso, se uno degli scopi del diritto costituzionale è precisamente quello di creare un argine al potere per evitare che questo si traduca in tirannia (Celeste), allora il DMA viene ad assumere una valenza in sé stessa costituzionalistica. Ciò emerge, tra l’altro, dal frequente riferimento al Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR), e quindi al diritto alla privacy e alla protezione dei dati personali, nonché ad altri valori fondamentali e costituzionalmente rilevanti. Lo stesso considerando 78 conferma che «[n]ell’effettuare le valutazioni e i riesami delle pratiche e degli obblighi sanciti dal presente regolamento, è opportuno che la Commissione si prefigga quale obiettivo il mantenimento di un livello elevato di protezione e rispetto dei diritti e dei valori comuni dell’UE, in particolare l’uguaglianza e la non discriminazione».
In questo senso, il DMA rappresenta, all’atto pratico, un ulteriore tassello del percorso di costituzionalizzazione dell’ecosistema digitale posto in essere da parte delle istituzioni dell’Unione Europea negli ultimi dieci anni circa (De Gregorio). Invero, attraverso l’intervento attivo delle corti (ex multis: Digital Rights Ireland; Google Spain; Schrems I; Schrems II; etc.), prima, e attraverso un progressivo mutamento di indirizzo da parte della Commissione, poi, il diritto dell’Unione Europea ha abbandonato il suo iniziale approccio orientato unicamente al mercato e alle libertà economiche per concentrarsi anche sulla promozione di valori democratici e costituzionali. Nel combinare logiche di tutela della concorrenza e del mercato con l’obiettivo più generale di porre un freno all’esercizio del potere, potenzialmente abusivo, da parte di attori privati, il DMA si fa esso stesso portavoce altresì di istanze marcatamente pubblicistiche e costituzionalistiche.