Il Digital Markets Act: tra logiche concorrenziali e istanze costituzionali

Il 15 dicembre 2020, la Commissione Europea ha presentato un pacchetto costituito da due proposte di regolamento volte a rendere più sicuri ed equi l’ambiente digitale e i servizi resi al suo interno. Come è noto, il pacchetto si compone della legge sui servizi digitali, c.d. Digital Services Act (DSA), e della legge sui mercati digitali, c.d. Digital Markets Act (DMA).
Se, come esplicitato dalla Commissione, il primo mira a riequilibrare «i diritti e le responsabilità degli utenti, delle piattaforme di intermediazione e delle autorità pubbliche» a fronte dei crescenti rischi che la diffusione di Internet ha prodotto a carico dei diritti fondamentali degli individui e della società in generale, il secondo «affronta le conseguenze negative derivanti da determinati comportamenti delle piattaforme che hanno assunto il ruolo di controllori dell’accesso al mercato digitale». In tal senso, i due testi sono stati redatti con il dichiarato intento di produrre un sistema regolativo che si caratterizzi per la complementarità delle sue due anime: da un lato, quella rivolta al contrasto alla commissione di condotte illecite e/o dannose attraverso l’ecosistema online, ivi inclusa la disseminazione di contenuti illegali; dall’altro lato, quella che, in un’ottica più propriamente antitrust, mira a ridurre lo strapotere economico e di mercato delle piattaforme.
Con riferimento alla seconda anima del pacchetto presentato dalla Commissione, elemento caratterizzante del DMA è la prevista introduzione, a livello normativo, di una categoria già nota da tempo in dottrina (Laidlaw), ovverosia quella dei c.d. “gatekeeper”. Tali attori rappresentano il focus specifico della proposta, in quanto ritenuti d’ostacolo alla costruzione di mercati equi e contendibili nel contesto digitale. Ai sensi dell’art. 3 DMA, la nozione di gatekeeper identifica quelle imprese che, da un lato, offrono servizi di piattaforma di base (questi ultimi individuati in numerus clausus dall’art. 2 n. 2 DMA) e, dall’altro, soddisfano tre caratteristiche: devono cioè avere un impatto significativo sul mercato interno; gestire un servizio che costituisca un punto di accesso (gateway) importante affinché gli utenti commerciali possano raggiungere gli utenti finali; e detenere una posizione consolidata e duratura, attuale o prevedibile, nell’ambito delle proprie attività.
Al fine di garantire un maggior grado di certezza in ordine al rispetto di tali requisiti (Cole), la proposta individua altresì delle specifiche soglie quantitative, superate le quali un determinato fornitore di servizi è presunto, iuris tantum, essere ascrivibile alla categoria di gatekeeper. Tali soglie, riquantificate dal Parlamento Europeo in prima lettura, fanno riferimento sia al fatturato annuo e alla capitalizzazione di mercato media sia al numero di utenti nello spazio economico europeo, siano essi finali o commerciali, che utilizzano attivamente la piattaforma. Trattandosi di presunzione iuris tantum, e non iuris et de iure, è data facoltà alla piattaforma che superi tali soglie di notificare alla Commissione le informazioni che ritenga rilevanti a provare la non applicabilità dell’art. 3.
Il riconoscimento della qualità di gatekeeper comporta, in effetti, l’attribuzione di significativi obblighi aggiuntivi, individuati dagli artt. 5 e 6. Gli obblighi contenuti nella prima norma, secondo la proposta, sarebbero da applicarsi automaticamente ai soggetti riconosciuti come gatekeeper, mentre quelli indicati dall’art. 6 richiederebbero un’ulteriore specifica da parte della Commissione Europea. In linea con la finalità propria del DMA, tali obblighi mirano per lo più a limitare gli effetti negativi che un oligopolio (se non monopolio) di mercato, detenuto da una ristretta cerchia di piattaforme, sia in grado di produrre. L’art. 5, in particolare, prevede, tra gli altri, l’obbligo per il gatekeeper di astenersi dal combinare dati personali ricavati dai diversi servizi da esso offerti, ovvero dal combinare tali dati con quelli provenienti da terzi, senza il consenso delle persone interessate; l’obbligo di consentire agli utenti commerciali di offrire e/o promuovere i propri prodotti o servizi attraverso servizi di intermediazione terzi; l’obbligo di astenersi dall’impedire agli utenti commerciali di sollevare questioni sulle pratiche dei gatekeeper innanzi le autorità nazionali competenti; l’obbligo di fornire, su richiesta, a inserzionisti ed editori cui siano erogati servizi pubblicitari le informazioni relative a prezzi, importi e remunerazione relativi ai servizi offerti.
In tal senso, è possibile individuare quattro obiettivi principali (CERRE): rimediare alla mancanza di trasparenza caratterizzante il mercato pubblicitario; limitare il fenomeno del “platform envelopment”, ovverosia la cannibalizzazione da parte delle piattaforme di mercati terzi; facilitare la mobilità di utenti commerciali e utenti finali; prevenire pratiche scorrette.
Come detto, il sistema previsto dalla proposta di DMA si inserisce all’interno di una prospettiva prevalentemente concorrenziale, soprattutto se posto a paragone con quello suggerito dal DSA. Ciononostante, la norma di diritto primario su cui esso si fonda è l’art. 115 TFUE e non, come ci si sarebbe potuti aspettare, l’art. 103 (Eifert et al.). La scelta di riferirsi alla più generale disposizione del Trattato che prevede la possibilità per l’Unione di adottare strumenti di diritto derivato volti al ravvicinamento e all’armonizzazione delle normative nazionali a tutela del mercato interno, anziché a quella più prettamente preposta a individuare la competenza della stessa in materia concorrenziale, rivela un approccio di più ampio respiro. Invero, è stato rilevato come il DMA si caratterizzi per un lato approccio sistematico di contrasto ai fallimenti di mercato e al potere eccessivo dei gatekeeper (Monti).
Posto in questa prospettiva, l’aspetto della complementarità dei due elementi del pacchetto proposto dalla Commissione, ovverosia il DSA, da un lato, e il DMA, dall’altro, emerge in modo particolarmente chiaro. Sebbene attraverso prospettive diverse, i due regolamenti proposti mirano infatti a porre in essere meccanismi di correzione del sistema costituzionale alla luce della nuova società algoritmica (Balkin). La diffusione delle tecnologie e, in particolare, di Internet, ha infatti condotto alla creazione di nuove dinamiche di potere caratteristiche dell’ecosistema digitale. Invero, a fronte della natura transnazionale e globale della rete, si sono affiancati ai tradizionali attori delle dinamiche sociali di potere, ovverosia lo Stato da un lato e l’individuo dall’altro, nuovi soggetti privati che si sono imposti quali protagonisti per eccellenza dello scenario digitale. Emblema di tale passaggio da una struttura diadica a una struttura triadica, posto in luce dalle magistrali parole di Balkin secondo il quale, in particolare, la libertà di espressione è oggigiorno un “triangolo”, è senza dubbio la creazione da parte di Meta del Facebook Oversight Board (Klonick), presentato fin dagli inizi come una supposta “Corte Suprema” dell’omonimo social network.
Lo scopo ultimo del DMA sembra inserirsi pienamente all’interno di tale discorso, in quanto supera il ricorso a una prospettiva meramente di diritto privato e commerciale, mirando più in profondità a porre dei contrappesi all’eccezionale potere delle piattaforme digitali. In questo senso, se uno degli scopi del diritto costituzionale è precisamente quello di creare un argine al potere per evitare che questo si traduca in tirannia (Celeste), allora il DMA viene ad assumere una valenza in sé stessa costituzionalistica. Ciò emerge, tra l’altro, dal frequente riferimento al Regolamento (UE) 2016/679 (GDPR), e quindi al diritto alla privacy e alla protezione dei dati personali, nonché ad altri valori fondamentali e costituzionalmente rilevanti. Lo stesso considerando 78 conferma che «[n]ell’effettuare le valutazioni e i riesami delle pratiche e degli obblighi sanciti dal presente regolamento, è opportuno che la Commissione si prefigga quale obiettivo il mantenimento di un livello elevato di protezione e rispetto dei diritti e dei valori comuni dell’UE, in particolare l’uguaglianza e la non discriminazione».
In questo senso, il DMA rappresenta, all’atto pratico, un ulteriore tassello del percorso di costituzionalizzazione dell’ecosistema digitale posto in essere da parte delle istituzioni dell’Unione Europea negli ultimi dieci anni circa (De Gregorio). Invero, attraverso l’intervento attivo delle corti (ex multis: Digital Rights Ireland; Google Spain; Schrems I; Schrems II; etc.), prima, e attraverso un progressivo mutamento di indirizzo da parte della Commissione, poi, il diritto dell’Unione Europea ha abbandonato il suo iniziale approccio orientato unicamente al mercato e alle libertà economiche per concentrarsi anche sulla promozione di valori democratici e costituzionali. Nel combinare logiche di tutela della concorrenza e del mercato con l’obiettivo più generale di porre un freno all’esercizio del potere, potenzialmente abusivo, da parte di attori privati, il DMA si fa esso stesso portavoce altresì di istanze marcatamente pubblicistiche e costituzionalistiche.