Sul problema della praticabilità del voto da remoto in occasione delle elezioni del Presidente della Repubblica: alcune ipotesi interpretative

1.L’ipotesi di introdurre il voto da remoto al fine di assicurare la continuità dei lavori parlamentari in un contesto di emergenza sanitaria è stata prospettata in più occasioni nel corso della pandemia. In particolare, nell’ottobre del 2020, 161 deputati hanno sottoscritto la proposta di riforma del Regolamento della Camera, a prima firma dell’on. Ceccanti, la quale individuava come modello da seguire il sistema di voto “no presencial” già sperimentato in Spagna.
Peraltro, nel contenimento dei problemi procedurali derivanti dalla pandemia, i Presidenti delle Camere hanno optato fino a questo momento per una strategia diversa, basata sull’idea della insostituibilità della presenza fisica almeno in Assemblea: utilizzo delle tribune, ingresso scaglionato per fasce orarie, equiparazione dei parlamentari in isolamento a quelli in missione, partecipazione in videoconferenza alle riunioni delle commissioni in sede informale. Inoltre, con la formazione di un governo di larga coalizione nel febbraio del 2021, la questione del voto da remoto ha perso larga parte della sua rilevanza sul piano degli equilibri parlamentari, sicché del tema sembravano ormai perse le tracce da mesi.
A dare nuova linfa al dibattito sul voto da remoto ha contribuito tuttavia la nuova ondata di contagi che dal dicembre del 2021 ha investito l’Italia. In particolare, l’alto numero di parlamentari positivi o in isolamento ha fatto temere l’impossibilità di garantire l’integrità del collegio chiamato ad eleggere il Presidente della Repubblica.
Il nuovo scenario pandemico offre dunque l’opportunità di sviluppare alcune riflessioni di ordine costituzionale in merito alla praticabilità del voto a distanza, anche con riferimento alle deliberazioni del Parlamento in seduta comune.

2.L’incompatibilità della partecipazione a distanza ai lavori parlamentari con la Costituzione è stata messa in dubbio sulla base di tre argomenti principali.
In primo luogo è stato posto l’accento sulla necessità di una interpretazione strettamente letterale di alcuni concetti richiamati dalla Costituzione: non solo le locuzioni di «presente» e «presenti» contenute nell’art. 64, c. 3 Cost. (Luciani) ma anche di quelle di «seduta» (artt. 55, c. 2 e 63 Cost.) e «riunione» (artt. 61 e 62 Cost.) (Dickmann). Tutte indicazioni testuali che – secondo tale orientamento – confermerebbero la natura necessariamente fisica della presenza dei parlamentari (Calvano).
A questo argomento è tuttavia agevole replicare che, come ha chiarito la giurisprudenza costituzionale, «l’interpretazione meramente letterale delle disposizioni normative, metodo primitivo sempre, lo è ancor più se oggetto della ricostruzione ermeneutica sono le disposizioni costituzionali, che contengono norme basate su principi fondamentali indispensabili per il regolare funzionamento delle istituzioni della Repubblica democratica» [c.n.] (sent. 1/2013). Del resto, come ha osservato un maestro che certamente non può essere sospettato di simpatie nei confronti di disinvolte forme di interpretazione creativa, la deferenza che si deve al testo non comporta affatto una cristallizzazione delle nozioni tecniche presupposte dalla Costituzione, ma impone all’interprete di tenere conto della evoluzione del contesto tecnologico di riferimento (Pace). L’impraticabilità di letture “originaliste” in presenza del superamento delle nozioni tecnologiche richiamate dal dato normativo appare altresì confermata dalla giurisprudenza costituzionale (sent. 135/2002).
Una seconda strategia argomentativa ha cercato invece di sbarrare la strada al voto da remoto facendo appello all’original intent delle norme costituzionali. Secondo questa linea di ragionamento, già all’epoca dell’Assemblea costituente esistevano strumenti cartacei (poste e telegrammi) oppure telefonici in grado di integrare il voto parlamentare in presenza. Data l’esistenza di queste tecnologie, il riferimento contenuto nell’art. 64, c. 3 Cost. ai concetti di «presente» e «presenti» starebbe così a manifestare una chiara ed inequivoca volontà dei costituenti di «mantenere salda l’immagine centenaria dell’Aula come luogo fisico della discussione e della deliberazione» (Malaschini).
Tale lettura sembra peraltro andare incontro ad obiezioni insuperabili. Davvero nel corso dei lavori preparatori i costituenti avrebbero seriamente preso in considerazione (e poi scartato) l’ipotesi di affiancare alle deliberazioni parlamentari in presenza apposite forme di votazioni telefoniche, postali o per telegramma? Ma anche ad ammettere che ciò sia effettivamente successo, l’incompatibilità di queste modalità di votazione con l’original intent della Costituzione difficilmente può finire per estendersi al voto telematico da remoto: a differenza di quest’ultimo formato di deliberazione, infatti, il voto per posta o per telegramma non appare in grado di garantire la simultaneità rispetto al voto dell’aula, mentre quello telefonico risulta comunque inapplicabile nelle votazioni segrete (le quali, fino al 1988, costituivano la regola).
Un terzo argomento fa infine leva su una lettura ultra-riduttiva della sent. n. 78 del 1984 Corte cost. Come è noto, con tale pronuncia la Corte costituzionale, in materia di computo delle astensioni, ha riconosciuto ai regolamenti parlamentari la possibilità di integrare i margini ampi lasciati dall’art. 64 Cost., anche eventualmente attraverso soluzioni difformi fra loro. Ebbene, con una sorta di narrow – per usare una terminologia cara al common lawyer anglosassone – alcuni autori hanno cercato di restringere la portata di tale precedente giurisprudenziale, il quale a loro avviso si riferirebbe esclusivamente all’inciso dell’art. 64, c. 3 che disciplina il c.d. quorum funzionale («la maggioranza dei presenti») e non anche al quorum strutturale («presente la maggioranza dei loro componenti») (Lippolis).
Peraltro, a togliere pregio a questo argomento è sufficiente il decisivo rilievo che la capacità “integrativa” della Costituzione riconosciuta dalla giurisprudenza della Corte alle fonti di diritto parlamentare (e in particolare ai Regolamenti delle Camere) non coinvolge un singolo segmento del terzo comma dell’art. 64 Cost. E neppure sembra investire il solo terzo comma. Riguarda invece l’intero complesso delle norme costituzionali sull’iter legis. Ma c’è di più. La sentenza n. 78 del 1984 Corte cost. va collocata in un quadro giurisprudenziale molto più ampio, nel quale la speciale capacità delle fonti di diritto parlamentare di riempire – per usare una immagine di Santi Romano – le “pagine bianche” della Costituzione finisce per interessare non solo il procedimento legislativo ma anche agli altri procedimenti parlamentari non legislativi, a partire da quelli sul rapporto fiduciario. Emblematica – da questo punto di vista – appare la sentenza sul caso Mancuso relativa all’istituto della sfiducia individuale, non espressamente previsto in Costituzione.

3.Da qui ad ammettere una indiscriminata apertura all’uso delle tecnologie delle comunicazioni a distanza nell’ambito del processo di decisione parlamentare il passo appare tuttavia decisamente troppo breve. Come è stato osservato, infatti, la democrazia rappresentativa si alimenta di prestazioni simboliche non facilmente surrogabili attraverso il ricorso a strumenti tecnologici, sicché il tradizionale formato in presenza dei lavori parlamentari rimane per molti aspetti fondamentale (Lippolis). È questo uno degli aspetti, per così, “identitari” di una istituzione complessa e plurale come il Parlamento, la quale deriva la propria “forza” e legittimazione anche dalla capacità di riunire fisicamente nello stesso luogo rappresentanti di opposto orientamento politico e culturale eletti in diverse aree geografiche del paese (Manzella, Lupo). Se è vero dunque che il formato in presenza dei lavori parlamentari costituisce un indubbio fattore di legittimazione dell’istituzione Parlamento ed un indice della sua capacità integratrice, le deroghe a tale modalità di lavoro dovrebbero allora risultare “chirurgiche”, proporzionate nonché giustificabili nel quadro di un adeguato bilanciamento con altre esigenze di ordine costituzionale (Ibrido).
Giustificabile risulta – almeno in un contesto di emergenza sanitaria – l’applicazione del voto da remoto con riferimento a tutte le votazioni deliberative per le quali la Costituzione prevede quorum qualificati. In effetti, mentre l’eventuale condizione di isolamento del parlamentare che avrebbe comunque espresso voto contrario non incide sulle possibilità di reiezione della proposta, l’assenza di un parlamentare che avrebbe votato a favore determina una sovra-rappresentazione del tutto casuale delle minoranze difficilmente compatibile con il principio democratico. Analoghe considerazioni possono estendersi alle votazioni di carattere elettivo, fra le quali quella prevista dall’art. 83 Cost.
Più in generale, il sistema del voto da remoto non sembra porre eccessivi problemi in relazione alle deliberazioni che per loro natura sono insuscettibili di interventi modificativi e probabilmente anche nell’ambito di quelle tecniche di votazione in grado di amplificare gli effetti della preclusione e dell’assorbimento. Per queste tipologie di deliberazioni, infatti, la deroga alle normali dinamiche della democrazia rappresentativa derivante dall’applicazione della logica binaria del “tutto o niente” non discende dal formato tecnologico di votazione.
Un supplemento di riflessione meriterebbe invece la questione della deliberazione telematica di un numero più consistente di emendamenti, posti in votazione secondo il loro ordine normale. Fra l’altro, tale sistema, almeno al momento, potrebbe risultare eccessivamente farraginoso nella sua concreta applicazione. Non è comunque questo il caso della elezione del Presidente della Repubblica.
E tuttavia, il tempo per una riforma del Regolamento della Camera prima della riunione del Parlamento in seduta comune sembrerebbe ormai “scaduto”. Certo, la storia Parlamento italiano ci ha abituato alla proliferazione di strumenti di diritto parlamentare informale adottati in tempi rapidissimi in sostanziale elusione dell’iter di revisione regolamentare. Nel caso di un processo elettorale così importante e delicato come quello riguardante il Capo dello stato sarebbe tuttavia davvero fuori luogo soltanto ipotizzare di intervenire sulle regole del collegio di elezione del Presidente della Repubblica mediante un parere sperimentale della Giunta per il regolamento della Camera.
Una strada alternativa potrebbe essere rappresentata dall’applicazione dell’art. 65 del Regolamento del Senato, il quale prevede la facoltà delle Camere riunite di «stabilire norme diverse» rispetto a quelle contenute nel Regolamento della Camera. Tuttavia, anche in questo caso, in assenza di un largo consenso politico oltreché di una preventiva istruttoria tecnica sulla fattibilità del voto da remoto – condizioni al momento entrambe assenti – un intervento sulle “regole del gioco” sembrerebbe rappresentare una ipotesi implausibile. Fra gli inconvenienti che essa determinerebbe ci limitiamo a segnalarne due.
In primo luogo, a votare le nuove regole sarebbe comunque un collegio privo dei parlamentari impossibilitati a partecipare in presenza per ragioni legate al Covid, mentre appare molto dubbia l’ipotesi di coinvolgere i delegati regionali, i quali a nostro avviso non sembrerebbero legittimati a prendere parte alla deliberazione.
In secondo luogo, tale intervento comporterebbe una notevole dilatazione del “calendario” di elezione del Capo dello stato, con il rischio concreto di “scavallare” la fine del settennato del Presidente uscente, con conseguente incertezza, fra l’altro, sull’applicabilità degli istituti della prorogatio (a favore Elia e Luciani) oppure della supplenza (secondo l’impostazione di Mortati).
In definitiva, come spesso accade nel nostro paese, i “compiti” andavano fatti prima. A questo punto tocca alle forze politiche risolvere il problema che esse stesse hanno contribuito a determinare con la loro inerzia, senza poter contare su aiuti o “scorciatoie” di carattere procedurale. Chissà peraltro che proprio queste difficoltà non finiscano per trasformarsi in una opportunità, ponendo le premesse per una larga convergenza, fin dai primi tre scrutini, su una figura di alto profilo.


«Andreotti, ilumínanos». La Spagna verso le elezioni del 10-N

Per la seconda volta nella storia della Democracia spagnola, una legislatura interrompe il proprio cammino senza essere riuscita a dare vita ad un esecutivo. La mancata investitura di un Presidente del Governo nei due mesi che hanno fatto seguito al rigetto della candidatura di Pedro Sánchez ha determinato infatti l’attivazione della “ghigliottina” contenuta nell’art. 99, c. 5 della Costituzione e la convocazione di nuove elezioni per il prossimo 10 novembre.
Il fallimento della XIII legislatura deve essere peraltro analizzato all’interno di un quadro di trasformazioni più ampio, segnato dalla transizione dal tradizionale bipartitismo ad un incerto multipolarismo la cui unica cifra di lettura per il momento sembrerebbe essere il caos.
Si tenga conto che dalla seconda alla decima legislatura, il funzionamento del parlamentarismo spagnolo aveva segnalato l’alternarsi di due sole possibili formule di governo: esecutivi espressione del partito di maggioranza assoluta al Congresso (Felipe Gonzáles tra il 1982 ed il 1993; José María Aznar tra il 2000 ed il 2004; Mariano Rajoy tra il 2011 ed il 2015) e Governi, anche in questo caso “monocolore”, i quali collaboravano in sede parlamentare con forze politiche minori (Felipe Gonzáles tra 1993 ed il 2006; José María Aznar tra il 1996 ed il 2000; Luis Rodriguez Zapatero tra il 2004 ed il 2011). Questo rassicurante assetto politico-istituzionale – che per anni ha indotto la dottrina italiana ad individuare nella Spagna un «modello di successo» – è stato tuttavia messo duramente alla prova dalle ultime tre tornate elettorali. Queste ultime hanno registrato un sensibile arretramento dei due partiti tradizionalmente egemoni (popolari e socialisti) e l’emergere di due nuove forze politiche (Ciudadanos, Podemos), alle quali dal 2019 si è aggiunta anche Vox.
Dopo le elezioni del 20 dicembre 2015 ed il doppio rigetto dell’investitura di un Governo Sánchez sostenuto dal PSOE e da Ciudadanos è stato per la prima volta attivato lo scioglimento automatico previsto dall’art. 99, c. 5 della Costituzione. Successivamente alle elezioni del 26 giugno 2016, un secondo scioglimento automatico è stato evitato in extremis grazie all’astensione dei socialisti all’investitura del popolare Mariano Rajoy. Il fragile governo di minoranza di Rajoy – grazie anche ad un inedito intervento della Corona su una questione politicamente divisiva – ha avuto tuttavia la forza di impedire la “desconexión catalana”. Dopo il referendum del 1° ottobre 2017 dichiarato illegale dal Tribunale costituzionale, il Senato ha infatti autorizzato il Governo Rajoy a procedere al “commissariamento” della Generalitat ai sensi dell’art. 155 della Costituzione.
Peraltro, anche sfruttando il clamore mediatico di alcuni scandali giudiziari, il 1° giugno 2018, il Congresso dei deputati ha approvato la mozione di censura costruttiva presentata dal PSOE, sancendo l’avvicendamento fra Rajoy e Sánchez. Sulla carta, l’introduzione della moción de censura constructiva nella Costituzione del 1978 avrebbe dovuto consentire all’ordinamento spagnolo di raggiungere quello che nella classificazione di Lauvaux era considerato come il terzo, e dunque più avanzato, grado della razionalizzazione: l’adozione di istituti che subordinano la sostituzione del Governo in carica alla preventiva costruzione di una maggioranza positiva. Peraltro, in questo unico caso di approvazione in Spagna di una mozione di censura costruttiva è avvenuto esattamente il contrario: le forze politiche che hanno votato contro Rajoy non sono entrate a far parte di alcuna organica maggioranza parlamentare. In particolare i partiti indipendentisti catalani, ago della bilancia al Congresso, si sono limitati ad un atto di ritorsione politica (se non addirittura personale) contro il Presidente del Governo che aveva attivato l’art. 155 della Costituzione. Alla caduta di Rajoy non ha però fatto seguito alcuna “promozione” di Sánchez al rango di alleato. La decisione dei partiti catalani di non votare la legge di bilancio presentata dal nuovo Governo ha così innescato la crisi che ha portato il Presidente del Governo a ricorrere allo strumento dello scioglimento anticipato. Le successive elezioni del 28 aprile 2019 hanno segnato un significativo avanzamento del PSOE, il quale tuttavia non è riuscito a dare vita ad un esecutivo per l’indisponibilità di Podemos ad assicurare l’appoggio ad un governo privo di una propria delegazione di ministri.
Il percorso di avvicinamento alle elezioni del prossimo 10 novembre è stato peraltro duramente turbato dai gravi disordini provocati a Barcellona dai sostenitori dell’indipendentismo successivamente alla sentenza con la quale il Tribunale supremo ha condannato gli organizzatori del referendum catalano. Tali eventi hanno condotto il Governo “en funciones” di Sánchez ad interrompere qualsiasi dialogo istituzionale con la presidenza della Generalitat, accusata di non aver condannato apertamente le violenze. Per contro, da parte della Comunità catalana non sono mancate gravi accuse verso le istituzioni giudiziarie e di garanzia, incluso il Tribunale costituzionale. Sul punto occorre peraltro mettere in guardia da letture affrettate della giurisprudenza costituzionale spagnola relativa al tema catalano. Infatti, la Corte spagnola non ha mai escluso la possibilità di un distacco della Catalogna dalla Spagna, richiedendo tuttavia il rispetto delle procedure di revisione costituzionale per la convocazione di un referendum sull’indipendenza. A ben riflettere, un tale approdo interpretativo appare decisamente più “progressista” rispetto a quello che emerge dalla giurisprudenza costituzionale italiana, la quale tende ad inquadrare l’indivisibilità della Repubblica fra i principi supremi dell’ordinamento non soggetti a revisione costituzionale. Anche per il Tribunale costituzionale spagnolo vi è tuttavia almeno un principio il quale non appare negoziabile, se non altro perché su di esso è stata fondata l’intera Transizione dal franchismo alla Democrazia. Un principio che si riassume nelle parole del maestro politico di Adolfo Suárez, Torcuato Fernández-Miranda: «de la ley a la ley a través de la ley».
Le elezioni del prossimo 10 novembre ci diranno in quale direzione andrà la Spagna, sia in relazione ai rapporti con la Catalogna, sia con riferimento all’emergere di nuove formule di governo a livello nazionale. Certamente, le vicende che fin qui hanno accompagnato il superamento del bipartitismo spagnolo hanno evidenziato l’incapacità dei partiti, vecchi e nuovi, di adeguare atteggiamenti e modalità operative rispetto ad un sistema politico-istituzionale che richiedeva maggiore flessibilità e capacità di mediazione. Un cambio di cultura che non sarà tuttavia possibile fino a quando i partiti spagnoli non riconosceranno i propri avversari politici come legittimi interlocutori istituzionali.
In un brillante editoriale pubblicato all’indomani delle elezioni del 20 dicembre 2015, El Pais titolava «Andreotti, ilumínanos. La rigidez y el dogmatismo de los partidos demuestra que tenemos un parlamento italiano en el número de partidos, pero no en la flexibilidad negociadora». Le inquietudini della Spagna dell’era del multipolarismo politico sembrano essere tutte in questo titolo quasi rassegnato.


“Il meglio deve ancora venire”. La sentenza sull’autodichia e la “dissenting opinion” del giudice Amato

Con la recente sentenza n. 262 del 2017 – adottata in sede di conflitto di attribuzione fra poteri – la Corte costituzionale è tornata sul tema dell’autodichia, già oggetto delle sentenze n. 154 del 1985 e 120 del 2014.
Nei primi commenti, la decisione della Corte è stata interpretata in una ottica di sostanziale continuità rispetto alla precedente giurisprudenza costituzionale (cfr. R. Dickmann, La Corte costituzionale consolida l’autodichia degli organi costituzionali, in Federalismi, 2017; N. Lupo, Sull’autodichia la Corte Costituzionale, dopo lunga attesa, opta per la continuità, in Forum Quad. cost., 2017). Si tratta di una possibile – e in larga parte condivisibile – lettura della sentenza n. 262 che la stessa Corte costituzionale aveva peraltro cercato di “smorzare” fin dal giorno del deposito, dando diffusione ad un comunicato stampa dal titolo “Autodichia. I paletti della Corte costituzionale” (https://www.cortecostituzionale.it/documenti/comunicatistampa/CC_CS_20171213125140.pdf).
Già questa sfumatura fra la lettura della pronuncia “suggerita” dal comunicato stampa della Corte e i toni dei titoli apparsi nelle note di commento alla sentenza consente di introdurre un primo rilevante elemento di riflessione. Tutta la vicenda che ha accompagnato e seguito la decisione sull’autodichia segnala un significativo mutamento nello stile comunicativo della Corte e dei suoi giudici e in particolare un uso “tattico” del potere esternatorio. Una tendenza che, non a caso, sembra maturare in un contesto attraversato da forti venti di “anti-politica”, i quali rischiano talvolta di trovare una sponda, sia pure involontariamente, nella stessa Corte.
Per comprendere il sofferto itinerario di questo conflitto interoganico – il quale ha avuto il suo apogeo nella decisione del giudice relatore (Amato) di lasciare ad un altro componente della Corte (Zanon) l’onere di redigere la sentenza – è tuttavia necessario fare un passo indietro.
Il 19 giugno 2017, in occasione della presentazione presso la sala Zuccari del Senato del Quaderno 2015-2016 del Filangieri (V. Lippolis – N. Lupo (cur.), Il Parlamento dopo il referendum costituzionale, Napoli, Jovene, 2017), Giuliano Amato aveva avuto modo di intervenire sulla questione dell’autodichia, della quale era, come detto, relatore nell’ambito del conflitto poi risolto dalla sentenza n. 262.
Si tratta – riporto integralmente le parole del giudice costituzionale – di «un tema delicato e difficile nel quale si intravede lo schema già utilizzato dalla Corte per limmunità parlamentare, che viene riconosciuta laddove si coglie un nesso funzionale evidente con le funzioni primarie delle Camere coperte dallautonomia e non invece laddove questo nesso non è altrettanto diretto» (per il video del seminario, cfr. http://www.radioradicale.it/scheda/512121/il-parlamento-dopo-il-referendum-costituzionale, in particolare i minuti 29-32).
Nel proseguo dell’intervento, il giudice Amato non aveva nascosto le implicazioni di questo conflitto rispetto alla tenuta degli istituti di giustizia domestica degli altri organi costituzionali, incluso il sistema di autodichia della stessa Corte costituzionale. La Consulta – sottolineava Amato – «dovrà trattare sé stessa esattamente come gli altri organi costituzionali».
Infine, il giudice Amato auspicava una tempestiva iniziativa delle Camere sul tema della giustizia domestica allo scopo di evitare l’intervento della Corte, da considerarsi quale «extrema ratio». Evidentemente, Amato non si era spinto fino al punto di tratteggiare i possibili contenuti di tale riforma. È tuttavia senz’altro significativa la posizione favorevole al superamento dello status quo espressa pubblicamente dal giudice relatore. Un “endorsment” che del resto appariva coerente con il monito implicito contenuto nella sentenza redatta dallo stesso Amato nel 2014, nella quale la Corte – facendo ricorso all’argomento comparativo – aveva rilevato che «negli ordinamenti costituzionali a noi più vicini, come Francia, Germania, Regno Unito e Spagna, l’autodichia sui rapporti con i dipendenti e sui rapporti con i terzi non è più prevista» (considerato in diritto 4.4., sent. n. 120 del 2014 Corte cost.).
La distanza fra questa impostazione e quella accolta dalla sent. n. 262 – oltre a confermare le divisioni all’interno del collegio – spiega le ragioni della mancata coincidenza fra giudice redattore e giudice relatore.
La sentenza n. 262 ha infatti riconosciuto alle Camere il potere di decidere, tramite gli organi di autodichia, le controversie di lavoro dei propri dipendenti. Secondo la Corte, l’autonomia normativa del Parlamento appare investire anche i profili organizzativi, inclusi gli aspetti relativi al funzionamento degli apparati serventi. Peraltro – e sembrerebbe essere questo l’unico vero “paletto” tracciato dalla Corte – «l’autonomia normativa qui in questione ha un fondamento che ne rappresenta anche il confine: giacché, se è consentito agli organi costituzionali disciplinare il rapporto di lavoro con i propri dipendenti, non spetta invece loro, in via di principio, ricorrere alla propria potestà normativa, né per disciplinare rapporti giuridici con soggetti terzi, né per riservare agli organi di autodichia la decisione di eventuali controversie che ne coinvolgano le situazioni soggettive (si pensi, ad esempio, alle controversie relative ad appalti e forniture di servizi prestati a favore delle amministrazioni degli organi costituzionali)».
Chi scrive non concorda né con il “lodo Zanon” accolto dalla Corte né con l’assimilazione dell’autodichia a ipotesi di applicazione dell’istituto immunitario in assenza di nesso funzionale. Entrambe le impostazioni – sebbene giungendo a conclusioni opposte circa la compatibilità dell’autodichia con la Costituzione – sembrano infatti trascurare il nodo della fonte chiamata a dare copertura e a regolare il sistema di giustizia domestica delle Camere. Se l’art. 111, c. 1 Cost. stabilisce che «la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge», e se il concetto di “riserva di legge” coincide sostanzialmente con quello di “riserva di fonte sindacabile dalla Corte costituzionale” – come autorevolmente affermato in dottrina (S. Fois, Norme anteriori e riserva di legge, in Giur. cost., 1968, 1071 ss.) – l’autodichia non può allora essere disciplinata dai Regolamenti minori secondari, ossia da fonte insindacabile. Tutt’al più può ipotizzarsi una copertura dell’autodichia delle Camere in una norma di legge e l’implementazione della disciplina relativa ai procedimenti di giustizia domestica nei Regolamenti minori. In quest’ultimo caso, un sindacato “indiretto” della Corte sulle norme processuali contenute nei Regolamenti minori sarebbe comunque possibile attraverso la dichiarazione di incostituzionalità della legge ordinaria nella parte in cui non subordina l’abilitazione normativa in favore dei Regolamenti minori al rispetto di principi processuali inderogabili.
Nel commentare la storica sentenza n. 154 del 1985, Giuseppe Floridia aveva pronosticato un “finale di partita” per la questione dell’autodichia (G.G. Floridia, “Finale di partita”, in Diritto processuale amministrativo, 2, 1986, 270 ss.). A dire il vero, neppure la sentenza n. 262 del 2017 può essere considerata come la tappa conclusiva di questo filone giurisprudenziale. Al contrario, mi vado convincendo, per prendere in prestito il titolo di un noto brano musicale, che il meglio debba ancora venire. Il sistema di giustizia domestico della Corte costituzionale – il quale prevede, sia pure in seconda battuta, il coinvolgimento della Corte in composizione ordinaria, e dunque anche dei membri dell’Ufficio di presidenza – appare in frontale contrasto con i principi enunciati dalla Corte EDU nella sentenza Savino. Questi ultimi sono stati infatti recepiti dalla Camera dei deputati ma non ancora dalla Corte costituzionale (si perdoni il rinvio a R. Ibrido, In direzione ostinata e contraria. La risposta della Corte alla dottrina della sindacabilità dei regolamenti parlamentari, in Rivista AIC, 2014, spec. 15). Se così stanno le cose – a seguito di un ipotetico ricorso di un dipendente della Corte costituzionale – sarebbe altamente probabile la condanna dell’Italia per violazione dell’art. 6 della Convenzione. Ecco dunque un possibile e certamente non auspicabile “finale di partita”, il quale se da un lato getta un’ombra sul sistema di giustizia domestica della Corte, e quindi sulla stessa “credibilità” della sentenza n. 262 del 2017, dall’altro non esime il Parlamento dal fare la propria parte. Da qui, in particolare, la necessità di ripensare il modello di autodichia delle Camere alla luce della “riserva di fonte sindacabile” contenuta nell’art. 111, c. 1 Cost.


Custode della costituzione economica o reggitore dell’Unione nelle crisi del sistema? La ricostruzione del ruolo della BCE in un recente volume di Francesco Morosini

Il recente volume di Francesco Morosini “Banche centrali e questione democratica. Il caso della Banca centrale europea (BCE)” (Pisa, Edizioni ETS, 2014) interviene su un tema – quello del rapporto tra democrazia e governo della moneta – di importanza fondamentale. Lo conferma da ultimo, la recente decisione del 16 giugno 2015, con la quale la Corte di giustizia ha considerato il programma OMT compatibile con il divieto di finanziamento monetario degli stati membri e in ogni caso non eccedente le attribuzioni della BCE.

La ricerca dell’Autore muove dalla premessa che il principio democratico non possa trovare realizzazione in uno schema fisso e immutabile, tanto più in una realtà quale quella dell’Unione europea definita da Morosini come «Costituzione senza stato» (pag. 99). Ciò conduce l’Autore a rinunciare in partenza all’idea che la democrazia sia riducibile a un suo tipo astratto e predeterminato, così come a un modello costruito induttivamente sulla base dell’esperienza storica.

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“In nome del popolo spagnolo”. Il Tribunale costituzionale e la Dichiarazione di sovranità del Parlamento catalano

Il 25 marzo 2014, il Tribunal Constitucional, con voto unanime, ha accolto parzialmente il ricorso del Governo spagnolo contro la “Declaración de soberanía y del derecho a decidir del pueblo de Cataluña” adottata dal Parlamento della Generalitat con la Risoluzione 5/X del 23 gennaio 2013.

Con questa risoluzione i partiti nazionalisti catalani intendevano avviare, seppure con un atto giuridicamente non vincolante, un processo che doveva condurre, in prospettiva, alla convocazione di un referendum sull’indipendenza.

La sentenza del Tribunale costituzionale si snoda in tre passaggi fondamentali: l’ammissibilità del ricorso alla luce della natura giuridica oppure politica della Risoluzione del Parlamento della Generalitat; la compatibilità con la Costituzione del riconoscimento al popolo catalano dello status di soggetto sovrano; la costituzionalità del “diritto a decidere” della Catalogna.

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Pluralismo disciplinare e comparazione nella ricostruzione del dato positivo. La Corte suprema messicana dinnanzi al problema del matrimonio homosexual

Il ricorso al pluralismo disciplinare nell’argomentazione e nella decisione delle controversie costituzionali in materia di matrimonio homosexual costituisce un punto di osservazione privilegiato per indagare in quale misura le ragioni di ordine storico-culturale e valutativo costituiscano una sfida ricorrente per il giurista.

Come infatti è stato autorevolmente osservato, l’uso di approcci disciplinari diversi (la storia, la sociologia, la filosofia, l’antropologia culturale, etc.), non resta mai fine a se stesso, ma sondando il retroterra culturale del discorso giuridico consente di far emergere dietro la facciata della positività del diritto quegli strati storici ed antropologici che appaiono indispensabili ad una corretta comprensione della positività stessa. Ciò appare tanto più essenziale se l’interdisciplinarietà è accompagnata dal metodo comparativo, in quanto è proprio il pluralismo disciplinare a collocare la comparazione sul terreno ermeneutico, contribuendo all’attivazione di processi di precomprensione idonei a proiettare nel lavoro del giurista la relazione dialettica con l’“alterità”.

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È arrivato Godot. A proposito della recente sentenza sullo Statuto catalano

Con una sentenza di ottocentottantuno pagine, il 28 giugno scorso il Tribunale costituzionale si è pronunciato sul ricorso d’incostituzionalità promosso contro la Legge organica 19 luglio 2006, n. 6 contenente il nuovo Statuto di autonomia della Catalogna.

La decisione del Tribunale costituzionale (STC 31/2010) è arrivata al termine di un lunghissimo e tormentato iter processuale nel quale non sono mancati forti momenti di tensione, come testimoniano le polemiche suscitate dalla ricusazione del giudice Pérez Tremps. Dichiarando l’incostituzionalità di quattordici disposizioni e ricorrendo in maniera assai generosa alla tecnica dell’interpretazione conforme, il Tribunale costituzionale ha inciso profondamente su alcuni punti dello Statuto catalano, anche se non sono mancate fra i primi commenti opinioni che hanno inteso porre maggiormente l’accento sul rigetto delle censure mosse dal gruppo parlamentare del Partito Popolare a centoquattordici articoli dell’EAC (F. BALAGUER CALLEJÓN).

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Dopo il crocifisso, la Corte di Strasburgo apre un nuovo fronte in materia di fecondazione eterologa. Quale futuro per la legge 40?

Il tema della procreazione medicalmente assistita, disciplinato in Italia dalla legge n. 40 del 2004, è tornato prepotentemente alla ribalta a seguito di una sentenza dello scorso aprile, con la quale la Corte europea dei diritti dell’uomo (sent. 57813/00) ha condannato lo Stato austriaco per il divieto assoluto di fecondazione eterologa previsto dalla propria legislazione.
La pronuncia rischia di avere pesanti ripercussioni anche sul nostro paese, incoraggiando la presentazione di una considerevole mole di ricorsi vertenti sull’art. 4, comma 3 della legge 40 del 2004, disposizione che preclude in modo assoluto l’intervento di un donatore esterno alla coppia coniugata o convivente.

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