Custode della costituzione economica o reggitore dell’Unione nelle crisi del sistema? La ricostruzione del ruolo della BCE in un recente volume di Francesco Morosini
Il recente volume di Francesco Morosini “Banche centrali e questione democratica. Il caso della Banca centrale europea (BCE)” (Pisa, Edizioni ETS, 2014) interviene su un tema – quello del rapporto tra democrazia e governo della moneta – di importanza fondamentale. Lo conferma da ultimo, la recente decisione del 16 giugno 2015, con la quale la Corte di giustizia ha considerato il programma OMT compatibile con il divieto di finanziamento monetario degli stati membri e in ogni caso non eccedente le attribuzioni della BCE.
La ricerca dell’Autore muove dalla premessa che il principio democratico non possa trovare realizzazione in uno schema fisso e immutabile, tanto più in una realtà quale quella dell’Unione europea definita da Morosini come «Costituzione senza stato» (pag. 99). Ciò conduce l’Autore a rinunciare in partenza all’idea che la democrazia sia riducibile a un suo tipo astratto e predeterminato, così come a un modello costruito induttivamente sulla base dell’esperienza storica.
In secondo luogo, il valore della stabilità monetaria (e la conseguente lotta all’inflazione e alla deflazione) è assunto a fulcro della “costituzione economica” europea, e più precisamente a strumento indiretto ma essenziale di tutela di alcune fondamentali libertà economiche, in primis l’equità fiscale e la proprietà. Questo meta-valore della credibilità della moneta non solo avrebbe reso necessario l’esclusione della BCE dai «vincoli del “gioco ordinario” della politica democratica» (pag. 163), ma avrebbe altresì comportato l’attribuzione alla Banca centrale europea di un ruolo di «“Custode della costituzione economica”» (pag. 27). Sviluppando un parallelismo fra corti costituzionali e BCE, Morosini giunge così a individuare nella indipendenza della Banca centrale europeo uno strumento counter-majoritarian volto a presidiare le libertà economiche rispetto al pericolo della mercificazione del consenso e più in generale dall’azione degli organi rappresentativi e delle occasionali maggioranze elettorali.
È sulla base di queste due coordinate teoriche (relatività storica del principio democratico e esistenza di organi contro-maggioritari posti a tutela di valori sovraordinati alla volontà del demos) che è possibile secondo Morosini istituire una magistratura monetaria autonoma senza negare la democrazia. Diversamente ragionando, lo stato costituzionale rimarrebbe ostaggio dell’inevitabile «cortocircuito inflazionistico/populista tra domanda di consenso» per il voto popolare e «offerta politica di moneta facile per conseguirlo» (pag. 31).
Peraltro, l’accostamento fra Banca centrale europea e corti costituzionali non escluderebbe affatto la natura politica della BCE. In effetti, la politicità – lo si chiarisce più volte nel corso della trattazione – costituisce un carattere indefettibile di qualunque azione umana che abbia a oggetto, anche indirettamente, un sistema di valori. Riprendendo così un tornante di ricerca già sviluppato dal funzionalismo sociologico di Luhman e Teubner, Morosini sottolinea come sia «impossibile ridurre la politica monetaria a pure procedura decisionale neutra nei valori», sicché la neutralità può essere tale, in questo ambito, «solo in senso lato: cioè come indipendenza dal circuito politico/rappresentativo» (pag. 42).
In questa cornice, l’Autore rintraccia nella indipendenza della BCE e nel suo ruolo di guida dell’indirizzo politico-monetario non già una deroga al principio della separazione dei poteri, ma semmai una sua rivisitazione. Anzi, secondo Morosini è significativo che l’indipendenza della BCE, con il suo solido ancoraggio nei Trattati, sia stato oggetto di un processo di costituzionalizzazione assai più completo rispetto a quello delle banche centrali nazionali, le quali, Bundesbank compresa, godono generalmente di uno “scudo” giuridico di ordine meramente legislativo.
Al pari di Mario Bertolissi, autore della prefazione al volume, «la mia ultima preoccupazione è quella di far sapere se concordo o no con l’articolazione e le conclusioni dell’ampio saggio di Francesco Morosini» (pag. 13). La mia recensione vuole essere piuttosto un invito alla lettura di questo studio dal profilo colto e aperto all’interdisciplinarietà, il quale, con una accentuata sensibilità storica, tocca alcuni nodi di cruciale importanza nella riflessione sulle implicazioni costituzionali del dilemma democratico della politica monetaria. Ne ricordo soltanto alcuni fra i principali: il problema del rapporto tra tecnica e politica, il ruolo delle assemblee rappresentative dinanzi a decisioni di politica monetaria che divengono decisioni di politica generale, i confini della indipendenza degli istituti centrali, la crisi del principio di tipicità delle fonti e degli atti amministrativi con valenza regolatoria.
Mi siano tuttavia consentite alcune osservazioni di carattere sparso.
Come è stato osservato da autorevole dottrina politologica, nell’Unione europea non esiste una unica istituzione, unitaria e onnicomprensiva, che possa essere descritta nei termini di “Governo europeo” (Magnette, Curtin). Il potere esecutivo della UE è invece un potere “frammentato”, ossia formato da istituzioni sovrannazionali (la Commissione, le agenzie), da istituzioni composte dai governi degli stati membri (Consiglio europeo e Consiglio) nonché da una galassia di comitati e gruppi di lavori operanti a livello settoriale. Se così stanno le cose, vi è da chiedersi allora se alla BCE possa essere davvero riconosciuta una funzione di garanzia costituzionale nei termini proposti da Morosini, oppure se questa «banca centrale imperfetta» (Merusi) non debba essere considerata piuttosto come una parte integrante dell’“esecutivo europeo frammentato”.
A favore di quest’ultima soluzione potrebbero deporre diversi elementi, che purtroppo non è possibile ricostruire analiticamente in questa sede. Mi limito a osservare, provocatoriamente, che proprio il programma di acquisto di titoli di stato sui mercati secondari e le politiche monetarie non convenzionali hanno segnalato, da parte della BCE, una Selbstverständnis, una autocomprensione del proprio ruolo non già nella veste di “custode della costituzione” (economica) quanto semmai in quella di “reggitore dell’Unione nelle fasi di crisi del sistema”.
La seconda considerazione attiene al c.d. “dialogo monetario”, un profilo forse rimasto in ombra all’interno dello studio di Morosini: malgrado una certa propensione della dottrina a soffermarsi più sulle criticità che non sui meriti del Monetary Dialogue – ossia sulle procedure di rendicontazione della BCE dinanzi al Parlamento europeo in materia di politiche monetarie – alcuni attenti studiosi, a conclusione di una indagine condotta attraverso un metodo di tipo qualitativo anziché quantitativo, hanno evidenziato come il trend al progressivo rafforzamento degli standard di trasparenza democratica della BCE sia da ricollegare in maniera non secondaria al ruolo svolto dal Parlamento europeo nell’ambito del “dialogo monetario” (F. Amtenbrink – K. Van Duin). Non è un caso i congegni di accountability recentemente introdotti nell’ambito della Banking Union, al pari delle contestatissime procedure dell’Economic Dialogue, costituiscano la parziale riproduzione ed il perfezionamento di un format di poteri di controllo parlamentare già sperimentato con il Monetary Dialogue.
Da questo punto di vista, le risorse della democrazia rappresentativa, in ambito monetario, non debbono necessariamente essere ridotte alla mera espressione della vox populi. Al contrario, una corretta valorizzazione della funzione di controllo parlamentare – la quale non esclude ma anzi presuppone che la banca centrale abbia l’ultima parola – avrebbe il vantaggio di attivare feconde dinamiche discorsive in grado di rendere i processi decisionali in materia monetaria più trasparenti, più partecipati, più vissuti e dunque, in ultima istanza, anche maggiormente legittimati.