La condizionalità nell’Unione, i carrarmati fuori dell’Unione

La Corte di giustizia, con una coppia di sentenze “manifesto” pronunciate lo scorso 16 febbraio 2022, ha respinto i ricorsi di Ungheria e Polonia, con i quali i due stati membri, spesso tristemente accomunati da simili destini nella recente storia dell’Unione, contestavano la legittimità del regolamento 2020/2092, chiedendone l’annullamento.
I ricorsi, assai articolati, fondavano le loro doglianze su una lunga serie di ragioni giuridiche, che includevano il difetto di competenza ad adottare il regolamento; la violazione dei principi di sussidiarietà e proporzionalità; la violazione dell’art. 296, par. 2, TFUE per insufficiente motivazione del regolamento 2020/2092; la violazione dell’art. 269, par. 1, TFUE, stante il fatto che il regolamento, strumento di diritto derivato, avrebbe definito il concetto di Stato di diritto, di cui alla fonte di diritto primario contenuto nell’art. 2 TUE; la violazione dell’art. 7 TUE, il cui meccanismo di protezione dei «valori» fondamentali dell’Unione sarebbe stato eluso da un meccanismo avente il medesimo obiettivo; la violazione dell’art. 4, parr. 1 e 2, seconda frase, e dell’art. 5, par. 2, TUE; la violazione dell’art. 4, par. 2, prima frase TUE, recante il principio della parità di trattamento.
La coppia di pronunce gemelle si appresta a essere oggetto di un flusso alluvionale di commenti, per i tanti aspetti che tratta e per le tante impegnative prese di posizione che la Corte di giustizia ha assunto, o per le sue eventuali mancate prese di posizioni ancora più nette, a seconda della prospettiva che vorranno adottare i diversi commentatori (a prima lettura già Baraggia, Mori, Pech, Sacchetti, Salmoni, Drinóczi e Faraguna).
Con questo breve commento, vorremmo limitarci a mettere sul tavolo del dibattito alcune considerazioni che emergono sull’utilizzo del meccanismo della condizionalità a tutela dei principi dello Stato di diritto, per collocarli – da una parte – in “retrospettiva”, guardando a quella che è stata la giurisprudenza sovranazionale in materia, anche sulla base dell’esperienza della Commissione di Venezia, e in “prospettiva”, guardando ai drammatici sviluppi che interessano i confini esterni dell’Unione.
Al centro del conflitto riguardante Polonia e Ungheria e deciso con le sentenze in commento sta il principio dello Stato di diritto, il cui rispetto la Corte Europea di giustizia vede come oggetto di un obbligo di risultato per gli Stati membri dell’Unione Europea che discende direttamente dalla loro adesione all’Unione stessa. Che si parli di obbligo di risultato è sintomo interessante dell’idea che la Corte ha dell’entità e ampiezza dell’obbligazione ricadente sugli Stati. Essa non costruisce quest’obbligo in termini assoluti e stringenti, ma ammette che – come sempre di fronte ad un principio – nell’adempiervi gli Stati godono di una qualche discrezionalità anche in considerazione delle peculiarità del loro proprio sistema giuridico.
La flessibilità di questo atteggiamento va tuttavia letta tenendo in considerazione l’utilizzo che la Corte fa del canone di condizionalità che è visto come il motore di un meccanismo volto a saggiare l’osservanza del principio dello Stato di diritto da parte degli Stati. Gli Stati membri hanno dovuto sottostare agli effetti di quel meccanismo all’atto della loro adesione all’Unione, nel senso che la loro candidatura poteva trovare accoglimento se, e alla condizione che i loro ordinamenti giuridici soddisfacessero i requisiti previsti dai Trattati, e in primis – per quanto qui interessa – il principio dello Stato di diritto. Nella presente vicenda il meccanismo di condizionalità veniva chiamato a operare a valle dell’adesione senza avere l’ampiezza di allora in quanto esso era volto a garantire il rispetto del detto principio ai soli circoscritti e limitati fini della corretta e legittima gestione dei bilanci degli Stati interessati in vista della fruizione del beneficio di finanziamenti provenienti dal bilancio dell’Unione. In questa specifica circostanza l’Unione non pretende – dice la Corte – di sottoporre a giudizio l’identità nazionale degli Stati nel suo complesso né di riproporre nei termini del tempo dell’adesione l’operatività del meccanismo di condizionalità a pena della rottura del rapporto con l’Unione. L’Unione a tutela della sua stessa identità, cui la Corte da particolare risalto, pretende invece che le istituzioni degli Stati soddisfino, per esigenze limitate e circoscritte, l’obbligo di risultato che grava sugli Stati in materia di Stato di diritto.
A tale riguardo la Corte esclude che il vincolo al principio dello Stato di diritto non soddisfi quelle esigenze di certezza che la giurisprudenza della stessa Corte esige proprio a garanzia dell’osservanza del principio dello Stato di diritto, nel senso che la regolamentazione dei rapporti fra Unione e Stati deve passare attraverso norme chiare e precise la cui applicazione porti a risultati prevedibili. Citando documenti ben noti  ben noti della Commissione di Venezia (tra i quali il Rule of Law Report e la Rule of Law Checklist),  la Corte afferma che quello che è uno dei principi ordinamentali fondamentali dell’Unione non solo è agevolmente ricostruibile partendo da altri principi dell’Unione egualmente citati in apertura dei Trattati, ma ha la sua fonte in valori comuni ed applicati anche dagli Stati membri nei loro ordinamenti. Il che consente di concludere che non ci troviamo di fronte al frutto di fantasiose elaborazioni di scelte politiche degli operatori costituzionali dell’Unione, ma al risultato di processi interpretativi che affidano alle tecniche proprie del legal reasoning l’individuazione dei principi fatti propri dall’ordinamento dell’Unione e dagli Stati membri accettati sulla scorta delle tradizioni comuni che legano questi stessi Stati membri. Ciò avviene, infatti, con argomentazioni di progressiva generalizzazione sempre riscontrabili quando si ragiona della individuazione di principi generali del diritto (sul punto ci sia consentito rinviare a Bartole).
Il meccanismo condizionale posto a tutela del principio dello Stato di diritto può certo avere i suoi difetti e i suoi malfunzionamenti che, tuttavia, vanno considerati nell’ambito della funzione costituzionale fondamentale che tale meccanismo assume, ossia vigilare sul rispetto delle condizioni che la limitazione di sovranità cui gli stati hanno acconsentito a partire dal secondo dopoguerra.
Non si può perdere questo punto di partenza nell’analizzare il meccanismo e nel denunciarne difetti e malfunzionamenti: gli sviluppi più recenti che interessano i confini dell’Unione (e, forse non a caso, proprio i confini di Ungheria e Polonia) ahinoi aiutano a ricordarlo in modo particolarmente drammatico. Polonia e Ungheria, uscendo dal patto di Varsavia, hanno consapevolmente accettato di limitare la loro sovranità aderendo all’Unione, e conformando le loro strutture costituzionali a tali limitazioni di sovranità.
I fatti di Ucraina provano meglio di ogni analisi giuridica per quale ragione il prezzo di questa “nuova” limitazione di sovranità fosse considerato un prezzo congruo da pagare, anche per quegli Stati che solo dopo il crollo del muro di Berlino sembravano avere finalmente ottenuto una piena capacità di autodeterminarsi nelle relazioni internazionali.
Queste considerazioni, tuttavia, potrebbe indurre a ritenere frettolosamente che la crisi Ucraina andrebbe risolta con un istantaneo ingresso del paese aggredito nell’Unione europea. Tuttavia, proprio gli sviluppi ungheresi e polacchi sembrano suggerire che questa sarebbe una strada scellerata, e in tal senso sembrano essere rassicuranti le prime reazioni dei vertici delle istituzioni europee.
La condizionalità, infatti, è efficace e nasce innanzitutto nel processo di adesione alle organizzazioni internazionali e sovranazionali, e proprio mentre si attribuiscono nuove missioni allo strumento, è ancor più importante che la condizionalità si prenda sul serio nel suo contesto naturale, ossia il processo di adesione all’Unione.
Semmai, l’uso “nuovo” che di quello strumento emerge dalle vicende qui commentate, testimonia, a nostro avviso, uno sviluppo divenuto inescapabile a causa dell’impercorribilità del meccanismo di tutela “politica” dei principi fondamentali dell’Unione di cui all’art. 7 TUE, paralizzato dalla regola dell’unanimità.
Come ci insegna la storia e la comparazione, quando un meccanismo costituzionale rimane paralizzato per troppo tempo, le esigenze che avrebbe dovuto servire trovano altro spazio nella creatività dell’ordinamento. La sorte dell’art. 7 TUE ci ricorda in certa parte quella dell’articolo V della Costituzione degli Stati Uniti del 1787. L’articolo V disciplina, o meglio avrebbe dovuto disciplinare la revisione costituzionale, e affida agli Stati federati una posizione fortissima di opposizione a qualunque ipotesi di revisione. Il meccanismo, nato all’interno di un assetto federale assai più periferico, ha finito per essere sostituito da meccanismi diversi per garantire l’adeguamento della Costituzione federale a mutate esigenze sociali, economiche e politiche (concretizzandosi tali meccanismi in quelle trasformazioni costituzionali che Bruce Ackerman ha così ben descritto nella sua celebre trilogia: I II III). Ciò è avvenuto principalmente a causa della sua inidoneità a consentire modifiche della Costituzione che fossero idonee a garantire un assetto assai più centralizzato dei rapporti tra centro e periferia.
In modo non dissimile, l’art. 7 TUE, a causa della palese inidoneità del meccanismo ivi regolato a raggiungere il suo scopo di tutela dei principi fondamentali dell’Unione, sembra essere ineluttabilmente destinato all’anacronismo costituzionale, e a presidio di quelle esigenze si è finito per ricorrere ad altri metodi: in questo snodo, in particolare, attraverso un ricorso straordinariamente forte alla condizionalità.
Ciò non significa che la Corte di giustizia abbia voluto eludere l’art. 7 TUE, e abbia così indebolito la vigenza dei Trattati. Tutt’al contrario, ci pare che la Corte di giustizia abbia approcciato il tema con un’apprezzabile elevazione del tono costituzionale del suo ragionamento. Ciò emerge in maniera particolarmente netta nella parte in cui la Corte, per la prima volta in modo tanto esplicito, si riferisce all’identità costituzionale dell’Unione. Il concetto di identità costituzionale negli ultimi decenni è stato sempre più soggetto a forti manipolazioni interpretative da parte di attori politici e Corti di alcuni Stati membri, tanto da aver indotto qualcuno a ritenerlo un concetto ineluttabilmente pericoloso e da respingere. La Corte di giustizia è intervenuta con fermezza per porre strumenti interpretativi utili ad arginare quelle manipolazioni, mediante un’interpretazione normativa del concetto di identità costituzionale (e di Costituzione in generale). La Corte di giustizia, nelle pronunce in commento, ha adottato un approccio autenticamente pluralista, ponendo la tutela delle identità costituzionali degli Stati membri sullo stesso piano costituzionale della tutela dei principi fondamentali dell’Unione, che ne connotato la sua identità costituzionale. In altre parole, ha giustamente escluso che sotto la bandiera della tutela dell’identità costituzionale di Ungheria e Polonia possano essere fatte passare violazioni dei principi fondamentali dello Stato di diritto. La Corte di giustizia ha affermato ciò che qualunque autentica Corte costituzionale dovrebbe affermare: che le identità costituzionali vanno protette finché siano identità… costituzionali, e non identità “incostituzionali”.