Stefan Raffeiner
Nuovo governo in Germania: l’ultima chance del grande centro?
1. Alla fine, la rimonta di Scholz non c’è stata. Come da tutti i pronostici, il candidato cancelliere della CDU e della bavarese CSU, Merz, ha vinto le elezioni con il 28,5% (più 4,4%). Per la prima volta nella storia repubblicana, l’AfD si è piazzata al secondo posto (primo partito nella ex DDR), finora sempre occupato o dall’SPD o dalla CDU/CSU. Escono dal Bundestag, per la seconda volta dopo il 2013, i liberali dell’FDP. Ha mancato lo sbarramento del 5% per 9.000 voti anche il BSW, cioè gli scissionisti della Linke capeggiati da Wagenknecht. Rientra, invece, facilmente nel Bundestag il suo “partito madre”, la Linke, già dato per morto. Con il BSW in parlamento, CDU/CSU e SPD avrebbero mancato la maggioranza parlamentare e avrebbero dovuto formare un altro governo a tre, aggregando i Verdi. Così, invece, sarà possibile dare vita a un’altra Grosse Koalition (secondo la terminologia tradizionale perché, in voti assoluti, non raggiunge nemmeno il 50%).
Dopo soli tre anni, finisce, dunque, l’esperienza del centrosinistra al governo con un crollo cumulativo del 19,5%. Sorprende, più che altro, che l’opposizione conservatrice ne abbia attratto nemmeno un quarto dei voti in uscita. L’alternanza tradizionale si è arenata. Molti hanno cercato l’alternativa al di fuori dell’arco tradizionale. Alla luce del risultato elettorale occorre fare alcune considerazioni sulla leadership del cancelliere Scholz nel governo uscente, la parabola dei liberali e la sorte dei Verdi, l’exploit dell’AfD e lo spazio che si è aperto a sinistra, per finire sulle prospettive del nuovo governo che sarà guidato dall’ultima grande democrazia cristiana in Europa.
2. L’allora vicecancelliere Scholz aveva vinto le elezioni nel 2021 posizionandosi come vero erede della Merkel in punto di seriosità ed esperienza. Solo che contro Scholz, più che contro la Merkel, si è manifestata una certa stanchezza, aggravata dalla mancata ripresa economica dopo il Covid e dalla questione migratoria. Così i semi dell’antipolitica seminati durante il lungo cancellierato Merkel sono infine germogliati durante il breve cancellierato Scholz. Troppo tardi ci si è accorti, infatti, che il “metodo Merkel” del navigare a vista e del compromesso a oltranza era arrivato al capolinea.
Eppure, il governo Scholz non era destinato al fallimento a prescindere. Il suo momento probabilmente più forte è stato il suo discorso al Bundestag sulla Zeitenwende, pochi giorni dopo l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia nel febbraio 2022, impostando una svolta nella politica di sicurezza tedesca, tra cui l’invio di armi in zone belliche attive, finora escluso. Solo che il seguito del discorso è rimasto incompiuto, tra tentennamenti e mancate coperture finanziarie. Il termine Zeitenwende compare per la prima volta nel libro di Scholz Hoffnungsland del 2017, ossia paese per speranze. Nel libro, ancora da sindaco di Amburgo, Scholz delinea una politica più centrista di quanto poi avrebbe messo in atto. Seppur poco letto, il libro venne consigliato sui corridoi della cancelleria come chiave di lettura sul pensiero di Scholz. Il cancelliere uscente, tra l’altro, è un lettore assiduo, con un libro sempre nella borsa. Fu ironia della sorte il rifiuto del vicepresidente Vance di un colloquio bilaterale ai margini della conferenza sulla sicurezza a Monaco al probabile unico leader-lettore della sua Hillbilly Elegy. Un altro intervento di Scholz, poco conosciuto al di fuori della bubble di Bruxelles, ma punto di riferimento della sua politica europea, è stato il discorso di Praga del 2022 sul futuro dell’Unione europea, nel quale sosteneva che i processi di allargamento e di riforme interne all’Unione europea dovessero andare di pari passo per rafforzarne la capacità d’azione.
L’inizio della fine del governo Scholz, col senno del poi, fu probabilmente l’incapacità di fare fronte alla situazione di pressione causata dal combinato disposto della pressione economica in seguito all’aggressione russa e della sentenza del Tribunale federale costituzionale sul freno al debito del novembre 2023. Già il “contratto di coalizione”, infatti, poggiava sul presupposto che la transizione ecologica - e tante altre cose care ai tre partner di governo - fosse finanziata in parte da un fondo speciale nel quale sarebbero confluiti i residui miliardi dei fondi Covid. A ciò si è aggiunta la crisi del gas russo e gli aiuti all’Ucraina. Sembrava la soluzione perfetta: spalmare la spesa per gli anni a venire ma bilanciarla una tantum negli anni Covid, quando il freno era già stato sospeso in via emergenziale. Solo che Karlsruhe l’ha infranto invocando il principio di annualità del bilancio.
Ora le strade erano due: convincere l’opposizione democristiana a riformare il freno al debito in costituzione, con la maggioranza dei due terzi. Ma il leader dell’opposizione Merz è stato categorico nel suo rifiuto, vedendone già le crepe che avrebbero, nel tempo, fatto esplodere la coalizione. E su questo torneremo. L’altra strada, magari, sarebbe stata quella di ricalibrare fino in fondo il suo governo, allargando il proprio spazio di manovra – e così magari la propria leadership. All’indomani della sentenza di Karlsruhe, invece, Scholz si è fatto applaudire al suo congresso di partito, blindando la spesa sociale. Ma se i socialdemocratici non potevano sacrificare “butter for guns“, lo stesso valeva per il rispettivo tema centrale degli altri due. E dalla tensione tra spesa sociale (SPD), transizione ecologica (Verdi) e pareggio di bilancio (FDP) non si sarebbe più usciti. A ciò si è aggiunta l’opposta visione tra la politica industriale attiva del ministro dell’economia verde Habeck e l’Ordnungspolitik del ministro delle finanze liberale Lindner. Il triumvirato Scholz-Habeck-Lindner non è riuscito, in modo collettivo, a pensare oltre – soprattutto oltre al proprio partito e al proprio elettorato. E tutti e tre ne hanno, nel frattempo, tirato le conseguenze, dichiarando che si sarebbero ritirati dalla politica attiva.
3. In termini assoluti, il perdente è l’SPD. Ma i veri perdenti sono i Verdi e i liberali. I primi, perché dopo soli tre anni già devono lasciano il governo; i secondi, perché stavolta rischiano di scomparire per davvero. Eppure, in entrambi i casi, la differenza fra polvere e altari sembrava sottile. Se l’FDP avesse superato lo sbarramento, democristiani e socialdemocratici sarebbero stati costretti ad associare i liberali nella Deutschlandkoalition (per via dei colori della bandiera). Se fosse entrato il BSW, l’aritmetica avrebbe imposto di associare i Verdi nella coalizione Kenia (sempre per via dei colori della bandiera).
Basta un flashback al 2021 per domandarsi sulla sorte dell’apparente “egemonia culturale” dei Verdi: in Europa il “green deal” andava a gonfie vele; nei Länder, che pesano a livello federale attraverso la camera federale del Bundesrat, erano 12 i governi regionali a partecipazione verde su 16 (ora sono a 7). Paradossalmente, i 16 lunghi anni di traversata del deserto dal 2005 al 2021 marcarono anche la crescente influenza “culturale” sull’ultimo periodo sempre più liberal della Merkel (anche se, prima ironia della sorte, fallirono i due tentativi della Merkel di formare un governo coi Verdi: nel 2013 fu il verde Trittin, capo della corrente a sinistra, a far saltare il tavolo; nel 2017 il liberale Lindner. Seconda ironia della sorte: quando Merkel presentò nel Natale 2024 la sua autobiografia, non solo dava le pre-stampe alla Zeit, settimanale di riferimento della borghesia verde; anche le recensioni più amichevoli le raccolse tra le penne più progressiste). I Verdi entrarono nel governo, forti della galassia verde extraparlamentare tra ONG e think tank, incubatori di progetti ed idee da mettere finalmente in atto. Poco è valso ai Verdi l’aver previsto il pericolo russo prima degli altri né la trasformazione da partito pacifista a più convinto sostenitore delle libertà ucraine (trasformazione riuscita solo in parte all’SPD). Visto il clima internazionale e le maggioranze nell’Europarlamento, mancherà all’agenda internazionale verde il peso del governo federale – dalla COP al Consiglio UE. La mossa di Merz sul debito ha aperto uno spiraglio inaspettato, e i Verdi sono stati molto capaci a imporsi nell’informale coalizione costituzionale Kenia, garantendo una fetta consistente del nuovo debito alla transizione verde. Ma d’ora in poi saranno costretti ad affidarsi alle clausole costituzionali, fatte inserire nelle trattative dai Verdi stessi, nonché alle simpatie verdi dell’ultima esponente merkeliana di alto profilo, cioè la presidente della Commissione europea.
Per i liberali, l’uscita dal Bundestag significa rivivere l’incubo del 2013, quando accadde per la prima volta. I liberali hanno una lunga tradizione e parteciparono a tutti i governi federali del dopoguerra fino al governo rosso-verde di Schröder nel 1998 (con la breve parentesi della prima grande coalizione 1966-69). In un sistema a tre partiti, scelsero di fatto il cancelliere. Ma nel tempo, si sono moltiplicati i partiti, e da molto i liberali stentano a crearsi un solido elettorato di riferimento che non si esaurisca nel raccogliere i malcontenti della CDU. Quando Lindner prese in mano il partito nel 2013, la prospettiva era una coalizione Giamaica con democristiani e Verdi – ma del dopo-Merkel, come si sarebbe capito solo nel 2017 con il fallimento delle trattative Giamaica. Lindner non voleva essere associato alla fase finale dell’era Merkel, ma posizionarsi per un cancelliere democristiano nuovo e che magari fosse anche atmosfericamente più attento all’agenda liberale. Uno come Merz insomma. Solo che Merz nel 2021 ancora non c’era (ma sarebbe andato bene anche Laschet, con il quale Lindner aveva formato una coalizione nel Nord Reno-Vestfalia nel 2013) e che a vincere le elezioni non fu Laschet, ma, con sorpresa di tutti, Scholz. Dopo il rifiuto del 2017, Lindner non avrebbe potuto rifiutare la partecipazione al governo una seconda volta. Per i liberali, la formula del semaforo era più rischiosa di quella Giamaica, con due partner non solo più grandi, ma entrambi di sinistra. Esaurito l’entusiasmo iniziale, i liberali si sono scoperti troppo deboli per imporre riforme liberali ai rosso-verdi e si sono limitati a impedire che i partner virassero troppo a sinistra. Da qui l’aggrapparsi al freno al debito come argine naturale ai progetti di spesa rosso-verdi. Così, tuttavia, governare diventa impossibile, e la caduta del governo sulla legge di bilancio ne divenne il finale naturale.
4. Il risultato dell’AfD è stato in linea coi sondaggi. Il partito fu fondato da economisti liberisti contrari agli aiuti alla Grecia nel 2013 (lo stesso nome, alternativa per la Germania, deriva dal fatto che la Merkel spesso definiva le proprie politiche, tra cui quelle a difesa dell’euro, come “alternativlos”, cioè senza alternative). La crisi migratoria a partite dal 2015 trasformò l’AfD in un partito populista a tutti gli effetti e negli ultimi anni si è sempre più spostato a destra (forse ne è corresponsabile la legge sui partiti che dà molto risalto agli iscritti che sono, in un partito poco raccomandabile come l’AfD, più radicali di chi magari lo vota soltanto in segno di protesta). Inoltre, molti membri coltivano una certa ambiguità con il passato nazista della Germania, il che rende l’AfD un estraneo addirittura tra le destre all’Europarlamento.
Nella ex DDR, l’AfD è risultata primo partito (con il 32,3%, CDU al 18,4%, SPD all’11,6%). Il minor radicamento dei partiti tradizionali (trapiantati dall’Ovest) ha da sempre creato uno spazio per il voto antisistema, un tempo raccolto dalla Linke, successore del partito comunista di stato. Per certi versi, l’ascesa dell’AfD è andata pari passo con il declino della Linke. Da qui la scissione della Wagenknecht che ne ha tirato la conclusione che una sinistra a difesa dello stato sociale “nazionale” fosse incompatibile con politiche considerate “globaliste” e pro-migrazioni. I primi successi della Wagenknecht alle elezioni nei Länder orientali nel 2024, con la partecipazione ai governi nel Brandeburgo ed in Turingia, sembravano darle ragione e molti già ne vedevano la capacità di sostituirsi alla Linke. Invece, la Linke è risorta. Pur facendo proprio l’appello alla pace e alla diplomazia, la Linke l’ha intonato in senso meno filo-putiniano di AfD e Wagenknecht. Ci ha messo del suo Merz, quando ha votato, insieme all’AfD, una risoluzione anti-migrazione, alla quale si è associata la Wagenknecht. Ciò è stato considerato da SPD e Verdi come un attentato alla Brandmauer (ovvero, muro spartifuoco: con tanto di analogie storiche dei conservatori di Weimar che permisero l’ascesa dei nazisti) e ha aizzato l’anima antifascista della Linke, anche come segno distintivo dalla Wagenknecht. Si è aggiunta, poi, una fetta di elettorato dai Verdi, malcontenti verso il profilo considerato troppo pro-Israele e pro-armi per l’Ucraina. Non a caso la Linke è stata votata in massa dall’elettorato con background migratorio e in ambito universitario. A Berlino è diventata primo partito. Un effetto non secondario della mobilitazione a destra e a sinistra è stata la partecipazione più alta da 38 anni con l’82,5% (2021: 76,4%).
5. Ora tocca a Merz. La tenacia non gli si può negare. Nei primi anni 2000 era l’avversario più pericoloso della Merkel, con Merkel a capo del partito e Merz a capo del gruppo parlamentare. Divenne la vittima di un patto tra Merkel e l’allora primo ministro bavarese Stoiber, al quale la Merkel lasciò la candidatura a cancelliere nel 2002 ma che questi perse contro Schröder. In compenso, la Merkel si prese anche la presidenza del gruppo, oltre alla presidenza del partito. Ed il resto è nella storia. Invece di accontentarsi di diventare ministro in un governo Merkel, Merz lasciò la politica per lavorare nel settore privato – e tornò solo quando la Merkel lasciò la presidenza del partito nel 2018. Il fautore del comeback di Merz fu Schäuble. Merkel, invece, cercò a ostacolarlo come successore in tutti i modi. Così Merz perse prima contro Kramp-Karrenbauer, poi contro Laschet. Solo al terzo tentativo, dopo la fallimentare campagna di Laschet del 2021, Merz riuscì nella scalata del partito, e poi del gruppo.
Il dilemma di Merz era chiaro prima delle elezioni. Per riprendersi i voti persi a destra, ha fatto campagna elettorale con una promessa di svolta (Wende). Solo che una vera svolta presuppone un sistema di alternanza – o perché vige un sistema maggioritario o perché il sistema, seppur proporzionale, consiste in due grandi partiti che si alternano, come era il caso in Germania fino all’avvento delle grandi coalizioni della Merkel (quando Kohl divenne cancelliere nel 1982 parlò di svolta nello spirito e nella morale). Invece, si è passati a un poli-partitismo (ne è il segno la moltiplicazione dei candidati cancellieri, in passato nominati soltanto da CDU/CSU e SPD) e a una restrizione numerica del grande centro, inteso come CDU/CSU, SPD, Verdi e liberali, con gli estremi AfD e Linke ai margini delle formule governative. Con la Brandmauer (muro spartifuoco) verso l’AfD e i liberali troppo deboli, era sempre chiaro che Merz avrebbe dovuto governare o con socialdemocratici o con i Verdi – o con entrambi, incubo democristiano evitato per 9.000 voti mancati al BSW.
ll superamento dei blocchi tra CDU/CSU con liberali da una parte, e SPD con Verdi dall’altra, ha ampliato il ventaglio delle possibili combinazioni trasversali (come lo era anche il governo uscente) – ma al prezzo dell’alternanza. Il rifiuto di integrare i due estremi è forse una peculiarità nel panorama europeo contemporaneo e mette pressione sulla stabilità che non a caso era al massimo nel lungo periodo in cui i due grandi partiti riuscirono loro stessi a chiudere il panorama politico (la Linke nasce dopo l’unificazione come erede del partito unitario della ex DDR, l’AfD nel 2013). Ma al di là della questione sulla “pericolosità democratica” di AfD e – in minor misura – della Linke, il vero solco che divide il grande centro dai due estremi è l’ancoraggio euro-atlantico della Germania e la responsabilità che ne deriva verso l’Unione europea e la NATO, visto il peso della Germania. Da qui l’esclusione di AfD e Linke, scettici perlomeno per quanto riguarda la NATO.
In termini di spesa pubblica, il compromesso costa caro. L’avanzo pubblico ha permesso di coprire molte divergenze durante i governi Merkel. L’assenza di crescita negli ultimi anni ha posto fine a tale metodo e non a caso il governo uscente è caduto sul bilancio. Per riguadagnarsi uno spazio di manovra, il cancelliere in pectore Merz ha voluto tagliare la testa al toro e ha proposto una riforma della Schuldenbremse. L’inversione a “u”, avendo Merz fatto campagna elettorale a difesa della Schuldenbremse, è stata accelerata dal fatto che AfD e Linke disporranno di una minoranza di blocco sulle riforme costituzionali nel nuovo Bundestag (si racconta che Schäuble, fautore del comeback di Merz dopo l’era Merkel, gli avrebbe già consigliato una riforma dopo la sentenza di Karlsruhe sulla Schuldenbremse del 2023 per gettare le fondamenta di un suo futuro governo). La riforma condivisa tra CDU/CSU, SPD e Verdi prevede un’esenzione dalla Schuldenbremse della spesa in difesa eccedente l’1% del Pil e un fondo speciale di 500 miliardi EUR in infrastrutture e transizione ecologica nell’arco dei prossimi 12 anni.
Il nuovo governo dovrà affrontare le sfide poste dalla stagnazione economica e da una almeno in parte percepita perdita di controllo sul tema migratorio in termini di flussi e di integrazione. Il Koalitionsvertrag contiene molti obiettivi ma è più scarno sulle priorità di spesa. Allo stesso tempo, i socialdemocratici hanno attenuato alcuni aspetti della promessa svolta. Per la prima volta dal 1966 cancelleria ed esteri saranno occupati dallo stesso partito (quando Brandt si impose come vicecancelliere e ministro degli esteri nella prima grande coalizione, per poi insediarsi come cancelliere del 1969 in una coalizione SPD-FDP, lasciando gli esteri al partner più piccolo, come poi sarebbe sempre stato), mentre i socialdemocratici si prendono le finanze e la difesa. Inoltre, si darà vita a un nuovo consiglio di sicurezza nazionale. Una volta insediato ai primi di maggio, bisognerà vedere nei fatti quanto il nuovo governo sarà capace di trovare un denominatore comune che permetterà di accompagnare il nuovo spazio di manovra grazie all’allentamento della Schuldenbremse con riforme strutturali e quanto il nuovo assetto inciderà sul ruolo della Germania nella politica europea ed internazionale. In sostanza, il nuovo governo dovrà dimostrare che le grandi sfide della Germania – e dell’Europa – possano ancora essere affrontate dal grande centro. Con buone politiche, magari, l’elettorato potrà di nuovo confluire verso il grande centro, permettendo lì l’alternanza che ha fatto, per decenni, della Germania l’ancora di stabilità. Altrimenti, temono in tanti, c’è poco che impedirà all’AfD di vincere le prossime elezioni, cioè a quelli che si autodefiniscono l’alternativa al sistema politico esistente. Siamo forse all’ultima chance del grande centro.
(Il contributo riflette l’opinione personale dell’autore e non dell’istituzione di appartenenza)
22 Aprile 2025
Il doppio sorpasso di Scholz nelle elezioni tedesche del 2021: la sfida per occupare il centro
1. “Come fenice dalle ceneri”. Non c’à altro modo per descrivere il doppio sorpasso dei socialdemocratici (SPD), dati da anni sulla via dell’estinzione: prima sui Verdi durante l’estate, e poi sui democristiani (CDU/CSU) a fine agosto, per finire primo partito con il 25,7%. Trattasi di uno scarto dell’1,6%: oltre 775.000 voti e 10 seggi al Bundestag. Stando ai sondaggi – tra l’altro assai vicini al risultato finale in questa tornata elettorale –, l’SPD figurava dietro ai Verdi dal 2018 e dietro a CDU/CSU dal 2002 (escludendo il breve hype demoscopico del candidato Schulz durante la campagna del 2017, durato poche settimane). Eppure Olaf Scholz resta nelle mani dei principi elettori sopranominati “agrumi” (Verdi e liberali dell’FDP, di colore giallo), forti soprattutto tra i giovani. È singolare che, all’indomani del voto, non sia stato il partito destinato a esprimere il futuro cancelliere a invitare i possibili partner di coalizione a uno a uno, come di solito avviene, ma che i due partiti più piccoli che costituiscono il perno sia di una coalizione semaforo (rosso-verde-giallo) sia di una coalizione Giamaica (nero-verde-giallo) si siano incontrati per primi, per poi scegliersi il “loro” cancelliere. A differenza dell’Italia, non esiste in Germania nessuna prassi di consultazioni. Sia a livello federale sia a livello dei Länder, sono i partiti che prima esplorano in tutte le direzioni le possibili soluzioni (Sondierungsgespräche), per poi entrare in più formali negoziati di coalizione tra chi formerà la futura coalizione (Koalitionsverhandlungen). Firmato il contratto di coalizione, rientra in giuoco la Costituzione formale con l’articolo 63 Grundgesetz: su proposta del presidente federale, il cancelliere è eletto a maggioranza assoluta, senza dichiarazioni di voto e a scrutinio segreto. Solo dopo l’impasse creatasi con il fallimento dei negoziati di Giamaica nel 2017, è stato l’attuale presidente socialdemocratico Steinmeier a invitare i partiti nel suo palazzo Bellevue, ma più con l’intenzione di pressare la “sua” SPD a (ri)entrare in un governo Merkel IV. L’ipotesi di un cancelliere di minoranza, pur delineata esplicitamente nell’articolo 63 GG, rimane tuttora inattuata, per quanto sia stata presa in considerazione nell’inverno 2017/2018.
Alla luce del risultato elettorale tedesco e nel tripudio di colori delle varie coalizioni possibili, occorre fare alcune considerazioni sul voto, ponendo l’attenzione sulla tensione tra parte orientale e parte occidentale del Paese, sulle modalità in cui sono stati scelti i candidati, sul modo in cui si è condotta la campagna elettorale e infine sulle possibili sinergie in vista del futuro governo.
2. Va in primo luogo sottolineato il risultato elettorale nella parte orientale del paese. Scholz ha, infatti, vinto soprattutto all’est, dove molti elettori over-60, di solito fedeli elettori democristiani, sono passati dalla CDU direttamente all’SPD (ma è stato così anche con Schröder nel 1998 e 2002). I temi del rispetto per tutti i lavoratori, il salario minimo e la pensione stabile e sicura hanno avuto presa in una parte del Paese che si sente insicura e non pienamente equiparata in merito alle condizioni di vita ai Länder occidentali. Va anche considerato che l’est è anche quella zona in cui l’AfD più radicale ha avuto maggiori consensi, tanto che già si è coniato il termine Lega Est, mentre nella parte occidentale del paese ha perso molti consensi. È verosimile che questo sviluppo sposti il partito ulteriormente a destra. Sempre nella parte orientale, schiacciata tra SPD e AfD, la Linke ha perso ulteriormente, e non ha superato lo sbarramento del 5%. Il partito entra comunque al Bundestag, tuttavia, grazie alla regola dei tre collegi uninominali in cui hanno vinto (due a Berlino est e uno a Lipsia). Con 735 seggi, il XX Bundestag avrà 26 seggi in più rispetto a quello precedente, con ulteriori seggi in eccesso e di conguaglio. Tali seggi variabili che si aggiungono al numero base di 598, si creano quando un partito vince più collegi uninominali in uno dei Länder di quanti gliene spettino secondo il voto proporzionale nel rispettivo Land. Prima del voto, alcune proiezioni prevedevano oltre 900 seggi. La debolezza della CDU anche nei collegi uninominali, con molti collegi passati con l’SPD, ha evitato tale scenario. La recente miniriforma della GroKo ha cercato di mitigare l’aumento, facilitando il conguaglio tra le liste regionali dello stesso partito. Ma rimane la CSU che in Baviera ha vinto 45 seggi uninominali su 46. Con una quota proporzionale del 31,7% in Baviera, le sarebbero spettati solo 34 seggi. Degli 11 seggi in eccesso (Überhangmandat), i primi 3 non vanno nel conguaglio – ma su questa regola pende un procedimento dinanzi al Bundesverfassungsgericht. Non presentando liste regionali in altri Länder, i seggi bavaresi in eccesso non possono essere detratti da liste regionali della CSU in altri Länder. Quindi tutti gli altri partiti nel Bundestag beneficiano di seggi di conguaglio (Ausgleichsmandat) affinché il 31,7% in Baviera rispecchi 42 seggi (34+11-3). Una riforma seria della legge elettorale, sull’agenda del nuovo Bundestag, dovrà passare necessariamente per la riduzione del numero dei collegi uninominali o mitigando il first past the post, escludendo ad esempio, in caso di seggi in eccesso, i vincitori con lo scarto più basso. Finora CDU/CSU, tradizionalmente forti nei collegi uninominali, hanno bloccato qualsiasi proposta che toccasse i 299 collegi esistenti.
3. Guardando alla scelta dei leader, Laschet e la candidata dei Verdi, Baerbock, sono stati selezionati secondo logiche interne al rispettivo partito, nella convinzione che i rispettivi sostenitori votassero comunque il partito e non il candidato. Così il popolare co-leader verde Habeck ha lasciato il passo in aprile a una candidata donna per la prima candidatura verde alla cancelleria. Il percorso di Laschet è stato più travagliato. Con sondaggi personali da sempre deboli, Laschet ha vinto il congresso di partito a gennaio contro il falco Merz, popolare tra la base ma inviso ai funzionari-delegati in quanto considerato un solitario fuori dagli schemi. E Laschet è diventato candidato cancelliere in aprile contro il governatore bavarese e leader della CSU Söder, nonostante questi fosse molto più popolare nei sondaggi. Anche nell’SPD non esiste un processo formale di selezione del Kanzerkandidat. Di solito si procede per consenso tra i maggiori esponenti del partito, con l’ultima parola che spetta al congresso. La questione si complica per l’Unione perché CDU e CSU formano un gruppo parlamentare comune al Bundestag, ma sono due partiti distinti a tutti gli effetti, con due direzioni e due congressi secondo il Parteiengesetz. Con la desistenza della CDU, la CSU si presenta solo in Baviera. Per prassi esiste una presunzione a favore del presidente della CDU, ma politicamente occorre l’accordo di entrambi i presidenti per nominare un candidato cancelliere. Così nel 2002 la presidente della CDU Merkel offrì la candidatura al CSU Stoiber che poi perse contro Schröder. La mossa stabilizzò la presidenza di Merkel di modo che nessun dubbio sorse sulla sua candidatura per le successive elezioni anticipate del 2005, che inaugurò il suo lungo cancellierato. Molto si era dibattuto del famoso precedente del 1979, quando il mancato accordo tra i presidenti venne sciolto nell’unico consesso comune, cioè nel gruppo parlamentare. Nel voto si affermò il CSU Strauß contro il governatore della Bassa Sassonia della CDU, padre di Ursula von der Leyen e appoggiato dall’allora presidente della CDU Kohl. Anche Strauß perse le elezioni. Forse perché era chiaro che il gruppo si sarebbe espresso a favore di Söder, i sostenitori di Laschet, primi fra tutti Schäuble, premevano affinché la decisione fosse presa nella direzione della CDU, forti dell’argomento che fosse il partito e non il gruppo parlamentare a esprimere un candidato e che, tra CDU e CSU, si dovesse trattare della direzione del partito maggiore. Söder a malavoglia riconobbe la primazia della CDU, nella speranza di raccogliere una maggioranza anche nella direzione della CDU. Pressata ancora da Schäuble, la direzione della CDU (convinta che le elezioni le avrebbe vinte comunque, magari con qualche punto percentuale in più o in meno a seconda del candidato) temeva, invece, la scalata bavarese e la trasformazione della CDU/CSU in lista Söder, sulla scia della trasformazione del partito popolare austriaco ÖVP da partito di funzionari in partito-lista personale dell’ormai ex-cancelliere Kurz.
Scholz è stato invece l’unico candidato scelto per la sua electability. Il partito non l’ha mai amato e, inoltre, gli ha sempre rimproverato la gabbia della GroKo, negoziata da Scholz nel 2017/18 dopo il fallimento di Giamaica, che aveva trascinato l’SPD verso il 10-15% nei sondaggi durante praticamente tutta la legislatura e che aveva permesso ai Verdi di stabilizzarsi come vero contender a sinistra degli eterni democristiani. Da sempre debole nei congressi di partito, il moderato ministro federale delle finanze e vicecancelliere ha anche perso le primarie degli iscritti per la leadership del partito nel 2019 contro due sconosciuti dell’ala sinistra. Ciononostante, Scholz è stato nominato candidato cancelliere nell’estate 2020: ben 9 mesi prima di Laschet e Baerbock, senza grande competizione interna né clamore, quando nessuno, tranne lui per quello che si dice, ci credeva. Era l’epoca in cui il co-leader Walter-Borjans (lo stesso che sconfisse Scholz nelle primarie), si poneva pubblicamente la domanda se valeva ancora la pena per i socialdemocratici nominare un candidato cancelliere e se non era meglio indicare solo uno Spitzenkandidat, come fanno, per prassi, i partiti più piccoli. Forse per questo non c’era molta ambizione a sfidare Scholz per la candidatura tra chi guardava già al rinnovamento tra le fila dell’opposizione. E vi era il pragmatico riconoscimento che Scholz, stimato amministratore, era l’unico rimasto a salvare il salvabile.
4. Guardando al modo in cui si è condotta la campagna elettorale, si nota come democristiani e Verdi abbiano a lungo di fatto ignorato l’SPD, per tanto tempo distante terzo nei sondaggi. Un governo nero-verde sembrava la coniugazione perfetta per affrontare i temi della lotta al cambiamento climatico con moderazione economico-sociale e con l’integrazione dei ceti produttivi. Con le elezioni si sarebbe visto se per la maggioranza sarebbero stati necessari anche i liberali – che non avrebbero osato una seconda volta rifiutarsi di fronte alla possibilità di una coalizione Giamaica – e se il governo avrebbe dovuto essere a guida democristiana o verde. Per escludere quest’ultima ipotesi, meno probabile ma non impossibile, i democristiani hanno iniziato a criticare Baerbock, attaccandola per il fatto di ambire al più importante incarico politico tedesco, senza mai aver ricoperto prima un incarico governativo, né a livello federale né a livello regionale.
Proprio a causa di questo clima i Verdi hanno subito in estate il sorpasso da parte dell’SPD. L’alternativa al poco popolare Laschet è così divenuta non più il risiko verde, ma un fidato ministro delle finanze che per anni ha continuato responsabilmente il pareggio di bilancio schäubliano, per poi mostrare la necessaria flessibilità mentale nel passare al deficit spending pandemico. Inoltre, Scholz rappresentava un’alternativa moderata con la coalizione semaforo, in modo che la sinistra radicale, altro spauracchio, o Schreckgespenst, del cauto elettore tedesco medio non fosse inclusa nel governo. Non curandosi del leader liberale Lindner, che dichiarava a più riprese che gli mancava la fantasia su come mettere insieme la sua visione ordo-liberale con il programma interventista socialdemocratico (qui sì che il partito si era imposto a Scholz e non viceversa), Scholz è riuscito virtuosamente a mettere la coalizione semaforo in agenda, senza peraltro escludere una coalizione tutta a sinistra – esclusione che il proprio partito non gli avrebbe permesso. Infine non può essere dimenticato che Merkel, rimasta osservatrice durante la contesa Laschet-Söder, è stata anche la grande assente della campagna elettorale. Tra continuità e discontinuità era difficile per la CDU/CSU inserire la sua figura ingombrante in una strategia coesa. La cancelliera uscente ha capito benissimo che non ci avrebbe rimesso comunque. Con Laschet vincente, la narrativa della cancelliera che riesce a passare le redini a un compagno di partito; con Laschet perdente, la narrativa della cancelliera riuscita nell’impresa unica di portare il proprio partito in prima posizione ben quattro volte di fila.
5. In vista della formazione del prossimo governo bisogna dunque guardare ai Verdi e ai liberali prima di tutto. Se l’FDP da sempre è vicino ai democristiani (Lindner e Laschet avevano negoziato la coalizione nero-gialla a Düsseldorf), nel caso dei Verdi la base guarda chiaramente verso l’SPD, mentre tra la leadership vi sono anche simpatie verso i democristiani (Laschet stesso appartiene agli storici pontieri nero-verdi della “pizza connection” che ai tempi di Kohl si incontravano regolarmente in una pizzeria di Bonn per preparare il terreno di un’alleanza all’epoca impensabile). Anche se parte della CDU spera ancora di riuscire nell’impresa Giamaica, è difficile tuttavia immaginare che i Verdi sprechino l’occasione quasi storica per la sinistra di mandare i democristiani sui banchi dell’opposizione. Il momentum è con Scholz e già i tre partner del semaforo sono entrati in Sondierungsgespräche senza CDU/CSU. A giorni si potrebbero aprire i più formali Koalitionsverhandlungen, anche se un nuovo governo non si attende prima di dicembre. Non è escluso però che Lindner faccia ancora saltare la coalizione semaforo, come fece quattro anni fa con Giamaica. Allora Lindner temeva, forse non a torto col senno del poi, che super-Merkel ed i preparatissimi Verdi si sarebbero rimangiati i neo-deputati liberali rientrati in parlamento dopo una legislatura extraparlamentare e ancora in cerca di casa, ufficio e assistenti. Ora Lindner vede il suo partito ben radicato e più preparato. Ma gli conviene integrarlo nel centrosinistra? Certo che Lindner avrebbe preferito Laschet, ma come portare con sé i Verdi? E se alla fine ci fosse un’altra GroKo? È qui che non regge il paragone storico del 1976 e 1980, quando l’FDP formò i governi social-liberali Schmidt II e III, nonostante la CDU/CSU fosse arrivata primo partito (per poi passare con Kohl nel 1982, inaugurando la lunga stagione nero-gialla). Perché ora i kingmaker sono in due, cioè liberali e Verdi.
Se e quando Scholz, come è probabile a questo punto ma ancora non assicurato, sarà eletto cancelliere, si aprirà la resa dei conti e la contesa tra i democristiani. Difficile dire dove andranno e che ruolo avrà Söder. Per Scholz, molto dipende da come saprà integrare i liberali. Le distanze programmatiche tra FDP e SPD sono notevoli, non tanto con Scholz ma con il suo partito. Il risultato sopra le aspettative ha fatto entrare nell’ingrandito gruppo parlamentare socialdemocratico una folta rappresentanza del gruppo giovanile Jusos (giovani socialisti), da sempre più a sinistra del partito. D’altronde, l’assenza di una maggioranza numerica tutta a sinistra limita il peso negoziale dell’SPD. Se l’obiettivo della trasformazione ecologica (Verdi) e digitale (liberali) prefigura una modernizzazione della Germania, rimane una tendenza conservatrice per quanto riguarda il welfare nell’SPD (vedi il no di Scholz a qualsiasi riforma pensionistica). Esclusi l’aumento delle tasse ed il superamento della Schuldenbremse, su cui vigila l’FDP, dove sarà possibile prendere i soldi? Magari da un fondo di investimenti al di fuori del bilancio dello Stato? O si accetteranno ulteriori costi impliciti per il consumatore attraverso il commercio di quote d’inquinamento? E che fare delle bismarckiane casse sociali, svuotate dalla pandemia e che richiedono una quota sempre maggiore dal bilancio federale per non fare schizzare i contributi, e quindi il costo del lavoro? Lindner ambisce al ministero delle finanze proprio per il potere di veto su qualsiasi spesa che istituzionalmente compete al palazzo sulla Wilhelmstraße.
Se per anni sembrava che la prima coalizione trasversale sarebbe ruotata intorno alla CDU, con l’integrazione nel centrodestra dei Verdi (Giamaica), la Germania è ora destinata a guida socialdemocratica, con l’integrazione nel centrosinistra dei liberali (semaforo). Chi rimane all’opposizione, con il semaforo è la CDU/CSU – con Giamaica lo sarebbe stato l’SPD –, avrà uno spazio limitato: senza alleati, stretti tra gli estremi della Linke e l’AfD, di fronte una maggioranza strutturale centrista al governo, con in più il Kanzlerbonus a favore di chi occupa la cancelleria federale e si potrà presentare da uscente alle prossime elezioni. Da questo punto di vista, lo scarto del 1,6% a favore dell’SPD potrebbe rivelarsi una cesura storica profonda.
6. Una ultima considerazione: i prossimi anni si potrebbero aprire senza governo democristiano in nessuno dei grandi Stati membri dell’UE, con la presidente democristiana della Commissione, rimasta orfana, che cerca la sponda con Macron. Scholz ha un rapporto con l’UE non dissimile da quello intergovernativo, operativo e poco visionario della Merkel. Qui Laschet sarebbe assomigliato di più all’europeo di cuore à la Kohl che privilegia il fattore politico su quello economico. Ma poi c’è chi ricorda come Scholz definiva il Recovery fund il momento Hamilton dell’Europa – cosa che la cancelliera uscente non avrebbe mai detto. Il programma dell’SPD apre sulla riforma del patto di stabilità e crescita, ma Scholz da ministro delle finanze si è mostrato attento agli interessi tedeschi e potrebbe dover essere più cauto. Non è un segreto che a Parigi e Roma si sia tifato SPD, temendo i falchi della CDU non più sotto controllo merkeliano. Per ora Scholz è tuttavia solo una proiezione tra continuità e discontinuità. Bisognerà vedere dove porterà la Germania e l’Europa. Ma prima deve trovare una maggioranza nel Bundestag.
(Il contributo riflette l’opinione personale dell’autore e non dell’istituzione di appartenenza)
14 Ottobre 2021
Elezioni tedesche 2017: la rupture di schemi al Governo e la cesura nel Parlamento
Pochi giorni dopo il lancio di Martin Schulz quale candidato cancellerie dell’Spd all’inizio dell’anno, il sondaggista Manfred Güllner criticò duramente in un’intervista alla radio di informazione Deutschlandfunk il tema messo al centro della campagna elettorale socialdemocratica. “Il tema dell’equità sociale (soziale Gerechtigkeit) non tira”, così il sondaggista, considerato vicino ai socialdemocratici, già allora sosteneva come la gente, pur percependo una disuguaglianza nella società in quanto tale, valutasse comunque positivamente la propria situazione economica e quindi non si ponesse il problema.
Del resto, la disoccupazione è ai minimi storici, i redditi reali sono in crescita, e grazie al pareggio di bilancio il governo federale pensa più a come distribuire le nuove entrate anziché ai tagli di spesa. Nonostante ciò la Merkel sembra aver ormai perso l’aura dell’invincibilità dopo la crisi dei rifugiati del 2015/16 che ha capovolto il paesaggio politico tedesco. È quindi vero che l’Spd avesse sbagliato tema? Sembrerebbe piuttosto che l’Spd si fosse trovato nel pieno di un vero dilemma sin dall’inizio. Perché sull’unico tema in grado di fare cadere la cancelliera, l’Spd non poteva attaccarla credibilmente. Era proprio l’Spd che infatti l’aveva sostenuta nella decisione di aprire le frontiere nel settembre 2015 con più convinzione di quanto non lo avesse fatto proprio il partito democristiano. Ed era l’Spd che, insieme ai Verdi – che sedevano al tavolo grazie al loro peso nella camera federale Bundesrat – continuava a frenare quando la Cancelliera Merkel, che pure continua a sostenere fino ad oggi di non aver mai cambiato opinione, di fatto cambiò idea, chiedendo al ministro dell’interno democristiano, più o meno apertamente, di chiudere le frontiere.
Non è un caso, quindi, se la questione rifugiati, tema tanto controverso da essere ancora oggi in grado di rovinare una festa in famiglia o tra amici, ma che nel Bundestag uscente – e stava lì l’anomalia rappresentativa – vedeva tutti i quattro gruppi parlamentari su una posizione unitaria, ha fatto entrare nel Bundestag del nuovo: cioè un partito liberale sensibilmente spostato a destra, l’Fdp, e un partito di destra populista, l’Afd. E così all’elettore deluso (democristiano) non restava che scegliere se rimanere all’interno (Fdp) o se uscire (Afd) da ciò che in Italia chiameremo l’arco costituzionale.
E tuttavia non è detto che gli strateghi della Merkel non abbiano alla fine realizzato un piano diabolico, sacrificando parte del partito democristiano sull’altare del governo senza alternanza. Casualmente il sistema elettorale tedesco con i suoi seggi in eccesso (Überhangmandate) e di conguaglio (Ausgleichsmandate), facendo passare il Bundestag da 631 a 709 seggi con un numero base di 598, ha comunque alleviato le perdite in termini di carriere politiche personali. Infatti, spostandosi a sinistra e di fatto mettendo all’angolo l’Spd, che pure nel governo uscente ha realizzato molto in termini di politiche sociali e con ministri valevoli, la Cdu è diventata ormai il perno del sistema di ogni possibile coalizione, in grado di radicarsi nel Kanzleramt alleandosi di volta in volta con tutti tranne con l’estrema sinistra (Linke) e destra (Afd).
Paradossalmente, infatti, l’unica opzione per ora realistica di mandare la Cdu sui banchi dell’opposizione con la formazione di un governo federale a guida socialdemocratica, una coalizione di centrosinistra allargata, è resa numericamente improbabile proprio dall’Afd. Pur drenando voti alla Cdu, l’Afd è l’unico partito a spostare un numero sostanzioso di voti da sinistra a destra grazie ai voti che nella ex Ddr passano dalla Linke all’Afd. E così mancano a una coalizione Spd-Verdi-Linke ben 66 seggi alla maggioranza nel nuovo Bundestag. Una ipotetica coalizione rosso-rosso-verde, al contrario, avrebbe potuto avere una maggioranza numerica, per quanto risicata e di soli quattro seggi nel Bundestag uscente. Resta solo da vedere se la personalizzazione della politica non cambi nuovamente le carte sul tavolo. Per ora, tuttavia, l’aritmetica elettorale rende difficilmente immaginabile per l’Spd recuperare il divario di 13 punti e diventare così primo partito, pur nell’ipotesi di un candidato socialdemocratico forte contro un candidato debole del dopo-Merkel nel 2021.
Quanto al tema della formazione del nuovo Governo, i problemi che si preannunciano sono di vario tipo. La probabile prossima coalizione Giamaica rompe infatti il classico schema democristiani-liberali verso socialdemocratici-verdi. Mettendo a confronto i programmi elettorali dei quattro partiti Cdu, il gemello bavarese Csu, liberali e Verdi, però, le distanze non sembrano insuperabili tranne che con riferimento alle politiche in materia di rifugiati. In merito i quattro cercheranno probabilmente di rinviare il confronto. Sugli altri temi, liberali e Verdi hanno più in comune di quanto sembrerebbe. È forse tra democristiani e liberali che ci sono più divisioni di quanto non appaia a prima vista. Non è da escludersi, in questa prospettiva, che i due piccoli non facciano fronte comune contro i conservatori su alcuni temi. In merito alle politiche europee, saranno però i liberali e la Csu i più attenti al contribuente tedesco.
Pur in un quadro altamente frammentato, non va comunque sottovalutato come la classe politica tedesca è naturalmente portata al compromesso, disciplinata e rispettosa di patti. Sarà pertanto il Koalitionsvertrag che costituirà l’áncora fondamentale del futuro programma di governo. È proprio per l’importanza che i quattro riconosceranno a questo accordo per il prossimo quadriennio che le trattative si preannunciano lunghe e complesse.
Scosse al Governo potrebbero tuttavia derivare dai conflitti interni ai quattro partiti: ai liberali manca il personale con esperienza di governo dopo la traversata del deserto extra-parlamentare; i Verdi sono da sempre in balia al conflitto tra l’ala di lotta e quella di governo – per riprendere un’altra terminologia italiana –; nella Cdu inizieranno i movimenti interni per la successione alla Merkel e la Csu bavarese, passata in Baviera dal 49,3 % al 38,8 %, temendo di perdere la maggioranza assoluta alle elezioni bavaresi fra un anno, si preannuncia molto riottosa. Sullo sfondo l’Afd nonché l’Spd e la Linke pronti a raccogliere i delusi a destra e sinistra.
Con l’avvento al Bundestag di un partito a destra dell’unione Cdu-Csu, la Merkel ha infranto – perlomeno con dolo eventuale – il famoso diktat dello storico governatore bavarese e conservatore Franz Josef Strauß del ‘mai un partito a destra dei democristiani’. La perduta capacità di Cdu-Csu di chiudere il sistema parlamentare a destra, integrando l’elettorato nazional-conservatore che è probabilmente sempre esistito, segna una cesura nella storia della Bundesrepublik. E se la questione rifugiati sembra ormai alle spalle, il macrotema della migrazione con la miriade di questioni collegate nonché l’integrazione dell’eurozona con i suoi possibili meccanismi di trasferimenti diretti o indiretti continueranno molto probabilmente a dare adito a un partito che raccoglie il malcontento più radicale. Il genio ormai sembra fuori dalla bottiglia. E la politica tedesca ne risentirà.
5 Ottobre 2017
Strasburgo ed il diritto internazionale: la Cedu stretta tra l’Aja e le capitali europee
Si è concluso un primo tempo nella vicenda processuale Distomo, comune greco consegnato alle cronache per il massacro perpetrato nel giugno ‘44 dalle truppe di occupazione del Reich contro la popolazione civile in risposta ad un attacco partigiano. La Corte europea dei diritti dell’uomo, infatti, ha dichiarato inammissibile il ricorso di quattro cittadini greci contro la Repubblica federale di Germania per violazione del diritto di proprietà e del divieto di non discriminazione (Sfountouris et autres contre l’Allemagne, 31 maggio 2011, per ora disponibile solo in francese). Si conclude in questo modo il ramo tedesco di una lunga battaglia legale iniziata nella metà degli anni ’90, mentre continua quello greco-italiano.
Con questa pronuncia, la CEDU ha avuto modo di precisare, sia pur in negativo, il proprio ruolo quasi rifiutando, di fatto, sia di ergersi a Corte suprema degli Stati membri del Consiglio d’Europa sia a Corte internazionale di Giustizia del Vecchio continente.
8 Settembre 2011