Il diritto costituzionale dell’ambiente dopo la riforma: alcune conferme e qualche (inattesa) novità nella sentenza della Corte costituzionale n. 105/2024

1. A circa sette anni di distanza dall’ultima sentenza sul “caso Ilva”, con la decisione n. 105/2024, la Corte costituzionale torna a pronunciarsi sulla legittimità di una disciplina che autorizza – in deroga agli ordinari meccanismi procedimentali – misure governative volte ad assicurare la continuità produttiva di grandi stabilimenti industriali, nonostante il sequestro degli impianti da parte dell’autorità giudiziaria. Si tratta, nello specifico, della procedura prevista dal nuovo comma 1-bis.1 dell’art. 104-bis norme att. c.p.p., introdotta dal c.d. “decreto Priolo” e destinata a regolare i poteri di amministrazione spettanti al giudice del sequestro penale su stabilimenti (o parti di essi) dichiarati di “interesse strategico nazionale” ai sensi dell’art. 1 del primo “decreto salva-Ilva”; nonché su stabilimenti e infrastrutture necessari ad assicurarne la continuità produttiva.
Le censure del giudice a quo si concentrano, in particolare, sul quinto periodo della nuova disposizione codicistica, che vincola l’autorità giudiziaria ad autorizzare la prosecuzione dell’attività industriale se, “nell’ambito della procedura di riconoscimento dell’interesse strategico nazionale”, il Governo ha adottato “misure con le quali si è ritenuto realizzabile il bilanciamento” tra le esigenze di tutela della salute e dell’ambiente, e quelle connesse alla prosecuzione delle attività.
In estrema sintesi, secondo il GIP del Tribunale di Siracusa, tale schema normativo non avrebbe assicurato un adeguato bilanciamento tra il complesso degli interessi costituzionali coinvolti, vincolandolo ad autorizzare la prosecuzione dell’attività produttiva anche nel caso in cui le misure adottate si dovessero rivelare inadeguate rispetto alle esigenze di tutela della salute e dell’ambiente.

2. Può fin da subito osservarsi che la Corte ha nel complesso riscontrato positivamente i dubbi del giudice a quo, ritenendo la disposizione impugnata costituzionalmente illegittima nella parte in cui non prevede che le misure ivi indicate si applichino per un periodo di tempo non superiore a 36 mesi.
Muovendo dal presupposto che non può considerarsi di per sé incompatibile con la Costituzione la previsione di un meccanismo che consente al Governo di dettare, in via interinale, “misure di bilanciamento” e che vincola, al contempo, il giudice del sequestro a consentire la prosecuzione dell’attività degli stabilimenti interessati, nell’ottica dei Giudici costituzionali il problema non è tanto il vincolo posto nei confronti dell'autorità giudiziaria, quanto piuttosto le condizioni che ne garantiscono la costituzionalità.
In questo senso, “una disposizione come quella all’esame” – precisa la Corte – “potrebbe trovare legittimazione costituzionale soltanto in quanto si presenti come disciplina interinale, che consenta di non interrompere un’attività produttiva ritenuta di rilievo strategico per l’economia nazionale o per la salvaguardia dei livelli occupazionali, nel tempo strettamente necessario per portare a compimento gli indispensabili interventi di risanamento ambientale e riattivare gli ordinari meccanismi procedimentali previsti dal d.lgs. n. 152 del 2006”. Da qui la scelta di intervenire con una pronuncia additiva che introduce un termine di durata massima delle misure adottate dal Governo, individuandolo in quello di 36 mesi previsto dal “decreto salva-ilva” del 2012, a suo tempo introdotto per soddisfare l’analoga esigenza di assicurare la prosecuzione dell’attività produttiva di stabilimenti di interesse strategico nazionale, sottoposti a sequestro preventivo. Per il resto, i Giudici costituzionali fanno salva la disciplina impugnata dandone una interpretazione costituzionalmente orientata.
Nel fare ciò, il confronto con i precedenti sul “caso Ilva” è stato inevitabile. In particolare, la sentenza n. 85/2013 ha rappresentato un “punto di riferimento naturale” nelle motivazioni dei Giudici costituzionali non soltanto per le evidenti analogie tra le questioni oggetto dei due giudizi, ma anche in ragione dei profili differenziali che attengono alla formulazione dei parametri costituzionali coinvolti. Infatti, con la sentenza n. 105/2024, per la prima volta, la Corte ha dato applicazione ai riformati artt. 9 e 41 Cost., offrendo alcune importanti indicazioni interpretative, che confermano solo in parte i contenuti di quel diritto costituzionale dell’ambiente di matrice giurisprudenziale, opportunamente ricostruito e sistematizzato dalla migliore dottrina.
Viene innanzitutto chiarito che la previsione di tre distinti oggetti di tutela, nel contesto del nuovo comma 3 dell’art. 9 Cost., non si pone in contrasto con la consolidata concezione unitaria della tutela ambientale. Per i giudici costituzionali, infatti, “biodiversità” ed “ecosistemi” altro non rappresentano che “specifiche declinazioni” del bene ambiente inteso in senso unitario, autonomo rispetto al paesaggio e alla salute umana, “per quanto ad essi naturalmente connesso”. Sembra così trovare confermare la posizione di chi in dottrina sostiene la possibilità di individuare, a seguito della riforma, due distinte ma interconnesse nozioni costituzionalmente rilevanti di ambiente: quella di ambiente in senso lato, inteso come sistema complesso, formato dall’insieme delle relazioni fra plurimi fattori di ordine ecologico, sociale, culturale ed economico; e quella di ambiente in senso stretto, espressa dai lemmi “ecosistemi” e “biodiversità”, riferibile i soli fattori di ordine ecologico (in questo senso v. Monteduro 2022). In questa prospettiva, diventa più chiaro il rapporto tra i diversi oggetti di tutela: la disciplina dell’ambiente in senso lato, con le relative scelte di bilanciamento tra i fattori coinvolti, troverebbe il suo fondamento e il suo limite costituzionale nella protezione dell’ambiente in senso stretto, in quanto l’integrità di ecosistemi e biodiversità si configura come un presupposto logico, prima ancora che giuridico, per l’integrità dell’ambiente in senso lato. In questo modo, assumerebbe un autonomo significato il principio di primarietà della tutela ambientale, ad oggi difficilmente distinguibile, nell’interpretazione invalsa in dottrina e giurisprudenza, dai principi di integrazione e di ragionevole bilanciamento.
Novità interessanti emergono sul fronte della qualificazione giuridica del “valore ambiente”.
Rievocando un precedente tanto noto quanto isolato della propria giurisprudenza, la Corte ha riconosciuto che la riforma ha costituzionalizzato la tutela dell’ambiente come “diritto fondamentale della persona ed interesse fondamentale della collettività”, precisando che “esso comprende la conservazione, la razionale gestione ed il miglioramento delle condizioni naturali”, nonché “la preservazione dei patrimoni genetici terrestri e marini, di tutte le specie animali e vegetali che in esso vivono allo stato naturale”. Una tale impostazione smentisce quanto sostenuto dalla dottrina maggioritaria, che ha sempre escluso la possibilità di riconoscere un diritto soggettivo “all’ambiente”, autonomo rispetto al diritto alla salute, in favore di una visione oggettiva della tutela ambientale, avallata dalla costante giurisprudenza costituzionale, come valore o principio fondamentale (tra tutti, v. Cecchetti 2022).
E tuttavia, nella prospettiva che emerge dalla sentenza n. 105/2024, le diverse impostazioni dogmatiche non si escludono reciprocamente, rappresentando due facce della stessa medaglia. Infatti, a fronte della riconosciuta esistenza di un “mandato” costituzionale di tutela dell’ambiente, la Corte impiega la categoria dei diritti soggettivi in modo da qualificare giuridicamente la pretesa a che lo Stato si attivi in vista della sua effettiva attuazione. In questa prospettiva, a ben vedere, il diritto all’ambiente non si configura come un diritto a prestazione in senso stretto, ma come un diritto di protezione (o “obbligo di protezione”, dalla prospettiva del soggetto passivo, lo Stato): figura dogmatica poco indagata da parte della dottrina italiana, la cui peculiarità risiede nel fatto che “il comportamento attivo richiesto allo Stato per la relativa attuazione non consiste, come nel caso dei diritti sociali, nell’erogazione di utilità materiali, né […] nell’adozione di misure altrimenti ampliative della sfera giuridica dei relativi titolari, bensì nella limitazione delle libertà di soggetti terzi” (Gallarati 2024, 3). Una chiave di lettura, questa, che sembra trovare conferma nella nuova formulazione dell’art. 41, comma 2, Cost., secondo cui l’iniziativa economica privata deve necessariamente svolgersi in modo da non “recare danno” alla salute o all’ambiente. Qual è il danno costituzionalmente rilevante? Detto altrimenti, in cosa consiste precisamente il danno che lo Stato è costituzionalmente obbligato ad evitare, limitando la libertà economica privata? Il danno immediato, ovviamente, ma anche quello futuro. Infatti, l’obbligo costituzionale di protezione dell’ambiente travalica gli interessi dei singoli e della collettività nel momento presente, per ricomprendere anche gli “interessi delle future generazioni”. Non è un caso, infatti, che la Corte abbia utilizzato per ben due volte l’espressione “sostenibilità costituzionale”, al fine di meglio specificare la peculiare declinazione intertemporale che assume il giudizio di legittimità costituzionale, alla luce delle nuove esigenze di tutela indicate dal riformulato art. 9 Cost. (cfr. Camerlengo 2023). In questa prospettiva, il giudizio sulla ragionevolezza delle scelte del legislatore non si risolve soltanto in una verifica di costituzionalità immediata (nel tempo presente), ma si proietta verso il futuro: sarà, dunque, “l’adeguamento al futuro della norma a certificarne la conformità nel presente; non più l’inverso” (Carducci 2024, 5).

3. Ebbene, riportando l’attenzione sull’esito del giudizio, le non marginali novità introdotte dalla riforma non hanno determinato radicali soluzioni di continuità rispetto ai precedenti sul “caso Ilva”. Anzi, le indicazioni desumibili dalla sentenza n. 85/2013 hanno rappresentato un vero e proprio criterio di valutazione della conformità della disposizione impugnata rispetto ai nuovi parametri costituzionali. Si pensi, ad esempio, alla scelta del termine di 36 mesi entro cui realizzare gli interventi previsti dalle “misure di bilanciamento”, considerato una “soluzione costituzionalmente adeguata” proprio perché già ritenuto tale in occasione della pronuncia del 2013.
Ciononostante, la novella costituzionale ha senz’altro contribuito a focalizzare l’attenzione su aspetti non specificati nei due noti precedenti sul “caso ilva”. Il riferimento è alla doverosa proiezione intertemporale del bilanciamento di interessi, che ha consentito alla Corte di porre l’accento sul carattere della inderogabilità del termine entro cui realizzare le misure governative di risanamento ambientale, vero puctum dolens dell’intera vicenda Ilva. Per i Giudici costituzionali, infatti, l’assenza di un termine finale come quello previsto dal “decreto salva-ilva” del 2012, finisce per dare vita, di fatto, ad “un sistema di tutela dell’ambiente parallelo a quello ordinario, e affidato a una disposizione dai contorni del tutto generici: come tali inidonei ad assicurare che, a regime, l’esercizio dell’attività di tali stabilimenti e impianti si svolga senza recare pregiudizio alla salute e all’ambiente”. In questo modo, lo schema argomentativo sancito dalla nota sentenza del 2013 non sembra essere superato, quanto piuttosto meglio specificato con il riferimento al carattere della necessaria temporaneità delle misure adottate all’esito di un procedimento derogatorio rispetto agli ordinari meccanismi autorizzativi.
Non di poco conto è la scomparsa nelle motivazioni della sentenza n. 105/2024 del riferimento alla celebre teoria dei “diritti tiranni”. Al suo posto, in attuazione del nuovo art. 41, comma 2, Cost., a guidare le operazioni di bilanciamento sembra farsi spazio un criterio diverso, che potrebbe essere identificato con il principio di non regressione, in ragione del quale è da considerarsi di per sé dannoso qualsiasi ingiustificato e permanente abbassamento dei livelli di tutela ambientale. In particolare, tale principio sembrerebbe emergere sia nella parte “interpretativa” della sentenza, in cui la Corte “salva” la normativa impugnata dandone una lettura costituzionalmente orientata, al fine di colmare i vuoti di tutela lasciati dal legislatore; sia nella parte “additiva”, in cui sono gli stessi Giudici costituzionali ad imporre un termine di durata massima entro cui dovranno essere ripristinati gli ordinari limiti di sostenibilità fissati, in via generale, dalla legge.
È appena il caso di segnalare, infine, che le conclusioni della Corte costituzionale trovano una importante conferma nella recente sentenza della Corte di Giustizia della UE sui c.d. “decreti salva-ilva” (Causa C-626/22), secondo cui il diritto dell’ambiente europeo “osta a una normativa nazionale ai sensi della quale il termine concesso al gestore di un’installazione per conformarsi alle misure di protezione dell’ambiente e della salute umana previste dall’autorizzazione all’esercizio di tale installazione è stato oggetto di ripetute proroghe, sebbene siano stati individuati pericoli gravi e rilevanti per l’integrità dell’ambiente e della salute umana” ( per un commento della sentenza si v. su questo blog Carducci).


Il caso “ex-Ilva” ritorna davanti la Corte europea dei diritti dell’uomo: quattro nuove condanne per l’Italia

Lo scorso 5 maggio 2022, pochi giorni prima che il Parlamento destinasse 150 milioni di euro per progetti di decarbonizzazione dell’impianto, originariamente stanziati per le attività di bonifica, la Corte europea dei diritti dell’uomo è tornata a pronunciarsi sulla situazione relativa all’inquinamento causato dall’attività industriale del sito “ex-Ilva” di Taranto.
Si tratta di quattro sentenze (Ardimento e altri c. Italia; Briganti e altri c. Italia; A.A. e altri c. Italia; Perelli e altri c. Italia) con cui i giudici di Strasburgo hanno condannato nuovamente lo Stato italiano per violazione degli articoli 8 (diritto alla vita privata) e 13 (diritto ad un ricorso effettivo) della Convenzione. Giudizi che arrivano a distanza di tre anni dalla prima pronuncia della Corte europea relativa al caso Cordella e altri c. Italia, del 24 gennaio 2019, la cui procedura di esecuzione è ancora pendente dinanzi al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa. Da qui le ulteriori decisioni della Corte di Strasburgo: nelle sue motivazioni, infatti, la stessa ha osservato come dal rapporto relativo alla riunione del Comitato del marzo 2021 risulti che le autorità nazionali abbiano omesso di fornire precise informazioni riguardanti l'attuazione effettiva delle misure di risanamento ambientale; il che ha contribuito a determinare i giudici europei per una nuove sentenze di condanna, in cui l’Italia viene ancora una volta esortata a porre in essere, nel più breve tempo possibile, tutto quanto necessario a risolvere la crisi ambientale e sanitaria in atto.

Come nel caso Cordella e altri c. Italia, i quattro nuovi giudizi traggono origine dai ricorsi proposti da cittadini residenti nel capoluogo ionico e da lavoratori dell’acciaieria, i quali hanno contestato allo Stato italiano di non aver adottato le misure necessarie a tutelare l’ambiente e la loro salute, nonché l’assenza di effettive vie di ricorso giurisdizionale attraverso cui far valere la mancata attuazione delle misure di risanamento ambientale delle zone contaminate. Inoltre, i ricorrenti hanno sostenuto di aver subito trattamenti inumani e degradanti, in violazione dell'articolo 3 della Convenzione, in ragione delle loro condizioni di lavoro, dell'esposizione ad agenti inquinanti e delle patologie tumorali che ne sono derivate.
Per quanto riguarda il merito delle decisioni, nel condannare nuovamente lo Stato italiano, la Corte di Strasburgo richiama in modo specifico quanto già statuito nelle motivazioni della sentenza Cordella, la quale ha rappresentato, per molti commentatori, una netta soluzione di continuità rispetto al bilanciamento tra interessi operato, qualche anno prima e sui medesimi fatti, dalla Corte costituzionale nella nota sentenza n. 85 del 2013.
Tutte le pronunce in questione si collocano nel solco di quel processo di interpretazione “ecologica” dei diritti umani sviluppatosi nella giurisprudenza della Corte EDU, a partire dal caso López Ostra c. Spagna del 1994, come conseguenza della crescente rilevanza dei problemi derivanti dalla crisi ecologica e a causa dell’assenza di disposizioni della Convenzione rivolte a garantire una tutela dell’ambiente di carattere oggettivo. Per tale ragione, le risposte della Corte europea alle istanze di tutela ambientale hanno inevitabilmente risentito dei limiti connessi ad un approccio human rights-based, teso a considerare gli effetti dell’inquinamento di natura antropogenica solo nella misura in cui vengano lesi alcuni dei diritti umani sanciti dalla Convenzione, tra tutti, in particolare, il diritto alla vita (articolo 2) e il diritto alla vita privata e famigliare (articolo 8). In questa prospettiva, in dottrina, il rapporto tra le due disposizioni citate è stato descritto in termini di sussidiarietà rispetto alla tipologia di offesa: in caso di morte o di serio pericolo per la vita trova applicazione l’articolo 2; in caso di grave offesa all’integrità psico-fisica dell’individuo, ma che non sia tale da creare un pericolo di morte, trova applicazione l’articolo 8.

Tornando ai giudizi sul caso “ex-Ilva”, la Corte di Strasburgo ha tuttavia sempre escluso – senza peraltro fornire alcuna motivazione – l’applicazione dell’articolo 2 (così come anche dell’articolo 3), riconoscendo la sola violazione dell’articolo 8. Tale scelta è stata oggetto di critica, in considerazione dell’accertato rischio di morte derivante dall’attività produttiva dell’impianto siderurgico. Probabilmente, le ragioni che hanno portato i giudici a sussumere i fatti di causa sotto l’ombra dell’articolo 8 sono da rintracciare nel più ampio margine di manovra che questo concede allo Stato, rispetto all’articolo 2, ai fini del bilanciamento tra gli interessi dei singoli e quelli dell’intera collettività: una flessibilità che la tutela del diritto alla vita non avrebbe certamente concesso.
Ad ogni modo, come si è detto, affinché vi sia una lesione del diritto alla vita privata e familiare causata da emissioni inquinanti è necessario che il conseguente rischio ecologico abbia raggiunto un livello minimo di gravità. Tale valutazione deve prendere in considerazione – precisa la Corte – tutti gli elementi derivanti dal caso concreto, tra cui, in particolare: l’intensità e la durata del danno ambientale e le conseguenze psico-fisiche causate da quest’ultimo sulla salute o sul benessere dell’interessato.
Ebbene, alla luce dei numerosi rapporti e studi scientifici prodotti in giudizio, provenienti da autorità statali e regionali, e mai contestati dal Governo italiano, la Corte di Strasburgo ha riconosciuto la sussistenza di uno stato di criticità sanitaria, tale per cui il tasso di mortalità e di ricovero ospedaliero, nella zona di residenza dei ricorrenti, si è dimostrato essere nettamente superiore alla media regionale. Il che ha permesso di dimostrare la sussistenza del nesso di causalità tra l’attività produttiva dell’impianto e la situazione sanitaria gravemente compromessa.
Pertanto, e in considerazione del fatto che dall’articolo 8 discende altresì l’obbligo positivo per lo Stato di adottare misure rivolte a garantire l’effettivo godimento del diritto alla vita privata, i giudici europei hanno concluso che lo Stato italiano non è stato in grado di assicurare “il giusto equilibrio tra, da una parte, l’interesse dei ricorrenti a non subire gravi danni all’ambiente che possano compromettere il loro benessere e la loro vita privata e, dall’altra, l’interesse della società nel suo insieme” (§ 174).

Una posizione, questa, che solo apparentemente sembrerebbe contrapporsi in modo radicale a quanto statuito dalla Corte costituzionale con la storica sentenza n. 85 del 2013.
In quell’occasione, nel riconoscere la ragionevolezza del bilanciamento tra interessi operato dal legislatore nel Decreto “salva-Ilva” del 2012, la Corte italiana si astiene dal valutare il merito delle misure da adottare, giudicando ragionevole la decisione di mantenere in funzione l’impianto, a condizione che vengano rispettati i limiti disposti nei provvedimenti amministrativi relativi all’autorizzazione integrata ambientale (AIA), la cui centralità emerge anche nella successiva pronuncia n. 58 del 2018, nonostante l’opposta definizione della questione (su quest’ultimo rilievo, tra tutti, v. D. Servetti, 2018).
Allo stesso modo, le doglianze provenienti dalla Corte europea non si riferiscono al merito delle misure programmate per far fronte alla crisi ambientale e sanitaria, quanto piuttosto al modus operandi complessivo tenuto dalle autorità nazionali nella gestione della situazione di crisi. Questo è caratterizzato da continui ritardi e da conseguenti proroghe dei termini entro cui realizzare le misure necessarie, nonché da un’insostenibile instabilità normativa, le cui cause sono da rintracciare nel ripetuto ricorso allo strumento (improprio) delle leggi provvedimento e nell’impiego di regimi speciali o derogatori, tali da alterare finanche l’ordinario funzionamento del potere giurisdizionale. Sotto quest’ultimo punto di vista è così possibile comprendere le ragioni che hanno condotto la Corte di Strasburgo a riconoscere anche l’avvenuta violazione del diritto ad un ricorso effettivo sancito dall’articolo 13 della Convenzione. Nello specifico, la Corte fa riferimento all’immunità penale e amministrativa accordata agli amministratori straordinari della società nell’attuazione delle misure raccomandate dal piano ambientale e, al contempo, alla circostanza per cui neanche il ricorso amministrativo previsto dal Codice dell’ambiente si rivela utile a garantire l’adempimento delle misure di risanamento ambientale. Infatti, in quest’ultimo caso, solo il Ministero dell’Ambiente (rectius della Transizione ecologica) è legittimato ad agire in giudizio, senza considerare l’impossibilità di sindacare davanti al giudice amministrativo disposizioni eventualmente contenute in leggi provvedimento o addirittura chiederne l’ottemperanza.
D’altra parte, occorre tenere presente che lo sguardo del giudice europeo sulle vicende relative alla gestione dell’“ex-Ilva” di Taranto è del tutto diverso da quello del giudice costituzionale. Infatti, il carattere necessariamente incidentale della questione di costituzionalità e l’esigenza che il giudizio della Corte costituzionale verta su specifiche disposizioni legislative rendono estremamente difficile la possibilità di valutare in maniera complessiva l’atteggiamento dello Stato nei confronti della gestione di una crisi talmente complessa e delicata come quella in oggetto.
Al contrario, il giudizio della Corte di Strasburgo non deve necessariamente riguardare lo scrutinio di specifiche disposizioni legislative, potendo interessare, in termini più ampi, il comportamento complessivo tenuto dallo Stato in una determinata situazione specifica. Non a caso, infatti, l’attività della Corte EDU è supportata dal successivo intervento di controllo operato dal Comitato dei Ministri, con il compito di monitorare la corretta implementazione delle decisioni della Corte.
A tal proposito, nell’attesa degli ulteriori e inevitabili sviluppi derivanti dalla giurisprudenza analizzata, al breve quadro sopra riportato deve aggiungersi un ultimo tassello, rappresentato dal rapporto del Comitato dei Ministri, relativo alla riunione dell’8-10 giugno 2022. Ad avviso di quest’ultimo, sembrerebbe che, nonostante i progressi compiuti nell’anno 2021 per l’attuazione del piano ambientale, alcuni più recenti studi dimostrerebbero come gli sforzi compiuti potrebbero non bastare. Per tale ragione, il Comitato ha invitato le autorità nazionali a produrre un’approfondita valutazione tecnica volta stabilire se, a seguito dei lavori eseguiti e previsti dal piano ambientale, il funzionamento dell'impianto siderurgico continuerà a costituire una minaccia per la salute dei residenti locali; e se tali rischi dovessero permanere, indicare le ulteriori misure che si intendono realizzare per affrontarli.
Eppure, gli ultimi interventi normativi, citati in apertura di questo breve commento, sembrano confermare tali preoccupazioni, poiché danno la percezione di un decisore politico maggiormente attento alle esigenze di massimizzazione della produzione (motivo degli investimenti per la decarbonizzazione), rispetto alle esigenze della comunità tarantina di realizzare le doverose azioni di bonifica dei territori contaminati.