Il caso “ex-Ilva” ritorna davanti la Corte europea dei diritti dell’uomo: quattro nuove condanne per l’Italia
Lo scorso 5 maggio 2022, pochi giorni prima che il Parlamento destinasse 150 milioni di euro per progetti di decarbonizzazione dell’impianto, originariamente stanziati per le attività di bonifica, la Corte europea dei diritti dell’uomo è tornata a pronunciarsi sulla situazione relativa all’inquinamento causato dall’attività industriale del sito “ex-Ilva” di Taranto.
Si tratta di quattro sentenze (Ardimento e altri c. Italia; Briganti e altri c. Italia; A.A. e altri c. Italia; Perelli e altri c. Italia) con cui i giudici di Strasburgo hanno condannato nuovamente lo Stato italiano per violazione degli articoli 8 (diritto alla vita privata) e 13 (diritto ad un ricorso effettivo) della Convenzione. Giudizi che arrivano a distanza di tre anni dalla prima pronuncia della Corte europea relativa al caso Cordella e altri c. Italia, del 24 gennaio 2019, la cui procedura di esecuzione è ancora pendente dinanzi al Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa. Da qui le ulteriori decisioni della Corte di Strasburgo: nelle sue motivazioni, infatti, la stessa ha osservato come dal rapporto relativo alla riunione del Comitato del marzo 2021 risulti che le autorità nazionali abbiano omesso di fornire precise informazioni riguardanti l’attuazione effettiva delle misure di risanamento ambientale; il che ha contribuito a determinare i giudici europei per una nuove sentenze di condanna, in cui l’Italia viene ancora una volta esortata a porre in essere, nel più breve tempo possibile, tutto quanto necessario a risolvere la crisi ambientale e sanitaria in atto.
Come nel caso Cordella e altri c. Italia, i quattro nuovi giudizi traggono origine dai ricorsi proposti da cittadini residenti nel capoluogo ionico e da lavoratori dell’acciaieria, i quali hanno contestato allo Stato italiano di non aver adottato le misure necessarie a tutelare l’ambiente e la loro salute, nonché l’assenza di effettive vie di ricorso giurisdizionale attraverso cui far valere la mancata attuazione delle misure di risanamento ambientale delle zone contaminate. Inoltre, i ricorrenti hanno sostenuto di aver subito trattamenti inumani e degradanti, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione, in ragione delle loro condizioni di lavoro, dell’esposizione ad agenti inquinanti e delle patologie tumorali che ne sono derivate.
Per quanto riguarda il merito delle decisioni, nel condannare nuovamente lo Stato italiano, la Corte di Strasburgo richiama in modo specifico quanto già statuito nelle motivazioni della sentenza Cordella, la quale ha rappresentato, per molti commentatori, una netta soluzione di continuità rispetto al bilanciamento tra interessi operato, qualche anno prima e sui medesimi fatti, dalla Corte costituzionale nella nota sentenza n. 85 del 2013.
Tutte le pronunce in questione si collocano nel solco di quel processo di interpretazione “ecologica” dei diritti umani sviluppatosi nella giurisprudenza della Corte EDU, a partire dal caso López Ostra c. Spagna del 1994, come conseguenza della crescente rilevanza dei problemi derivanti dalla crisi ecologica e a causa dell’assenza di disposizioni della Convenzione rivolte a garantire una tutela dell’ambiente di carattere oggettivo. Per tale ragione, le risposte della Corte europea alle istanze di tutela ambientale hanno inevitabilmente risentito dei limiti connessi ad un approccio human rights-based, teso a considerare gli effetti dell’inquinamento di natura antropogenica solo nella misura in cui vengano lesi alcuni dei diritti umani sanciti dalla Convenzione, tra tutti, in particolare, il diritto alla vita (articolo 2) e il diritto alla vita privata e famigliare (articolo 8). In questa prospettiva, in dottrina, il rapporto tra le due disposizioni citate è stato descritto in termini di sussidiarietà rispetto alla tipologia di offesa: in caso di morte o di serio pericolo per la vita trova applicazione l’articolo 2; in caso di grave offesa all’integrità psico-fisica dell’individuo, ma che non sia tale da creare un pericolo di morte, trova applicazione l’articolo 8.
Tornando ai giudizi sul caso “ex-Ilva”, la Corte di Strasburgo ha tuttavia sempre escluso – senza peraltro fornire alcuna motivazione – l’applicazione dell’articolo 2 (così come anche dell’articolo 3), riconoscendo la sola violazione dell’articolo 8. Tale scelta è stata oggetto di critica, in considerazione dell’accertato rischio di morte derivante dall’attività produttiva dell’impianto siderurgico. Probabilmente, le ragioni che hanno portato i giudici a sussumere i fatti di causa sotto l’ombra dell’articolo 8 sono da rintracciare nel più ampio margine di manovra che questo concede allo Stato, rispetto all’articolo 2, ai fini del bilanciamento tra gli interessi dei singoli e quelli dell’intera collettività: una flessibilità che la tutela del diritto alla vita non avrebbe certamente concesso.
Ad ogni modo, come si è detto, affinché vi sia una lesione del diritto alla vita privata e familiare causata da emissioni inquinanti è necessario che il conseguente rischio ecologico abbia raggiunto un livello minimo di gravità. Tale valutazione deve prendere in considerazione – precisa la Corte – tutti gli elementi derivanti dal caso concreto, tra cui, in particolare: l’intensità e la durata del danno ambientale e le conseguenze psico-fisiche causate da quest’ultimo sulla salute o sul benessere dell’interessato.
Ebbene, alla luce dei numerosi rapporti e studi scientifici prodotti in giudizio, provenienti da autorità statali e regionali, e mai contestati dal Governo italiano, la Corte di Strasburgo ha riconosciuto la sussistenza di uno stato di criticità sanitaria, tale per cui il tasso di mortalità e di ricovero ospedaliero, nella zona di residenza dei ricorrenti, si è dimostrato essere nettamente superiore alla media regionale. Il che ha permesso di dimostrare la sussistenza del nesso di causalità tra l’attività produttiva dell’impianto e la situazione sanitaria gravemente compromessa.
Pertanto, e in considerazione del fatto che dall’articolo 8 discende altresì l’obbligo positivo per lo Stato di adottare misure rivolte a garantire l’effettivo godimento del diritto alla vita privata, i giudici europei hanno concluso che lo Stato italiano non è stato in grado di assicurare “il giusto equilibrio tra, da una parte, l’interesse dei ricorrenti a non subire gravi danni all’ambiente che possano compromettere il loro benessere e la loro vita privata e, dall’altra, l’interesse della società nel suo insieme” (§ 174).
Una posizione, questa, che solo apparentemente sembrerebbe contrapporsi in modo radicale a quanto statuito dalla Corte costituzionale con la storica sentenza n. 85 del 2013.
In quell’occasione, nel riconoscere la ragionevolezza del bilanciamento tra interessi operato dal legislatore nel Decreto “salva-Ilva” del 2012, la Corte italiana si astiene dal valutare il merito delle misure da adottare, giudicando ragionevole la decisione di mantenere in funzione l’impianto, a condizione che vengano rispettati i limiti disposti nei provvedimenti amministrativi relativi all’autorizzazione integrata ambientale (AIA), la cui centralità emerge anche nella successiva pronuncia n. 58 del 2018, nonostante l’opposta definizione della questione (su quest’ultimo rilievo, tra tutti, v. D. Servetti, 2018).
Allo stesso modo, le doglianze provenienti dalla Corte europea non si riferiscono al merito delle misure programmate per far fronte alla crisi ambientale e sanitaria, quanto piuttosto al modus operandi complessivo tenuto dalle autorità nazionali nella gestione della situazione di crisi. Questo è caratterizzato da continui ritardi e da conseguenti proroghe dei termini entro cui realizzare le misure necessarie, nonché da un’insostenibile instabilità normativa, le cui cause sono da rintracciare nel ripetuto ricorso allo strumento (improprio) delle leggi provvedimento e nell’impiego di regimi speciali o derogatori, tali da alterare finanche l’ordinario funzionamento del potere giurisdizionale. Sotto quest’ultimo punto di vista è così possibile comprendere le ragioni che hanno condotto la Corte di Strasburgo a riconoscere anche l’avvenuta violazione del diritto ad un ricorso effettivo sancito dall’articolo 13 della Convenzione. Nello specifico, la Corte fa riferimento all’immunità penale e amministrativa accordata agli amministratori straordinari della società nell’attuazione delle misure raccomandate dal piano ambientale e, al contempo, alla circostanza per cui neanche il ricorso amministrativo previsto dal Codice dell’ambiente si rivela utile a garantire l’adempimento delle misure di risanamento ambientale. Infatti, in quest’ultimo caso, solo il Ministero dell’Ambiente (rectius della Transizione ecologica) è legittimato ad agire in giudizio, senza considerare l’impossibilità di sindacare davanti al giudice amministrativo disposizioni eventualmente contenute in leggi provvedimento o addirittura chiederne l’ottemperanza.
D’altra parte, occorre tenere presente che lo sguardo del giudice europeo sulle vicende relative alla gestione dell’“ex-Ilva” di Taranto è del tutto diverso da quello del giudice costituzionale. Infatti, il carattere necessariamente incidentale della questione di costituzionalità e l’esigenza che il giudizio della Corte costituzionale verta su specifiche disposizioni legislative rendono estremamente difficile la possibilità di valutare in maniera complessiva l’atteggiamento dello Stato nei confronti della gestione di una crisi talmente complessa e delicata come quella in oggetto.
Al contrario, il giudizio della Corte di Strasburgo non deve necessariamente riguardare lo scrutinio di specifiche disposizioni legislative, potendo interessare, in termini più ampi, il comportamento complessivo tenuto dallo Stato in una determinata situazione specifica. Non a caso, infatti, l’attività della Corte EDU è supportata dal successivo intervento di controllo operato dal Comitato dei Ministri, con il compito di monitorare la corretta implementazione delle decisioni della Corte.
A tal proposito, nell’attesa degli ulteriori e inevitabili sviluppi derivanti dalla giurisprudenza analizzata, al breve quadro sopra riportato deve aggiungersi un ultimo tassello, rappresentato dal rapporto del Comitato dei Ministri, relativo alla riunione dell’8-10 giugno 2022. Ad avviso di quest’ultimo, sembrerebbe che, nonostante i progressi compiuti nell’anno 2021 per l’attuazione del piano ambientale, alcuni più recenti studi dimostrerebbero come gli sforzi compiuti potrebbero non bastare. Per tale ragione, il Comitato ha invitato le autorità nazionali a produrre un’approfondita valutazione tecnica volta stabilire se, a seguito dei lavori eseguiti e previsti dal piano ambientale, il funzionamento dell’impianto siderurgico continuerà a costituire una minaccia per la salute dei residenti locali; e se tali rischi dovessero permanere, indicare le ulteriori misure che si intendono realizzare per affrontarli.
Eppure, gli ultimi interventi normativi, citati in apertura di questo breve commento, sembrano confermare tali preoccupazioni, poiché danno la percezione di un decisore politico maggiormente attento alle esigenze di massimizzazione della produzione (motivo degli investimenti per la decarbonizzazione), rispetto alle esigenze della comunità tarantina di realizzare le doverose azioni di bonifica dei territori contaminati.