Il Tribunale costituzionale tedesco e il terzo genitore: a proposito di una recente sentenza in tema di impugnazione della paternità

1. Con una decisione del 9 aprile 2024 (1 BvR 2017/21), il Tribunale costituzionale tedesco ha sancito l’illegittimità di due disposizioni del codice civile, relative alla disciplina dell’azione di annullamento della paternità promossa dal padre biologico, onde rimuovere la filiazione in precedenza instauratasi tra il figlio e il padre legale, in quanto ritenute lesive di quel diritto fondamentale alla cura e all’educazione dei figli, e dunque all’assunzione della responsabilità genitoriale, che l’art. 6 II S. 1 GG garantisce anche ai genitori naturali.
Nel caso di specie, il ricorrente era padre biologico di un minore nato nel 2020 all’interno di una coppia di fatto (circostanza che aveva impedito che la sua filiazione potesse fondarsi sul rapporto di coniugio, ai sensi del § 1592 Nr. 1 BGB) e aveva convissuto con la madre e il figlio fino alla rottura dell’unione, avvenuta poco dopo la nascita. A seguito di tale evento, l’uomo, al cui atto di riconoscimento la donna non aveva prestato il proprio consenso, promuoveva l’azione per l’accertamento della paternità; senonché, poche settimane dopo, il nuovo partner della madre, stavolta col consenso della stessa, provvedeva al riconoscimento del minore, divenendone perciò il padre legale.
La successiva impugnazione della paternità avanzata dal ricorrente, ancorché accolta in primo grado, era poi stata respinta dalla Corte d’Appello sulla base del § 1600 II e III S. 1 BGB, ossia delle norme adesso censurate dal Bundesverfassungsgericht.
Tali previsioni, infatti, pur ricomprendendo tra i soggetti legittimati all’impugnazione della paternità anche il padre biologico che dichiari solennemente di aver intrattenuto rapporti sessuali con la madre del minore durante il periodo del concepimento, escludevano, tuttavia, l’accoglimento dell’azione allorquando tra il padre giuridico e il figlio si fosse consolidato un rapporto sociale-familiare caratterizzato dallo svolgimento, da parte del primo, dei compiti connessi alla responsabilità genitoriale, ossia una situazione di fatto di solito presunta sulla base (o del legame di coniugio con la madre, o, nelle famiglie non matrimoniali,) della prolungata convivenza col minore nel medesimo ambiente domestico.
Prima di richiamare le motivazioni che hanno indotto il Tribunale costituzionale a dichiarare illegittime le norme in questione, occorre peraltro ricordare come le stesse fossero state introdotte proprio sulla scorta di un precedente della medesima Corte, la quale, con una pronuncia del 9 aprile 2003 (1 BvR 1493/96, 1 BvR 1724/01), aveva appunto stigmatizzato il previgente regime delle azioni di stato in quanto non contemplava in alcun caso la possibilità per il padre biologico di contestare il vincolo giuridico di filiazione sorto tra il proprio figlio e un terzo. Il legislatore aveva quindi esteso anche al padre biologico la legittimazione all’impugnativa, subordinandola, tuttavia, agli stringenti requisiti di cui al § 1600 II e III S. 1 BGB, i quali erano inoltre rigorosamente interpretati dalla giurisprudenza di legittimità, che, da un lato, ricavava in via presuntiva, in assenza di prove o indizi contrari, l’intenzione del padre legale di seguitare a esercitare il proprio ruolo (BGH XII ZR 150/06), e, da un altro lato, negava che la paternità giuridica potesse essere rimossa quand’anche il padre naturale avesse, a sua volta, intessuto una sozial-familiäre Beziehung col minore e del pari vivesse con lui in una famiglia (BGH XII ZB 389/16).
A distanza di oltre vent’anni, il Tribunale costituzionale torna ora a esprimersi sul quadro normativo determinatosi a seguito della sua statuizione, ravvisandone l’incompatibilità con l’art. 6 II GG in ragione dell’eccessiva e ingiustificata compressione di quel “diritto naturale” dei genitori a crescere ed educare i figli che spetta anche ai genitori che siano tali solo in senso biologico, e non anche legale.

2. Per abbozzare una sintesi della corposa sentenza può intanto muoversi dalla constatazione della Corte secondo cui l’art. 6 II GG non specifica, nel dettaglio, chi siano i “genitori”, rimettendo al legislatore ordinario la disciplina della responsabilità genitoriale e dei modi per acquisirne la titolarità.
In particolare, al legislatore compete la regolazione sia dei rapporti tra genitori e figli, e tra questi ultimi e i terzi, sia l’individuazione di coloro che possono assumere la responsabilità genitoriale, la quale implica specifici doveri di accudimento sulla cui osservanza vigila lo Stato.
La discrezionalità del legislatore, però, non è sul punto assoluta, dovendo anzitutto essere esercitata nel rispetto dei caratteri strutturali di quel diritto fondamentale dei genitori (alla «Pflege» e all’«Erziheung» dei figli) che la norma costituzionale non crea, bensì semplicemente riconosce: sicché, per esempio, il legislatore non potrebbe privare i genitori, in generale o in casi specifici del tutto svincolati da loro inadempimenti, delle funzioni di cura ed educazione per assegnarle, invece, in via primaria ad organi dello Stato. Tra i caratteri strutturali di questo diritto rientra anche il nesso che lo lega alla responsabilità genitoriale, e che vale indipendentemente dalla circostanza che lo status parentale derivi da un vincolo di sangue oppure abbia fonte puramente legale.
Al di là poi delle regole costitutive della filiazione, la Corte sottolinea come i genitori naturali, ossia quelli che hanno concepito il figlio mediante rapporto sessuale, rientrino in ogni caso, a prescindere dal loro stato civile e dall’eventuale sussistenza in concreto di un rapporto sociale coi figli, nel concetto costituzionale di genitori, essendo le persone che “hanno dato la vita” al minore. Tale precisazione, nell’economia della pronuncia, è alquanto significativa, giacché ogni genitore “in senso costituzionale” può reclamare i diritti fondamentali che il Grundgesetz gli riconosce, e il cui esercizio comporta anche precisi doveri inerenti alla responsabilità per il benessere fisico, psichico e materiale dei figli, al fine di assicurarne il libero sviluppo della personalità.
Il legislatore è dunque tenuto a predisporre strumenti che permettano ai genitori “in senso costituzionale” di assumere ed esercitare la responsabilità genitoriale: e ciò pure quando quest’ultima, come nel caso di specie, sia rivendicata dal padre naturale e il minore abbia già due genitori parimenti titolari di analoghi diritti costituzionalmente protetti, quali la madre e il padre legale.
Detta affermazione dischiude una prospettiva inedita, che induce la Corte, nella ricerca di un punto di equilibrio tra le diverse posizioni parentali, a rimeditare quanto sostenuto in passato (1 BvL 1/11, 1 BvR 3247/09; 1 BvR 1493/96, 1 BvR 1724/01) e a mettere in discussione il radicato dogma secondo cui ogni persona dovrebbe avere due genitori soltanto: dogma che appunto – si sottolinea adesso – non deve più considerarsi costituzionalmente imposto.
D’altro canto, nemmeno il superamento del principio della bigenitorialità è ritenuto costituzionalmente necessario, sebbene tale soluzione si profili, invero, come quella più inclusiva, né a essa si opponga, di per sé, la direttiva generale della tutela dell’interesse del minore. Infatti, il rischio che l’attribuzione a un soggetto di tre genitori finisca per incrementare la conflittualità familiare può essere evitato, secondo la Corte, anche con una differenziazione delle loro prerogative, non essendo il legislatore tenuto a conferire agli stessi un’identica partecipazione ai diritti e ai doveri della responsabilità genitoriale.
Diversamente, qualora il legislatore preferisse, invece, mantenersi fedele al principio della bigenitorialità, egli dovrebbe in ogni caso offrire al padre biologico una procedura di impugnazione dotata di maggior effettività di quella che connota attualmente il § 1600 II e III S. 1 BGB.
In linea di massima, peraltro, il Tribunale costituzionale condivide l’idea che la legittimazione del padre biologico a impugnare la paternità del padre legale debba essere subordinata dalla legge a taluni requisiti, essendo siffatta limitazione tesa a presidiare apprezzabili esigenze di chiarezza e di stabilità dello status, oltre che l’interesse del minore a conservare il vincolo di filiazione con un soggetto (il padre legale) col quale abbia nel frattempo intessuto un solido rapporto sociale ed emotivo.
Tuttavia, il bilanciamento che il § 1600 II e III S. 1 BGB realizza tra queste esigenze e i diritti fondamentali del padre biologico risulta inadeguato, poiché non dà alcun rilievo alla sozial-familiäre Beziehung che col figlio naturale possa essersi instaurata fin dalla nascita o che possa in seguito essersi affiancata a quella già presente tra il minore e il padre legale.
La norma, infatti, non tiene in alcun conto né la frequentazione, per quanto assidua e prolungata, che possa esservi stata tra il minore e il padre biologico, né i tentativi di quest’ultimo – desumibili dalla disponibilità manifestata ad assumere la responsabilità genitoriale – di rivestire anche giuridicamente la qualità di genitore. Altri profili di criticità sono inoltre ravvisati rispetto alla benevolenza con cui, nella consolidata interpretazione giurisprudenziale, viene valutata la sussistenza della sozial-familiäre Beziehung tra il minore e il padre legale, atteso che le norme in discorso, per un verso, non permettono di dare alcuna importanza, come anticipato, alla sopravvenuta dissoluzione materiale di tale rapporto, mentre, per altro verso, reputano sufficiente, onde respingere l’istanza del padre biologico, anche già il riscontro di un legame sociale-familiare col padre legale che si sia formato dopo l’avvio del procedimento di impugnazione ed entro la conclusione del giudizio di merito (le cui tempistiche, peraltro, rendono non rara una simile ipotesi).
In definitiva, le motivazioni della declaratoria di illegittimità sono dunque riconducibili all’impossibilità per il padre naturale, alla luce del quadro normativo vigente, di incidere, in qualche modo, sui presupposti di fatto da cui dipende l’accoglimento o meno della propria impugnazione, atteso che essi dipendono, spesso in maniera casuale, dalla successione degli eventi, dalla volontà della madre, dal coinvolgimento dello Jugendamt (l’Ufficio per la tutela dei minori) e dal carico di lavoro del tribunale della famiglia, ossia da fattori che sovente determinano, tra gli adulti interessati, una “corsa” per l’instaurazione legale della paternità.

3. A questo punto, toccherà dunque al legislatore riformare le norme censurate (che restano tuttavia in vigore fino al futuro intervento legislativo) e innovare la disciplina dell’impugnazione di paternità secondo le alternative dischiuse dal Tribunale costituzionale: ossia, modificandone i presupposti, sì da emendare i profili di illegittimità testé richiamati; oppure, superare il principio della bigenitorialità e consentire al padre naturale di stabilire a sua volta un (terzo) vincolo di filiazione col proprio figlio. Quest’ultima possibilità, per quanto sistematicamente più dirompente, sembra, a nostro avviso, da preferire, poiché evita di imporre un bilanciamento – tutt’altro che agevole e ineludibile – tra i diritti del padre biologico e quelli del padre legale, tantopiù che la rimozione della filiazione giuridica potrebbe poi, sotto vari aspetti, rivelarsi comunque pregiudizievole per il minore, non foss’altro perché in essa sono suscettibili di rispecchiarsi, nella realtà, contenuti pur sempre positivi per lo svolgimento della personalità del figlio. Più delicata, semmai, si presenta l’ipotesi di una diversificazione dei contenuti della responsabilità genitoriale dei due padri, non essendo neanche qui banale né scontata l’individuazione dei criteri che andrebbero a tal fine seguiti.
Ad ogni modo, deve evidenziarsi la portata innovativa della pronuncia in esame, la quale conferma la disponibilità della giurisprudenza costituzionale tedesca a ripensare – ove necessario – anche postulati profondi del diritto privato, mantenendosi fedele a una linea interpretativa che pone gli istituti giuridici al servizio della persona e dei suoi diritti, e non viceversa. Al contempo, la pur contingente apertura alla “multigenitorialità” compiuta dal Bundesverfassungsgericht rappresenta, anche nell’ottica del diritto europeo, un importante contributo alla riflessione su un tema, quello appunto della possibile struttura non dualistica del rapporto di filiazione, che altrove ha già conosciuto significative epifanie – si pensi all’esperienza nordamericana, a quella canadese, e segnatamente della British Columbia e dell’Ontario, o a quella cubana, a seguito della recente emanazione del Codice delle famiglie.


Il cognome dei figli dopo la sentenza 131/2022 della Corte costituzionale e nella prospettiva del diritto europeo

Con la sentenza 131/2022 la Consulta chiude idealmente il lungo percorso giurisprudenziale che l’ha vista dapprima farsi più volte portavoce delle istanze sociali di rinnovamento dei meccanismi di attribuzione del cognome ai figli, originariamente ancorati a una concezione patriarcale e patrilineare della famiglia, e poi, dopo la vana attesa per oltre trent’anni dell’auspicato intervento legislativo, divenire, infine, artefice di una revisione del sistema improntata all’autonomia e alla parità dei genitori, in linea con le indicazioni provenienti, oltre che dalla Costituzione, anche dalle fonti internazionali (v. artt. 8, 14 e 5 del settimo Protocollo CEDU; artt. 7, 21 e 23 della Carta di Nizza; la Risoluzione n. 37 del 1978 del Consiglio d’Europa; la Convenzione di New York del 1979 sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione verso le donne; e, ancora, le raccomandazioni del Consiglio d’Europa n. 1271/1995 e 1362/1998).
Infatti, da lungi la Corte costituzionale aveva rilevato come fosse «possibile, e probabilmente consentaneo all’evoluzione della coscienza sociale», un ripensamento delle regole vigenti in ordine alla determinazione del cognome dei figli (sent. n. 61/2006; ord. n. 176/1988 e 586/1988). Senonché, è poi solo con la sent. 286/2016, resa a fronte della perdurante inerzia legislativa del nostro paese, malgrado la condanna ricevuta a Strasburgo nel 2014 (caso Cusan e Fazzo), che la Consulta ha iniziato a scalfire il granitico assetto previgente, dichiarando intanto l’illegittimità della disposizione interna (“implicita” o “presupposta”) sul patronimico, in quanto comportante l’attribuzione automatica ed esclusiva del cognome paterno anche in presenza di un accordo tra i genitori diretto ad aggiungere, fin dal momento della nascita, il cognome della madre. Tale esito, infatti, appariva d’ostacolo alla piena ed effettiva realizzazione del diritto all’identità personale del minore, la cui tutela rientra nell’alveo dell’art. 2 Cost. e al cui sviluppo contribuiscono entrambe le figure genitoriali. La pronuncia della Corte, in particolare, sfociava nella censura sia della norma desumibile, tra gli altri, dagli artt. 237, 262 e 299 c.c., là dove appunto non permetteva ai coniugi, che pure fossero d’accordo, la trasmissione del cognome materno, sia, in via consequenziale e per le medesime ragioni, dell’art. 262, primo comma, c.c., sulla filiazione extramatrimoniale, e dell’art. 299, terzo comma, c.c. sull’adozione del maggiorenne.
Ciò detto, la necessità di un intervento normativo che ridefinisse organicamente la materia, secondo criteri consoni al principio di non discriminazione tra uomo e donna e di eguaglianza tra genitori (e figli di genitori) coniugati e non coniugati, continuava nondimeno a persistere, in considerazione sia di esigenze regolative di tipo pratico, sia, soprattutto, della circostanza che, in assenza dell’accordo dei genitori, sarebbe comunque rimasta impregiudicata l’impostazione tradizionale: la quale avrebbe quindi comportato l’attribuzione al figlio del cognome paterno soltanto.
Tuttavia, poiché il legislatore ancora insisteva nella sua reticenza, la Consulta ha, infine, sollevato avanti a sé (ord. 18/2021), e poi accolto con la sentenza 131/2022, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 262, primo comma, c.c., nella parte in cui prevedeva, per l’ipotesi del riconoscimento effettuato contemporaneamente da entrambi i genitori, che il figlio assumesse il cognome del padre soltanto, anziché quelli di entrambi i genitori, nell’ordine dai medesimi concordato, fatto salvo il loro diverso accordo al momento del riconoscimento per l’attribuzione di un cognome soltanto. Solo tale soluzione, infatti, delineava una modalità attributiva, del segno che rispecchia e proietta l’identità familiare, in grado di rispettare l’eguaglianza e la pari dignità dei genitori, e di evitare così la violazione degli artt. 2 e 3 Cost. Al contrario, l’automatica attribuzione del solo cognome paterno si traduceva «nell’invisibilità della madre», manifestando una diseguaglianza fra i genitori che finiva per «riverbera[rsi] e imprime[rsi] sull’identità del figlio».
Come già per il precedente del 2016, la statuizione dispiega poi i suoi effetti, inevitabilmente, su tutti i “titoli” della filiazione, estendendosi i suoi principi anche alla norma implicita relativa al cognome nella filiazione matrimoniale e alle previsioni inerenti al cognome nella filiazione adottiva, con riferimento tanto all’adozione del minore in stato di abbandono (art. 27, primo comma, l. 184/1983), quanto all’adozione del maggiorenne (art. 299, terzo comma, c.c.).
Con quest’ultimo tassello giurisprudenziale, che ha individuato quale regola di fondo quella della trasmissione al figlio dei cognomi di entrambi i genitori, non viene peraltro rinnegata l’autonomia decisionale degli stessi, anzi: dal loro accordo, infatti, dipendono sia la determinazione dell’ordine dei rispettivi cognomi, sia, prima ancora, l’eventuale attribuzione di un cognome soltanto.
In questo senso, la Corte sottolinea, con grande equilibrio, come sarebbe a sua volta contrario ai principi costituzionali impedire ai genitori «di avvalersi, in un contesto divenuto paritario [corsivo nostro], di uno strumento attuativo del principio di eguaglianza, qual è l’accordo, per compendiare in un unico cognome il segno identificativo della loro unione, capace di permanere anche nella generazione successiva e di farsi interprete di interessi del figlio». Attraverso l’accordo, infatti, può guardarsi, in prospettiva futura, alla «funzione identitaria» che il cognome riveste per il figlio, e, per questa via, tenersi anche conto «di preesistenti profili correlati allo status filiationis, quale il legame con fratelli o sorelle, che portano il cognome di uno solo dei due genitori».
Al contempo, non risulta ancora del tutto superflua un’iniziativa del legislatore, al quale – al netto della notevole portata innovativa della pronuncia 131/2022 – resterebbe nondimeno in carico, come la stessa Consulta sottolinea, il compito di predisporre nuove regole volte sia a «impedire che l’attribuzione del cognome di entrambi i genitori comporti, nel succedersi delle generazioni, un meccanismo moltiplicatore che sarebbe lesivo della funzione identitaria del cognome», sia a realizzare «l’interesse del figlio a non vedersi attribuito – con il sacrificio di un profilo che attiene anch’esso alla sua identità familiare – un cognome diverso rispetto a quello di fratelli e sorelle».
Appare dunque opportuno un richiamo ai meccanismi che possano soddisfare tali esigenze, nonché superare l’eventuale contrasto dei genitori in merito all’ordine dei cognomi da assegnare ai figli.
Un modello di un certo interesse, quantomeno per alcune soluzioni, è quello offerto dal diritto tedesco, che consente altresì di mettere in luce le inferenze tra il tema in esame e quello del cognome coniugale: rispetto al quale, del pari, da tempo la nostra dottrina invoca una revisione dell’art. 143-bis c.c. che addivenga a una disciplina, pure qui, più allineata ai valori dell’eguaglianza dei coniugi e della loro libertà di scelta.
La normativa tedesca sul cognome dei figli è contenuta ai §§ 1616 ss. BGB, i quali derivano, nei loro tratti fondamentali, dalla legge di riforma del diritto dell’infanzia del 1997 (KindRG) e dai correttivi apportati al diritto minorile da una legge del 2002 (KindRVerbG).
Nelle disposizioni codicistiche, la regolamentazione del cognome che i figli ricevono alla nascita (Geburtsname) prende in considerazione tre ipotesi di base: a) quella in cui i figli siano nati da genitori che hanno un cognome coniugale comune (§ 1616 BGB); b) quella in cui i figli siano nati da genitori che non hanno un cognome coniugale comune, ma che nondimeno condividono la responsabilità genitoriale (§ 1617 BGB); c) quella, infine, in cui i figli siano nati da genitori dei quali uno soltanto ne abbia la responsabilità genitoriale (§ 1618 BGB).
Nell’ipotesi sub a), ai figli viene attribuito il cognome coniugale dei genitori: il quale corrisponde al cognome che i coniugi abbiano eletto quale cognome comune (Ehename), scegliendo tra quello dell’uno o dell’altro, non essendo invece ammessa la possibilità di adottare, quale cognome comune, quello risultante dall’unione dei cognomi che le parti rispettivamente portavano prima del matrimonio (§ 1355 BGB). Peraltro, è appena il caso di osservare come, nell’ipotesi in discorso, i figli finiscano, in realtà, quasi sempre per avere il cognome del solo padre, giacché, nella prassi, l’impossibilità, testé rammentata, di eleggere quale cognome comune quello di entrambi i coniugi, fa sì che, di fatto, venga quasi sempre prescelto come cognome coniugale quello del marito.
L’ipotesi sub b), diversamente, riguarda invece i figli di genitori coniugati, ma che non hanno un cognome comune, e i figli di genitori non coniugati ma che condividono comunque la responsabilità genitoriale.
Il cognome di questi figli viene determinato in base all’accordo dei genitori. Tuttavia, se i genitori non assumono una decisione entro un mese dalla nascita, il tribunale della famiglia attribuisce a uno soltanto di essi il diritto di determinazione, stabilendo eventualmente anche un termine per esercitarlo: l’inutile decorso del termine farà sì che il figlio riceva il cognome del genitore a cui il diritto di determinazione era stato riservato. La legge non prevede peraltro criteri che guidino il giudice nella scelta del genitore a cui attribuire tale potere, e solo in casi peculiari (per esempio, ove il cognome di uno dei genitori si presti a essere schernito) è plausibile che l’interesse del figlio a non ricevere un certo cognome poggi su un riscontro oggettivo.
In ogni caso, il cognome che i genitori possono attribuire al figlio deve corrispondere al cognome di uno di essi: anche qui, infatti, come nell’ipotesi sub a), non è consentita l’attribuzione al figlio del doppio cognome risultante dall’unione di quelli dei genitori. Tale preclusione è stata reputata legittima dal Tribunale costituzionale federale. Tuttavia, si osserva in dottrina (Dethloff) come essa rappresenti un disincentivo, per le donne, a conservare il proprio cognome anche dopo il matrimonio, atteso che, nella prassi, la possibilità di dare ai figli un cognome genitoriale soltanto si traduce, normalmente, nell’attribuzione del solo cognome paterno.
La determinazione del cognome che i genitori abbiano fatto per il primo figlio viene poi automaticamente seguita anche per gli ulteriori figli che la coppia dovesse avere: sicché, per esempio, i genitori non potranno concordare di attribuire al secondo figlio il cognome materno, là dove abbiano dato invece al primo figlio quello paterno. Pure questo automatismo è stato ritenuto legittimo dal Tribunale costituzionale federale, benché, è stato notato, l’unità del cognome tra germani non esprima, in realtà, una direttiva assoluta del sistema, come indirettamente rivela la regola relativa al caso in cui i genitori adottino un cognome coniugale, diverso da quello di nascita del figlio, dopo che il figlio abbia compiuto cinque anni: in tal caso, infatti, il nuovo cognome coniugale si estende al figlio solo col consenso di quest’ultimo, sicché, ove i figli siano più di uno, potrebbe avvenire che soltanto alcuni prestino tale consenso.
Infine, nell’ipotesi sub c), quando cioè i genitori non abbiano un cognome comune e uno soltanto di essi abbia la responsabilità genitoriale del minore, quest’ultimo assumerà allora il cognome di detto genitore.
A queste direttrici generali, inerenti all’attribuzione del cognome al momento della nascita, si affiancano poi altre regole concernenti, invece, le future possibilità di modifica dello stesso in caso di: successiva insorgenza della responsabilità genitoriale congiunta (§ 1617b I BGB); attribuzione della responsabilità genitoriale esclusiva a un genitore che porta un cognome diverso da quello del figlio (§ 3 NamÄndG); annullamento della paternità a seguito di impugnazione (§ 1617b II BGB); conferimento, da parte del genitore titolare della responsabilità genitoriale, esclusiva o condivisa con l’altro genitore, e del suo coniuge, che non sia genitore del figlio, del cognome coniugale al figlio che abbiano accolto nella loro casa comune (§ 1618 BGB).
Vi sono, infine, come accennato, delle situazioni in cui il sopravvenuto mutamento del cognome dei genitori, o del genitore di cui il figlio porti il cognome, può estendersi anche al figlio stesso. Si pensi, per esempio, a quando, dopo la nascita del figlio, i genitori mutino il cognome comune, o a quando il genitore, di cui il figlio porta il cognome, si sposi e assuma come cognome coniugale quello del coniuge. Si ravvisa qui una tendenza di fondo nel § 1617c BGB: fino al compimento del quinto anno, infatti, non è preso in considerazione l’interesse del minore alla continuità del cognome, il quale seguirà pertanto le modifiche subite dal cognome genitoriale; viceversa, dopo il compimento del quinto anno, l’interesse del minore a continuare a essere identificato col proprio cognome di nascita trova un chiaro riconoscimento nella regola che esclude ogni automatismo a favore, invece, del consenso dell’interessato (consenso che, fino ai quattordici anni, sarà espresso dai suoi rappresentanti legali, ovvero i genitori, mentre in seguito dovrà esserlo personalmente ma, fino alla maggiore età, col consenso anche del rappresentante legale).
Al termine di questa breve esposizione della normativa tedesca, possono trarsi alcune rapidissime impressioni, che, per lo scopo informativo di queste righe, saranno però limitate ai soli profili essenziali dell’attribuzione del cognome alla nascita.
Il sistema germanico può, in effetti, rappresentare un utile modello di confronto sia per le modalità di coordinamento con la disciplina del cognome coniugale (dalla quale il nostro legislatore ha peraltro tratto quella del cognome delle parti dell’unione civile: art. 1, decimo comma, l. 76/2016), sia, in prospettiva più immediata, per quanto riguarda l’eventualità che i figli di una medesima coppia possano ricevere cognomi diversi: problema che in quel sistema, come anche in quello spagnolo, viene risolto attraverso la ragionevole cristallizzazione della scelta compiuta per il primo figlio. Più incerta, se proiettata nel nostro ordinamento, può invece apparire la regola seguita per dirimere il conflitto tra i genitori che non si trovino d’accordo sull’ordine dei cognomi da assegnare al figlio. Il ricorso al giudice, infatti, per un aspetto attinente sì allo status del minore, ma in qualche misura lasciato comunque alla disponibilità dei genitori, può apparire, per un verso, un po’ in controtendenza rispetto al processo di degiurisdizionalizzazione che sta percorrendo il nostro diritto di famiglia, e, per altro verso, forse non del tutto funzionale anche in ragione della difficoltà di individuare parametri legali utili a orientare in ogni caso la scelta del magistrato. Anche altre esperienze europee, del resto, non contemplano, in simili casi, la via giudiziale, preferendo attribuire i cognomi sulla base dell’ordine alfabetico (Francia) o di quello risultante da un’estrazione a sorte compiuta dall’ufficiale di stato civile (Lussemburgo) oppure, ancora, secondo la scelta che sempre l’ufficiale di stato civile è invece chiamato ad assumere alla luce del criterio (qui invero non sempre univoco) dell’interesse superiore del minore (Spagna). Infine, il modello tedesco muove poi da un presupposto non agevolmente conciliabile con i principi enunciati dalla nostra giurisprudenza costituzionale, ovvero quello di non ammettere mai l’attribuzione del doppio cognome. Questa opzione si fonda sulla comprensibile esigenza, avvertita anche dalla Consulta, di evitare l’innesco di un «meccanismo moltiplicatore» dei cognomi (evenienza che, per esempio, ha indotto il Portogallo a limitare a quattro i cognomi di cui una persona può essere titolare). Tale obiettivo è del tutto ragionevole, ma potrebbe nondimeno essere perseguito anche senza la necessità di sacrificare in radice uno dei due cognomi genitoriali. In tal senso, è da ricordare la soluzione predisposta dal diritto spagnolo, la quale permette a ognuno dei genitori di trasmettere soltanto il primo cognome, nell’ordine stabilito di comune accordo, lasciando tuttavia al figlio, al compimento della maggiore età, la facoltà di chiedere la modifica dell’ordine dei cognomi ricevuti, sì da predeterminare quello da passare poi ai suoi discendenti (art. 109 código civil).