Brevi riflessioni sulla rule of law nella tradizione costituzionale del Regno Unito

Fortunatamente, nella scienza giuridica che studia gli ordinamenti costituzionali di ispirazione liberal-democratica il concetto di rule of law gode oggi di ottima stampa. Non vi è lavoro scientifico sul tema che ne metta in discussione il valore irrinunciabile che si trova a fondamento di quei sistemi giuridici e, anzi, spesso si leggono preoccupate grida di allarme per l’esistenza di elementi fattuali che, contrastando con quel principio basilare, potrebbero mettere in grave pericolo la saldezza democratica di questo o quell’ordinamento.
Tutto ciò è molto positivo e testimonia quanta strada abbiano fatto le nazioni del vecchio Occidente sul terreno della civiltà giuridica. Tuttavia, quando si legge di rule of law accade spesso di imbattersi in una certa vaghezza definitoria e contraddittorietà concettuale. In realtà, queste difficoltà non sono stupefacenti perché si spiegano molto bene con il fatto che si tratta di un concetto semplice e complesso al tempo stesso. Semplice perché intuitivo: evoca una molteplicità di idee che stanno alla base del principio dei limiti al potere (governo limitato, dominio della legge in luogo della volontà di sopraffazione degli uomini, assenza di arbitrio nella gestione del potere, uguaglianza di fronte alla legge, e così via). Ma anche complesso, perché sfuggente proprio a causa di questa molteplicità di rimandi concettuali. Inoltre, la scienza giuridica che scrive in una lingua diversa dall’inglese sconta un’ulteriore difficoltà legata all’impossibilità di tradurre precisamente ed efficacemente questa espressione, anche con locuzioni come Stato di diritto o dominio della legge. Forse bisognerebbe sempre ricorrere all’utilizzo delle virgolette, che però non farebbero altro che certificare questa difficoltà.
Tutte queste problematiche sono legate da una ragione profonda di cui bisognerebbe prendere atto: le radici della rule of law sono tutte interne alla tradizione giuridica inglese e, pertanto, la ricerca del suo significato reale non può che partire da lì, con il corollario di una rinuncia programmatica a sovrapporvi concetti tipici della più recente tradizione continentale come, per esempio, lo Stato di diritto.
Ecco, allora, la necessità di tornare ad indagare, anche per la scienza costituzionalistica e comparatistica, sul contesto in cui il principio è sorto e si è affermato, ovvero il sistema giuridico di common law, intrecciato con quei documenti costituzionali grazie a cui, almeno dalla Magna Carta in poi, si è andata formando la costituzione inglese.
Ebbene, in questo quadro il principio di rule of law è caratterizzato da un’essenza concettuale, un nucleo che non può essere scalfito dallo scorrere del tempo e che deve essere gelosamente conservato dal popolo che lo ha costituito, pena la perdita della propria identità: l’instaurazione di un rapporto di tipo orizzontale tra individuo e poteri pubblici. Ed è opportuno ribadire come questo nucleo forte del principio si costituisca non grazie alla legislazione parlamentare ma molto prima e indipendentemente da essa, e cioè in virtù, appunto, dei fondamenti ancestrali della common law, che affondano le radici addirittura nella lex angliae pre-normanna, e al successivo lavoro di omogeneizzazione assicurato dalle Corti del sovrano, soprattutto quelle itineranti sul territorio.
Come scrisse molto efficacemente Nicola Matteucci: «La rule of law consiste nella eredità medievale della supremazia della legge, di una legge che né il governo può violare, né il Parlamento radicalmente cambiare, proprio perché nella concezione medievale nessuno «fa» la legge; essa non deriva dall’atto di volontà di un singolo o di una maggioranza nella misura in cui la legge viene semplicemente dichiarata o ricordata; e soltanto in caso di una lacuna interviene – in funzione meramente suppletiva – il re con l’equity o il Parlamento con uno statuto. Questa legge antica e immemoriale, la common law, si fonda nel consenso, non in quello di una assemblea, ma in quello tacito delle popolazioni, comprovato dall’uso delle generazioni» (brano tratto dall’introduzione scritta da N. Matteucci a C.H. McIlwain, La Rivoluzione americana, Bologna, il Mulino, 1965, p. 26).
Ovviamente tanti altri pensatori hanno riflettuto a lungo sui caratteri classici della rule of law, intendendola appunto in senso ampio e non formalista, come insieme di principi fondamentali che limitano tutti i poteri politici. Tra questi, mi piace qui ricordare Bruno Leoni e Friedrich von Hayek che, in un momento storico in cui il mainstream si rivolgeva esclusivamente ad una concezione normativista e formalista del diritto, hanno avuto il merito di mettere bene in luce il vero ruolo del giudice di common law, cioè di colui che attraverso la discovery scopre la regola da applicare al caso singolo (law finding, dunque, e non law making, come normalmente si crede), facendo così evolvere il diritto nel tempo.
Assunte queste coordinate risulta poi relativamente semplice comprendere le differenze ontologiche tra rule of law e Stato di diritto. Quella basilare consiste appunto nel rapporto tra cittadino e Stato rispetto al tema della libertà. Se la prima postula una relazione di tipo orizzontale, con lo Stato che si fa garante del rispetto di libertà e diritti individuali che esistono da prima che lo Stato stesso si formasse perché emersi dal basso, da una società che anela alla libertà, il secondo è invece il frutto della formazione o della trasformazione dello Stato moderno da assoluto a liberale, ed è quindi inevitabile che sia lo Stato a determinare gli spazi entro cui esercitare libertà e diritti.
Naturalmente è noto come, a partire almeno dal XIX secolo, a questi caratteri classici dell’ordinamento britannico si sia affiancato il portato della legislazione parlamentare. Sulla spinta delle riforme di ispirazione benthamiana, in particolare del Great Reform Act 1832 (che non a caso gli inglesi chiamano anche the modern constitution), che innescano un radicale processo riformatore della forma di governo, dando gradualmente vita a quello che chiamiamo Westminster model, le forze politiche stabiliscono un solido radicamento territoriale che prima non avevano e, di conseguenza, il Parlamento acquisisce una spiccata capacità rappresentativa che costituirà il motore politico dell’incremento della funzione legislativa. Una legislazione che finirà per imporsi come un nuovo decisivo pilastro ordinamentale per l’evoluzione della società britannica, un’evoluzione che da sola la tradizione di common law non era più in grado di assicurare non disponendo di strumenti sufficienti per rispondere alle esigenze sociali determinate dalla rivoluzione industriale.
Tale evoluzione pone il problema dell’intreccio tra rule of law e sovereignty of parliament, la loro compatibilità e le loro latenti tensioni. Tematiche su cui i constitutional lawyers britannici hanno dibattuto a lungo e intensamente, almeno a partire dalla pubblicazione nel 1885 della prima edizione di Introduction to the Study of the Law of the Constitution di Dicey. Paradossalmente questa opera venne accusata di legicentrismo potenzialmente autoritario in quanto poneva la sovranità del parlamento tra i principi fondanti del costituzionalismo britannico. In realtà in Dicey la sovereignty of parliament non è mai intesa in antitesi alla forza dei principi tradizionali e del sistema giuridico di common law, ma anzi come un completamento degli strumenti giuridici a difesa delle libertà degli inglesi. La sua visione, cioè, è tutt’altro che autoritaria e intende calare i capisaldi della costituzione ereditaria in un contesto, quello di fine Ottocento, in cui il processo di democratizzazione è ormai innescato e il Parlamento si propone sempre più come il luogo della rappresentanza popolare, dedito alla legislazione e non direttamente coinvolto nelle funzioni esecutive.
Tuttavia, non vi è dubbio che, almeno sul piano teorico, in un ordinamento costituzionale con i caratteri di quello britannico esista sempre una potenziale tensione tra principi superiori e intangibili rinvenibili nell’essenza tradizionale della rule of law e capacità del Parlamento di innovare l’ordinamento. E se in materia costituzionale conflitti di questa natura non sono mai esplosi è stato solo grazie ad un quanto mai opportuno self-restraint dei giudici che hanno preferito evitare di trascinare la common law sul terreno dello scontro politico, lasciando alle dispute tra gli organi politici il compito di tracciare gli assetti costituzionali e i relativi mutamenti.
E questo è sempre stato vero per la costituzione inglese. Infatti, come chiarisce Ivor Jennings, è stato grazie al modus vivendi trovato dopo la Glorious Revolution tra Parlamento e apparato di common law, le due istituzioni uscite vittoriose dalle lotte secentesche per il potere, che gli equilibri costituzionali hanno retto per secoli in assenza di una costituzione scritta e, più in generale, di una carente giuridicizzazione dei rapporti tra gli organi costituzionali. Fin dai primi decenni del Settecento prevale la cultura Whig secondo cui l’ambito costituzionale è appannaggio del Parlamento mentre la funzione di garanzia del rispetto delle libertà tradizionali rimane il terreno della common law e dei suoi giudici (cfr. I. Jennings, The Law and the Constitution, London, London University Press, quinta edizione, 1967, pp. 158-160).
In virtù di tutte queste evoluzioni e trasformazioni oggi i caratteri moderni della rule of law risultano ricomprendere tutta questa complessa stratificazione di elementi diversi. Pertanto, ne fanno parte sia i canoni tradizionali della common law, con i suoi principi tanto risalenti quanto tuttora validi e con il ruolo peculiare del giudice come “scopritore” del diritto da applicare alla fattispecie, sia quelli legati al “modello Westminister” e alla forza giuridica della legislazione prodotta dal Parlamento, soprattutto in materia di diritti e garanzie per i cittadini, come dimostrano le recenti sentenze della High Court of Justice e della Supreme Court of the United Kingdom in tema di attivazione dell’art. 50 TUE come conseguenza del risultato del referendum Brexit.