Windsor Framework, ovvero come gestire la Brexit cercando la quadratura del cerchio

Fin dal giorno successivo a quello della celebrazione del Referendum Brexit fu subito chiaro a tutti gli osservatori sulle due sponde della Manica che le problematiche relative all’Irlanda del Nord avrebbero rappresentato uno degli ostacoli più delicati del negoziato tra Regno Unito e Unione Europea. Ebbene, si sbagliavano: gli anni seguenti hanno dimostrato che l’Ulster Conundrum costituiva di gran lunga il tema più intricato e difficilmente risolvibile sulla strada di una Brexit ordinata e concordata.
Se ne accorse per prima Theresa May che per un anno e mezzo cercò di negoziare con Juncker una soluzione giuridica che trovasse l’apprezzamento delle istituzioni e delle forze politiche a Londra e a Belfast. Si trattava del celebre Backstop che però, contrariamente alle aspettative, le costò sonore e reiterate sconfitte parlamentari, tali da convincerla a dimettersi nella primavera del 2019. In realtà, al di là dei meriti o dei demeriti della Premier, la questione era, e rimane tutt’ora, una sorta di rompicapo poiché presuppone la necessità di tenere insieme due elementi difficilmente conciliabili. In estrema sintesi: da una parte, dare seguito alla Brexit anche in Irlanda del Nord, in quanto parte integrante del Regno Unito; dall’altra, evitare di rimettere in discussione il processo di pace ricostruendo un confine, simbolico e fisico, tra la Repubblica d’Irlanda e l’Ulster.
Nell’estate del 2019 Boris Johnson, uno dei più convinti affossatori del Backstop, vinse il Tory Contest per la leadership (e la premiership) anche in virtù della promessa di stipulare con la UE un nuovo accordo complessivo per un recesso ordinato del Regno Unito (Withdrawal Agreement 2019) e, in quel quadro, di trovare una soluzione diversa per questa questione, accettabile da parte di tutte le forze in campo. Così, nel mese di ottobre, il nuovo Primo ministro trova un’intesa con l’Unione Europea (Northern Ireland Protocol) con cui viene sancito un regime speciale per l’Ulster fondato sull’idea di una separazione tra Gran Bretagna e Irlanda del Nord per evitare la costruzione di qualunque tipo di barriera interna al territorio irlandese (cfr. F. Fabbrini (ed.), The Protocol on Ireland/Northern Ireland, Oxford University Press, Oxford, 2022). Dal punto di vista dei commerci dei beni il regime giuridico del territorio nord-irlandese viene assimilato a quello della Repubblica d’Irlanda, per cui i controlli doganali sulle merci provenienti dalla Gran Bretagna verso l’Irlanda del Nord verranno compiuti dove già esistono strutture con questi compiti: porti e aeroporti. In sostanza, si conviene la fictio giuridica di spostare in mare un immaginario confine attraverso cui far transitare le merci, in omaggio alla preoccupazione comune di non erigere un nuovo confine di terra. Inoltre, viene sancito il potere dell’Assemblea di Stormont di scrutinare periodicamente l’andamento in concreto dei termini dell’accordo, con la possibilità di votare per una sua conferma nel tempo oppure per togliergli il consenso dei rappresentanti del popolo nord-irlandese, con conseguente cessazione della sua efficacia.
Come è noto, Johnson avrà poi bisogno di un passaggio elettorale per far ratificare tutti gli accordi sulla fuoriuscita del Regno Unito, celebrare il Brexit Day il 31 gennaio 2020 e stipulare, alla vigilia di Natale del 2020, l’accordo di buon vicinato con la UE (UK-EU Trade and Cooperation Agreement).
Dall’inizio del 2021 anche il Protocollo sull’Irlanda del Nord comincia a dispiegare i suoi effetti e fin da subito mostra la corda, messo a dura prova dalle difficoltà imposte dalla vita quotidiana. Il Governo del Regno Unito è costretto a prendere atto che il Protocol, a dispetto della buona volontà delle parti, non è riuscito a scongiurare i paventati rischi di appesantimenti burocratici nella circolazione dei beni, con conseguenti difficoltà perfino negli approvvigionamenti. Ma importanti problemi si presentano anche sul piano politico. Il Democratic Unionist Party non ha mai accettato i termini del Protocol, lamentando l’apertura di un’intollerabile frattura tra la Gran Bretagna e lo status giuridico dell’Ulster, e così nel febbraio del 2022 il First Minister del DUP, Paul Givan, si dimette, anche per protestare contro le stringenti modalità adottate dalla UE per l’applicazione delle nuove regole fin dai primi giorni successivi all’entrata in vigore. Una posizione che causa l’impossibilità di formare un Esecutivo, che il Good Friday Agreement 1998 prevede necessariamente bicefalo. La situazione si complica ulteriormente dopo che le elezioni anticipate di maggio vedono la prevalenza per la prima volta dello Sinn Féin.
Dunque, di fronte ad una situazione così intricata e senza realistiche prospettive di sblocco, al Governo Sunak non resta che puntare tutto su un serio negoziato con l’Unione Europea per rivedere le regole del Protocol e cercare insieme una soluzione vantaggiosa per tutti. Fortunatamente un discreto appoggio viene offerto da una sentenza della Corte Suprema del Regno Unito dell’8 febbraio di quest’anno ([2023] UKSC 5) che, respingendo un paio di ricorsi provenienti dal mondo Unionista, sancisce la legittimità di tutte le parti del Protocol rispetto al Good Friday Agreement 1998. Questa pronuncia consente a UK e UE di imboccare l’ultimo tratto del negoziato nella consapevolezza che la base giuridica di partenza, su cui innestare le opportune modifiche, non presenta profili di illegittimità.
Ebbene, al termine di un lungo e tormentato negoziato, finalmente il 27 febbraio 2023, il Regno Unito e l’Unione Europea sono in grado di annunciare, con una conferenza stampa congiunta tra Sunak e von der Leyen tenuta a Windsor, la stipulazione di un accordo sull’Irlanda del Nord che modifica sensibilmente il Protocol del 2019: appunto, The Windsor Framework.
Come era facilmente prevedibile, considerata la complessità e la delicatezza dei temi oggetto del negoziato, si tratta di un accordo complesso, dettagliato e di non facile lettura, che si compone di una Political Declaration e di numerosi documenti che entrano nei dettagli specifici. Tuttavia, si presta ad essere sintetizzato in ragione di alcuni aspetti fondamentali.
Innanzitutto, è doveroso mettere in luce che cosa viene ribadito e mantenuto dello spirito e della lettera del vecchio Protocol. Intanto, permane l’esigenza di fondo di non ripristinare un confine di terra tra le due parti dell’Isola Verde. Pertanto, si tiene ferma la convenzione del confine di mare. Inoltre, si continua a prendere atto che l’Irlanda del Nord è una sorta di territorio comune a due “single market”: il Mercato Unico dell’Unione Europea e l’Internal Market britannico. Ed è opportuno che continui a fare parte di entrambi proprio per evitare che si riaprano antiche fratture.
Dentro questi doverosi limiti, le parti concordano le necessarie modifiche per tentare di risolvere, o per lo meno alleggerire, le problematiche emerse nei due anni di applicazione del Protocol, soprattutto in relazione alla circolazione di determinate categorie di merci, alla sburocratizzazione degli adempimenti per gli operatori commerciali, alla facilitazione delle pratiche di import/export. Quindi, l’accordo verte in particolare sulle procedure doganali, sui prodotti del settore agri-food, sui medicinali, sull’applicazione della VAT e delle accise.
Per raggiungere gli obiettivi concordati nel negoziato, la principale innovazione è costituita dall’istituzione di due regimi doganali diversi in funzione della destinazione di ogni singolo bene.
Imboccheranno un corridoio privilegiato (Green Lane) le merci prodotte in Gran Bretagna e destinate ad essere consumate in Irlanda del Nord. Questi beni di largo consumo e utilizzo, come cibo, piante o sementi, non subiranno alcun controllo aggiuntivo rispetto a quelli che normalmente avvengono anche all’interno di un territorio omogeneo per contrastare abusi o rischi di altro genere. Di conseguenza, nella Green Lane saranno applicati gli standard di sicurezza per la salute pubblica in vigore nel Regno Unito; per i padroni di animali da compagnia sarà molto più facile farsi accompagnare nei viaggi; i prodotti tipici torneranno a circolare liberamente su tutto il territorio del regno.
Invece, le merci destinate alla Repubblica d’Irlanda, cioè nel Mercato Unico dell’Unione Europea, entreranno in un altro regime giuridico (Red Lane), rimanendo soggette alle procedure doganali e ai controlli sanitari previsti dalla UE.
Regole specifiche sono inoltre previste per assicurare la possibilità ai cittadini dell’Irlanda del Nord di avere accesso immediato a tutti i medicinali, compressi quelli di nuova produzione.
Il rispetto della distinzione fondata sulla destinazione dei beni sarà assicurato da un’intensa e costante attività congiunta di monitoraggio, nonché dalla condivisione di dati e informazioni.
Quanto alle questioni fiscali, le parti hanno concordato su alcune misure di principio, che andranno poi ulteriormente dettagliate e implementate, che tengano conto della collocazione dell’Ulster nello UK Internal Market e al tempo stesso proteggano la UE da rischi di frodi o abusi.
Oltre a tutti questi aspetti di carattere economico, l’altra grande innovazione dello Windsor Framework riguarda il piano istituzionale. Le parti hanno concordato un meccanismo procedurale, chiamato Stormont Brake, che permetterà ai membri dell’Assemblea Legislativa di bloccare l’applicazione sul suo territorio di cambiamenti e abrogazioni di atti giuridici decisi dalle istituzioni europee e riguardanti l’oggetto del Framework, i cui effetti abbiano un impatto significativo sulla vita di tutti i giorni in Irlanda del Nord. La procedura ricalca quella della Petition of Concern, un istituto contemplato fin dall’Accordo di Pace del 1998 e disciplinato nei Devolution Acts nord-irlandesi. Se almeno 30 MLA, appartenenti a due o più partiti, chiederanno la sua attivazione si aprirà una fase istruttoria per capire la portata dell’innovazione del diritto europeo e le sue conseguenze sul territorio, al termine della quale l’Assemblea sarà chiamata a votare con i criteri del cross-community support. In sostanza, il freno di emergenza sarà tirato se voteranno a favore la maggioranza dei membri, e contemporaneamente sia la maggioranza dei deputati nazionalisti sia quella dei rappresentanti unionisti; oppure, rispettivamente il 60% del totale e il 40% di ciascuna comunità. In caso di attivazione è riconosciuta al Governo del Regno Unito la possibilità di porre un veto all’applicazione delle nuove norme all’Irlanda del Nord.
Come si vede, un accordo articolato e complicato ma pieno di ottime intenzioni da parte di entrambi i contraenti. Sarà risolutivo di tutti i problemi riguardanti l’isola irlandese? Probabilmente no, ma certamente appare un passo avanti importante verso una sorta di quadratura del cerchio che la Brexit ha imposto di ricercare a tutti i player in campo.

 


Brevi riflessioni sulla rule of law nella tradizione costituzionale del Regno Unito

Fortunatamente, nella scienza giuridica che studia gli ordinamenti costituzionali di ispirazione liberal-democratica il concetto di rule of law gode oggi di ottima stampa. Non vi è lavoro scientifico sul tema che ne metta in discussione il valore irrinunciabile che si trova a fondamento di quei sistemi giuridici e, anzi, spesso si leggono preoccupate grida di allarme per l’esistenza di elementi fattuali che, contrastando con quel principio basilare, potrebbero mettere in grave pericolo la saldezza democratica di questo o quell’ordinamento.
Tutto ciò è molto positivo e testimonia quanta strada abbiano fatto le nazioni del vecchio Occidente sul terreno della civiltà giuridica. Tuttavia, quando si legge di rule of law accade spesso di imbattersi in una certa vaghezza definitoria e contraddittorietà concettuale. In realtà, queste difficoltà non sono stupefacenti perché si spiegano molto bene con il fatto che si tratta di un concetto semplice e complesso al tempo stesso. Semplice perché intuitivo: evoca una molteplicità di idee che stanno alla base del principio dei limiti al potere (governo limitato, dominio della legge in luogo della volontà di sopraffazione degli uomini, assenza di arbitrio nella gestione del potere, uguaglianza di fronte alla legge, e così via). Ma anche complesso, perché sfuggente proprio a causa di questa molteplicità di rimandi concettuali. Inoltre, la scienza giuridica che scrive in una lingua diversa dall’inglese sconta un’ulteriore difficoltà legata all’impossibilità di tradurre precisamente ed efficacemente questa espressione, anche con locuzioni come Stato di diritto o dominio della legge. Forse bisognerebbe sempre ricorrere all’utilizzo delle virgolette, che però non farebbero altro che certificare questa difficoltà.
Tutte queste problematiche sono legate da una ragione profonda di cui bisognerebbe prendere atto: le radici della rule of law sono tutte interne alla tradizione giuridica inglese e, pertanto, la ricerca del suo significato reale non può che partire da lì, con il corollario di una rinuncia programmatica a sovrapporvi concetti tipici della più recente tradizione continentale come, per esempio, lo Stato di diritto.
Ecco, allora, la necessità di tornare ad indagare, anche per la scienza costituzionalistica e comparatistica, sul contesto in cui il principio è sorto e si è affermato, ovvero il sistema giuridico di common law, intrecciato con quei documenti costituzionali grazie a cui, almeno dalla Magna Carta in poi, si è andata formando la costituzione inglese.
Ebbene, in questo quadro il principio di rule of law è caratterizzato da un’essenza concettuale, un nucleo che non può essere scalfito dallo scorrere del tempo e che deve essere gelosamente conservato dal popolo che lo ha costituito, pena la perdita della propria identità: l’instaurazione di un rapporto di tipo orizzontale tra individuo e poteri pubblici. Ed è opportuno ribadire come questo nucleo forte del principio si costituisca non grazie alla legislazione parlamentare ma molto prima e indipendentemente da essa, e cioè in virtù, appunto, dei fondamenti ancestrali della common law, che affondano le radici addirittura nella lex angliae pre-normanna, e al successivo lavoro di omogeneizzazione assicurato dalle Corti del sovrano, soprattutto quelle itineranti sul territorio.
Come scrisse molto efficacemente Nicola Matteucci: «La rule of law consiste nella eredità medievale della supremazia della legge, di una legge che né il governo può violare, né il Parlamento radicalmente cambiare, proprio perché nella concezione medievale nessuno «fa» la legge; essa non deriva dall’atto di volontà di un singolo o di una maggioranza nella misura in cui la legge viene semplicemente dichiarata o ricordata; e soltanto in caso di una lacuna interviene – in funzione meramente suppletiva – il re con l’equity o il Parlamento con uno statuto. Questa legge antica e immemoriale, la common law, si fonda nel consenso, non in quello di una assemblea, ma in quello tacito delle popolazioni, comprovato dall’uso delle generazioni» (brano tratto dall’introduzione scritta da N. Matteucci a C.H. McIlwain, La Rivoluzione americana, Bologna, il Mulino, 1965, p. 26).
Ovviamente tanti altri pensatori hanno riflettuto a lungo sui caratteri classici della rule of law, intendendola appunto in senso ampio e non formalista, come insieme di principi fondamentali che limitano tutti i poteri politici. Tra questi, mi piace qui ricordare Bruno Leoni e Friedrich von Hayek che, in un momento storico in cui il mainstream si rivolgeva esclusivamente ad una concezione normativista e formalista del diritto, hanno avuto il merito di mettere bene in luce il vero ruolo del giudice di common law, cioè di colui che attraverso la discovery scopre la regola da applicare al caso singolo (law finding, dunque, e non law making, come normalmente si crede), facendo così evolvere il diritto nel tempo.
Assunte queste coordinate risulta poi relativamente semplice comprendere le differenze ontologiche tra rule of law e Stato di diritto. Quella basilare consiste appunto nel rapporto tra cittadino e Stato rispetto al tema della libertà. Se la prima postula una relazione di tipo orizzontale, con lo Stato che si fa garante del rispetto di libertà e diritti individuali che esistono da prima che lo Stato stesso si formasse perché emersi dal basso, da una società che anela alla libertà, il secondo è invece il frutto della formazione o della trasformazione dello Stato moderno da assoluto a liberale, ed è quindi inevitabile che sia lo Stato a determinare gli spazi entro cui esercitare libertà e diritti.
Naturalmente è noto come, a partire almeno dal XIX secolo, a questi caratteri classici dell’ordinamento britannico si sia affiancato il portato della legislazione parlamentare. Sulla spinta delle riforme di ispirazione benthamiana, in particolare del Great Reform Act 1832 (che non a caso gli inglesi chiamano anche the modern constitution), che innescano un radicale processo riformatore della forma di governo, dando gradualmente vita a quello che chiamiamo Westminster model, le forze politiche stabiliscono un solido radicamento territoriale che prima non avevano e, di conseguenza, il Parlamento acquisisce una spiccata capacità rappresentativa che costituirà il motore politico dell’incremento della funzione legislativa. Una legislazione che finirà per imporsi come un nuovo decisivo pilastro ordinamentale per l’evoluzione della società britannica, un’evoluzione che da sola la tradizione di common law non era più in grado di assicurare non disponendo di strumenti sufficienti per rispondere alle esigenze sociali determinate dalla rivoluzione industriale.
Tale evoluzione pone il problema dell’intreccio tra rule of law e sovereignty of parliament, la loro compatibilità e le loro latenti tensioni. Tematiche su cui i constitutional lawyers britannici hanno dibattuto a lungo e intensamente, almeno a partire dalla pubblicazione nel 1885 della prima edizione di Introduction to the Study of the Law of the Constitution di Dicey. Paradossalmente questa opera venne accusata di legicentrismo potenzialmente autoritario in quanto poneva la sovranità del parlamento tra i principi fondanti del costituzionalismo britannico. In realtà in Dicey la sovereignty of parliament non è mai intesa in antitesi alla forza dei principi tradizionali e del sistema giuridico di common law, ma anzi come un completamento degli strumenti giuridici a difesa delle libertà degli inglesi. La sua visione, cioè, è tutt’altro che autoritaria e intende calare i capisaldi della costituzione ereditaria in un contesto, quello di fine Ottocento, in cui il processo di democratizzazione è ormai innescato e il Parlamento si propone sempre più come il luogo della rappresentanza popolare, dedito alla legislazione e non direttamente coinvolto nelle funzioni esecutive.
Tuttavia, non vi è dubbio che, almeno sul piano teorico, in un ordinamento costituzionale con i caratteri di quello britannico esista sempre una potenziale tensione tra principi superiori e intangibili rinvenibili nell’essenza tradizionale della rule of law e capacità del Parlamento di innovare l’ordinamento. E se in materia costituzionale conflitti di questa natura non sono mai esplosi è stato solo grazie ad un quanto mai opportuno self-restraint dei giudici che hanno preferito evitare di trascinare la common law sul terreno dello scontro politico, lasciando alle dispute tra gli organi politici il compito di tracciare gli assetti costituzionali e i relativi mutamenti.
E questo è sempre stato vero per la costituzione inglese. Infatti, come chiarisce Ivor Jennings, è stato grazie al modus vivendi trovato dopo la Glorious Revolution tra Parlamento e apparato di common law, le due istituzioni uscite vittoriose dalle lotte secentesche per il potere, che gli equilibri costituzionali hanno retto per secoli in assenza di una costituzione scritta e, più in generale, di una carente giuridicizzazione dei rapporti tra gli organi costituzionali. Fin dai primi decenni del Settecento prevale la cultura Whig secondo cui l’ambito costituzionale è appannaggio del Parlamento mentre la funzione di garanzia del rispetto delle libertà tradizionali rimane il terreno della common law e dei suoi giudici (cfr. I. Jennings, The Law and the Constitution, London, London University Press, quinta edizione, 1967, pp. 158-160).
In virtù di tutte queste evoluzioni e trasformazioni oggi i caratteri moderni della rule of law risultano ricomprendere tutta questa complessa stratificazione di elementi diversi. Pertanto, ne fanno parte sia i canoni tradizionali della common law, con i suoi principi tanto risalenti quanto tuttora validi e con il ruolo peculiare del giudice come “scopritore” del diritto da applicare alla fattispecie, sia quelli legati al “modello Westminister” e alla forza giuridica della legislazione prodotta dal Parlamento, soprattutto in materia di diritti e garanzie per i cittadini, come dimostrano le recenti sentenze della High Court of Justice e della Supreme Court of the United Kingdom in tema di attivazione dell’art. 50 TUE come conseguenza del risultato del referendum Brexit.


La Brexit tra Crown’s prerogative e diritti fondamentali: nota alla sentenza della High Court of Justice sul caso “Miller”

L’articolato puzzle di cui si compone la vicenda Brexit si è arricchito di un nuovo tassello. Finora i protagonisti erano stati Governo, Parlamento e Corpo elettorale. Questa volta, a collocare un nuovo elemento nel gioco, è il potere giudiziario, che fa così ingresso in questa storica partita che vede in palio il futuro del Regno Unito e dell’Unione Europea. Non era per nulla scontato che dopo il voto dello scorso giugno, con il conseguente aggrovigliato dibattito circa le modalità di attivazione della procedura di cui all’art. 50 del TUE, sarebbero intervenuti i giudici dell’Alta Corte londinese con una pronuncia di grande rilevanza e impatto. Un tassello destinato a produrre effetti profondi almeno su due aspetti cruciali del sistema costituzionale britannico: lo spettro d’azione e i correlati limiti della Crown’s prerogative (ovvero la titolarità delle decisioni in materia di politica estera in capo al vertice del Potere esecutivo, come sostenuto già da John Locke nel Secondo trattato sul governo, laddove parlava di “Potere federativo”), ed il ruolo della Supreme Court, chiamata ora a pronunciare l’ultima parola, in virtù di un ricorso per impugnazione prontamente presentato dal Secretary of State for Exiting the European Union, in una vicenda in cui l’unica certezza è paradossalmente costituita dalla mancanza di certezze, come dimostrano le accese discussioni aperte da mesi tra i costituzionalisti d’oltremanica sui molteplici aspetti giuridici della Brexit.

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