Coabitazione all’americana

Chissà se l’American Taxpayer Relief Act appena approvato finalmente da entrambi i rami del Congresso manterrà la promessa di dare vero sollievo al popolo americano, dopo averlo tenuto con il fiato sospeso dal giorno dopo le elezioni presidenziali di inizio novembre. A dire il vero, in materia di bilancio federale il primo mandato di Obama, che si chiuderà ufficialmente il 20 gennaio prossimo, giorno dell’insediamento del Presidente eletto, ha riservato più di un colpo di scena e fatto tenere il fiato sospeso fino all’orlo del precipizio.

La storia comincia nella primavera del 2011, con la cosiddetta debt-ceiling crisis (crisi del tetto del debito). Il Congresso degli Stati Uniti può, secondo l’Articolo 1, Sezione 8 della Costituzione federale, contrarre debiti per conto degli Stati Uniti. Questo ha implicato che, fino al 1917, il Congresso provvedeva ad autorizzare ogni singola erogazione del debito nazionale. Nella congiuntura della Prima Guerra Mondiale, invece, al fine di rendere il meccanismo di finanziamento della spesa più elastico ed agevole, si emanò una legge con la quale si fissava annualmente il tetto massimo di Buoni del Tesoro che potevano essere immessi sul mercato per finanziare la spesa pubblica.

Ogni anno, il Presidente sottopone all’approvazione del Congresso il federal budget, il bilancio nazionale, cioè, che fissa l’ammontare delle entrate fiscali e della spesa pubblica. Se, nel corso dell’anno finanziario, si dà il caso di un budget deficit, cioè di un disavanzo nel bilancio federale in ragione di una leva fiscale insufficiente rispetto alle spese, il Presidente può proporre di attingere al public debt, contraendo prestiti tramite il Tesoro. Se serve aumentare il tetto del debito, che restringe l’autorità del Dipartimento del Tesoro di contrarre debiti oltre una certa soglia, il voto del Congresso è di norma una pura formalità, dal momento che si tratta di fondi che serviranno per sostenere le azioni di governo già decise dal Congresso stesso e dal Presidente. Se così non fosse, l’amministrazione federale sarebbe nell’impossibilità di finanziare la spesa così come è stata decisa dagli atti approvati dal Congresso, con le spiacevoli conseguenze facili da immaginare.

Non è andata così nel 2011. In quella occasione, il voto della maggioranza del Congresso necessario ad elevare il tetto del debito non si rese così facilmente disponibile. Solo alla fine di luglio, dopo mesi di stallo, il Presidente Obama e lo Speaker repubblicano della Camera dei Rappresentanti John Boehner annunciarono un accordo che si sarebbe tradotto nel Budget Control Act, con cui tempestivamente il debt ceiling fu elevato di 400 miliardi di dollari, al prezzo di una riduzione della spesa più alta dello stesso aumento del debito e di un divieto assoluto di inasprire la leva fiscale. La riluttanza dei Repubblicani a votare qualsiasi legge che non prevedesse un’immediata e significativa riduzione della spesa e la loro indisponibilità fino all’ultimo a qualsiasi tentativo di compromesso fu indotta dalle pressioni del Tea Party Movement, anima radicale e ultraconservatrice del partito. In quel frangente, gli Stati Uniti rischiarono il default del debito sovrano, in assenza di fondi sufficienti a ripagare gli interessi sui Buoni del Tesoro. Tre giorni dopo l’approvazione della legge, Standard & Poor’s abbassò il rating dei Buoni del Tesoro americani per la prima volta nella storia del paese.

Il secondo episodio di suspence finanziaria, appena conclusosi, ha riguardato il cosiddetto fiscal cliff, cioè la consistente riduzione (di circa la metà) del budget deficit prevista per il 2013, dovuta alla concomitanza dell’aumento della pressione fiscale e dei tagli alla spesa come previsti dalla legislazione posta in essere già durante l’amministrazione Bush. Alla mezzanotte del 31 dicembre 2012, stante il raggiungimento già avvenuto del debt ceiling, sarebbero scattati seicento miliardi di dollari di tasse, a danno prevalentemente dei lavoratori – con conseguenti rischi di recessione e di aumento della disoccupazione già paventati dalla Federal Reserve di Bernanke e dal Fondo Monetario di Lagarde – e, contestualmente, tagli draconiani alla spesa pubblica, tra cui cinquanta miliardi tolti alla difesa ed altrettanti al programma Medicare. L’approvazione del Senato dell’American Taxpayer Relief Act è arrivata in articulo mortis alle due del mattino del 1 gennaio 2013, mentre quella della Camera circa venti ore più tardi.

Si può dire che l’amministrazione americana si sia affacciata sul baratro fino quasi a precipitarvi ma che, in ultimo, tutto è bene quel che finisce bene. Va tuttavia tenuto presente che, dall’agosto 2011, data di approvazione del Budget Control Act, sono passati invano 507 giorni utili ad affrontare il problema senza che il Congresso sia riuscito a partorire una qualsiasi concreta ipotesi di legge, essendo il fronte repubblicano per una rigorosa riduzione della spesa a tassazione invariata (più che un no politico, quello alle tasse, un no culturale, contro ogni senso di comunità), e coi Democratici che spingevano per una combinazione di tagli e aumento della pressione fiscale.

Ora, può essere che parte della responsabilità del fallimento della politica economica di questi ultimi anni sia l’introversione del Presidente Obama, la sua imperizia a scegliersi i collaboratori, a cominciare da Rahm Emanuel, e la sua insofferenza a lavorarsi i membri del Congresso per ottenerne il supporto, secondo il giudizio che ne ha dato Bob Woodward, il giornalista del Watergate, nel suo ultimo libro «The Price of Politics». Ma forse vale la pena di andare a guardare direttamente dentro uno dei problemi più critici della forma di governo americana, e cioè la coabitazione tra Presidente e maggioranze diverse al Congresso.

Si sa, la scarsa disciplina interna e la modestissima connotazione ideologica dei partiti americani fanno sì che il Presidente possa trovare un terreno di negoziazione e di compromesso anche con una maggioranza congressuale politicamente diversa, se non ostile. Del resto, di norma non può dare per scontati nemmeno i voti dei senatori e dei deputati del suo stesso partito. Solo questo dettaglio, che deriva dalla tradizione più antica della storia istituzionale degli Stati Uniti, impedisce la paralisi istituzionale, l’impossibilità di legiferare e governare.

Più o meno solo una dozzina di presidenti, a partire dal 1787, hanno potuto contare su una maggioranza del loro stesso partito sia alla Camera che al Senato per tutta la loro permanenza alla Casa Bianca. Di questi, solo cinque nel Novecento: Theodore Roosevelt, Franklin Delano Roosevelt, John Fitzgerald Kennedy, Lyndon Johnson e Jimmy Carter. Nixon, Ford e Bush padre ebbero entrambi i rami del Congresso contrari per tutto il tempo, Clinton per sei anni su otto; Reagan otto per la Camera e sei per il Senato, e così anche Eisenhower. Figuriamoci che neppure Washington ebbe il privilegio dell’en plein, visto che la Camera fu a maggioranza anti-federalista per due anni durante la sua presidenza.

La coabitazione è, dunque, un fenomeno tutt’altro che eccezionale. Dal 1901, anno dell’insediamento di Theodore Roosevelt al 1969, alla fine del mandato di Lyndon Johnson, gli anni di coabitazione sono stati quattordici per la Camera e dieci per il Senato. Dalla presidenza di Nixon nel 1969 al 2012, per la Camera sono stati ventiquattro e al Senato trenta. Nei primi settant’anni del Novecento la coabitazione è dunque durata meno della metà che nei successivi quaranta. Nel complesso, inaugurandosi un nuovo Congresso ogni due anni (con il Senato rinnovato per un terzo e la Camera completamente), possiamo dire che, dal 1945 al 2009, la Camera è stata a maggioranza democratica per ventisei legislature contro sette dei repubblicani e il Senato ventitré volte contro dieci. Mentre, nello stesso periodo, l’alternanza alla Casa Bianca tra repubblicani e democratici è stata quasi perfetta.

Dalle elezioni di medio termine dell’autunno 2010, il Presidente Obama convive con una maggioranza repubblicana alla Camera, potendo invece contare – anche se di misura – sulla maggioranza democratica al Senato. Al di là delle incapacità e inadeguatezze che si possano attribuire al Presidente circa la sua inabilità al dialogo ed al costante lavoro di negoziazione, lo scorso Congresso, come quello appena rinnovatosi, era caratterizzato da una forza inedita nel panorama politico, capace di estremizzare e radicalizzare il confronto: si tratta ovviamente del Tea Party Movement – dimostrazione concreta dell’assunto teorico secondo cui la forma di governo presidenziale funziona solo in assenza di componenti partitiche troppo ideologiche ed anelastiche. Il Tea Party Movement, conservatore, populista, libertario, ha tenuto e tiene ancora in ostaggio culturale una parte significativa del partito repubblicano, richiamandolo ai valori originali ed autentici della Costituzione federale e comunque contro il ruolo pubblico dello Stato, contro l’aumento della spesa, contro l’immigrazione e contro ogni compromesso politico. Peraltro, le elezioni congressuali avvenute in coincidenza con quelle presidenziali, lo scorso novembre, hanno restituito un Congresso quasi per nulla variato per maggioranze e per peso delle singole componenti ideologiche.

L’elettore americano che si reca alle urne per scegliere il suo presidente lo fa nella tradizione di chi sa che quel presidente sarà per quattro anni il padre della patria e il padrone della politica. Per quei quattro anni il suo mandato non sarà mai revocabile (Bagehot vi riconosceva l’inferiorità del modello presidenziale su quello parlamentare britannico, nel quale il Primo Ministro può sempre essere sfiduciato) e il paese diventerà quello che il presidente sarà stato capace di farne. Va da sé che la tentazione più immediata è quella di attribuire al presidente la responsabilità del mancato raggiungimento degli obiettivi, anche laddove sia stato il Congresso a non disporsi al raggiungimento di un accordo. Il partito repubblicano ostile ad Obama in certa misura ne ha approfittato, riparandosi da dirette responsabilità per il fallimento dei negoziati – ma solo in certa misura. In definitiva, rischio di paralisi istituzionale, incerta attribuzione delle responsabilità, inefficienza del sistema: è proprio vero che il punto di maggiore forza della forma di governo presidenziale è che gli americani restano ancora convinti che funzioni.