Consenso europeo, chi è costui? L’individuazione del consensus standard da parte della Corte Edu tra interpretazione evolutiva e margine d’apprezzamento.

Il consenso europeo gioca un ruolo di primo piano nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. È  infatti uno dei fattori che rilevano ai fini della determinazione del margine di apprezzamento, costituendo il discrimine tra le due declinazioni del margine: margine ampio, che si traduce in un self restraint della Corte a vantaggio della discrezionalità degli Stati membri, e margine stretto, in base al quale la Corte è legittimata ad imporre uno standard (più elevato) di protezione dei diritti garantiti dalla Convenzione.[1] Laddove poi la Corte, riconoscendo un margine stretto, proceda ad un’interpretazione evolutiva del contenuto o dello standard di tutela di un diritto, il consenso diviene lo strumento di legittimazione di tale attività interpretativa.[2] Esso opera quindi come spartiacque tra discrezionalità statale e interpretazione evolutiva, tra differenziazione e uniformità, nonché come fondamento argomentativo dell’interpretazione della Convenzione come living document.


A dispetto della sua centralità nell’applicazione della Cedu, tuttavia, il consenso europeo è ad oggi una nozione sfuggente: la Corte non ne ha mai dato una definizione, né ha delineato criteri univoci per la sua individuazione.
La regola, ammesso che di regola sia consentito parlare dinanzi ad una prassi giurisprudenziale che sfugge ad una classificazione coerente, sembra essere la determinazione del consenso sulla base di una sorta di comparazione[3] tra gli Stati parti, che in definitiva si traduce nel calcolo aritmetico delle legislazioni che prevedono o non prevedono un certo livello di tutela. Se queste vanno verso una direzione comune, allora è là che la Corte fissa lo standard al quale gli altri Stati devono adeguarsi.
La Corte non ha mai esplicitamente chiarito, ed è impossibile dedurlo in maniera univoca dal suo case law, quale debba essere il numero di Stati membri la cui legislazione prevede un certo standard di tutela, o adotta una certa nozione di un diritto, affinché questi diventino obbligatori anche per gli altri.
Il criterio predominante sembra essere quello della maggioranza, talvolta applicato secondo una concezione forte di deferenza verso gli Stati, per la quale la Corte non ritiene sufficiente una maggioranza semplice, ma richiede invece una substantial majority o addirittura l’unanimità, limitandosi così a prendere atto delle evoluzioni nella tutela dei diritti già avvenute a livello statale.[4] In alcune occasioni, poi, nemmeno una substantial majority è stata ritenuta rilevante ai fini della riduzione del margine di apprezzamento.[5]
Agli antipodi rispetto a queste concezioni poco coraggiose del consensus inquiry, ne troviamo un’altra secondo cui, partendo da argomenti diversi dal riferimento alle legislazioni statali (siano essi comparativi, sociologici,[6] o concernenti la natura di un diritto[7]), che fondano l’istanza di un nuovo standard, la Corte non ritiene necessaria la maggioranza delle legislazioni degli Stati membri, ma soltanto un trend, che indichi come il consenso europeo stia muovendo verso una certa direzione.

Questa pluralità di metodi di svolgimento del consensus inquiry espone la Corte a critiche di arbitrarietà, di utilizzo della determinazione del consenso (o dell’assenza di consenso) à la carte, per pervenire a soluzioni adotatte autonomamente, secondo proprie valutazioni di natura extragiuridica.[8]
Tuttavia, l’adozione di un unico criterio costante non appare la soluzione percorribile, né auspicabile, per garantire alla Corte una maggiore legittimazione che la ponga al riparo da tali accuse.
Sebbene, infatti, il criterio della maggioranza appaia il più idoneo allo scopo,[9] ciononostante chi scrive ritiene che l’interpretazione evolutiva della Convenzione non possa essere fondata (unicamente) su argomentazioni supportate dal criterio maggioritario. Il principio di sussidiarietà, alla base della dottrina del margine di apprezzamento e pertanto della differenziazione nei livelli di tutela, incontra pur sempre il limite della garanzia del core dei diritti, al punto che nemmeno il consenso unanime potrebbe valere a limitare le noyeau intangible di un diritto garantito dalla Convenzione. Il noyeau dur dei diritti, tuttavia, è di definizione variabile, e i diritti meritevoli di protezione non si esauriscono in quelli enumerati nella Cedu, secondo la concezione consolidata della Convenzione come living document. Ne deriva che il consenso determinato a maggioranza non potrebbe essere l’unico modo di determinare lo standard di tutela o il riconoscimento di un nuovo diritto, perché ciò equivarrebbe ad affermare che la maggioranza degli ordinamenti può impedire la tutela di un diritto che si afferma nella società europea, ma che è giuridicamente riconosciuto soltanto in alcuni Stati. In tale prospettiva la Corte, optando per un’applicazione estrema del principio di sussidiarietà, rinuncerebbe al proprio ruolo di promotore dell’armonizzazione ed estensione nella tutela dei diritti, limitandosi ad adeguare le garanzie della Convenzione a quanto deciso a livello statale.
Sulla base di queste considerazioni, si ritiene assolutamente opportuno ciò che la Corte ha fatto laddove è pervenuta ad un revirement nell’individuazione di uno standard di tutela sulla base di elementi diversi dalla mera conta delle legislazioni degli Stati membri. Qualora l’imposizione di uno standard di tutela più elevato sia validamente fondata, essa può incontrare il limite della dicrezionalità statale solo per ragioni inerenti alla particolarità o all’identità dello Stato (che peraltro non esonerano dal controllo di proporzionalità della limitazione rispetto al core dei diritti) : al di fuori di tale ipotesi, lo Stato non gode di un « diritto » al margine di apprezzamento.

Si tratta allora di capire se c’è un’altra via attraverso la quale la Corte possa combinare il proprio ruolo di protezione e promozione dei diritti «in the light of present-day conditions»[10] con l’esigenza di risolvere la counter-majoritarian difficulty.
Considerando che la legittimazione della Corte viene in larga misura dalla certezza del diritto perseguita mediante l’importanza accordata al precedente,[11] potrebbe contribuire ad elevare tale grado di legittimazione un più puntuale riferimento al proprio case law anche per quel che concerne la determinazione del consenso europeo: la Corte dovrebbe attenersi ai propri precedenti — o spiegare le ragioni dell’eventuale distinguishing — non solo con riferimento alla parte dispositiva delle decisioni, ma anche con riferimento alle modalità di individuazione del consenso e di determinazione del margine.
Anche in questo modo trarrebbe dal “consenso propriamente formato” la legittimazione della propria interpretazione evolutiva, ma non grazie all’applicazione del principio maggioritario, bensì grazie alla completezza, esaustività e verificabilità delle motivazioni, con riferimento anche alla scelta dei criteri per l’individuazione del consenso.

Tuttavia, allo stato attuale di armonizzazione della tutela dei diritti, nel quale «la concezione comune e il comune rispetto dei diritti dell’uomo»[12] sono ancora un obiettivo più che una realtà, la Corte, nella ricerca del massimo comun denominatore europeo, cerca di salvaguardare la propria legittimazione facendosi guidare dalle valutazioni dell’impatto delle proprie decisioni sui singoli ordinamenti, trovandosi così a procedere come un equilibrista su una fune sospesa tra margine di apprezzamento e interpretazione evolutiva, pendendo ora da una ora dall’altra parte sotto il peso delle valutazioni politiche.

 


[1]       «Some interpretational tool is needed to draw the line between what is properly a matter for each community to decide at local level and what is so fundamental that it entails the same requirement for all countries whatever the variations in traditions and culture. In the European system that function is served by the doctrine of the margin of appreciation.» P. Mahoney, Marvellous Richness of Diversity or individous cultural relativism?, Human Rights Law Review vol. 19 n. 1, 1998, p. 1.

[2]        Come riconosciuto dalla stessa Corte in A, B e C v. Ireland: «The existence of a consensus has long played a role in the development and evolution of Convention protections, the Convention being considered a “living instrument” to be interpreted in the light of present-day conditions. Consensus has therefore been invoked to justify a dynamic interpretation of the Convention.» A, B e C v. Ireland, par. 234.

[3]       Sulla difficoltà di qualificare come comparazione l’attività di ricognizione degli ordinamenti statali e il rinvio alle legislazioni statali da parte della Corte Edu, si vedano, tra gli altri,. DeVergottini, Oltre il dialogo tra corti. Giudici, diritto straniero, comparazione, Il Mulino, 2010, p. 11 e 181 ss.; P.G. Carozza, Uses and Misuses of Comparative Law in International Human Rights: Some Reflections on the Jurisprudence of the European Court of Human Rights, Notre Dame Law Review, n. 73, 1998, p. 1218-1219.

[4]         L.R. Helfer, Consensus, Coherence and the European Convention on Human Rights, Cornell International Law Journal, 26, 1993, p. 142 s.

[5]       «The Court considers that there is indeed a consensus amongst a substantial majority of the Contracting States. […] However, the Court does not consider that this consensus decisively narrows the broad margin of appreciation of the State.», A, B e C v. Ireland, par. 235-236.

[6]        «The Court accordingly attaches less importance to the lack of evidence of a common European approach to the resolution of the legal and practical problems posed, than to the clear and uncontested evidence of a continuing international trend in favour not only of increased social acceptance of transsexuals but of legal recognition of the new sexual identity of post-operative transsexuals.» Christine Goodwin v. UK, par. 85.

[7]         «Where a particularly important facet of an individual’s existence or identity is at stake, the margin allowed to the State will normally be restricted» Evans v. the United Kingdom, par. 77.

[8]    J.A. Brauch, The margin of appreciation and the jurisprudence of the European Court of Human Rights: Threat to the Rule of Law, Columbia Journal of European Law, n. 11, 2004-2005, p. 113 ss.; A. Mowbray, The creativity of the European Court of Human Rights, Human Rights Law Review n. 5. 2005, p. 61.

[9]    Esso garantirebbe alla Corte una sorta di legittimazione democratica interstatale, data dall’applicazione del principio maggioritario nell’attività di comparazione tra gli ordinamenti, nonché dal rinvio a fonti emanate da organi democraticamente eletti.

[10]  Tyrer v. the United Kingdom, par. 31.

[11]  Sottolinea questo aspetto V. Zagrebelsky, La Corte europea dei diritti delluomo e i diritti nazionali, in S. P. Panunzio (cur.) I costituzionalisti e la tutela dei diritti in Europa, Cedam, Padova, 2007, p. 719-720.

[12]  Preambolo della CEDU.