In Irlanda, la donna resta l’angelo del focolare all’interno della famiglia fondata sul matrimonio

Nessuna festa a Dublino l’8 marzo: mentre in Place Vendôme a Parigi si celebrava l’ingresso del diritto all’aborto nella Costituzione francese, per la Costituzione irlandese la donna resta l’angelo del focolare all’interno della famiglia fondata sul matrimonio. Contrariamente a quanto lasciato presagire dai primi sondaggi, che vedevano la maggioranza della popolazione piuttosto favorevole alle modifiche costituzionali proposte, l’elettorato irlandese ha respinto gli emendamenti volti a modificare le disposizioni in materia di famiglia e di doveri domestici della donna, ritenute dal Governo (di centrodestra) e dalla maggioranza parlamentare obsolete e inadeguate all’evoluzione della società.
I cittadini e le cittadine irlandesi erano chiamati a votare su due distinti progetti di emendamento aventi ad oggetto l’articolo 41 della Costituzione, relativo alla famiglia.  La procedura di revisione prevista all’articolo 46 della Costituzione del 1937 prevede infatti che i progetti di revisione costituzionale, una volta approvati in termini identici da entrambe le camere del parlamento, siano sottoposti a referendum. Presentati dal governo l’8 dicembre 2023 e approvati da una larga maggioranza transpartisana del parlamento il 24 gennaio, il trentanovesimo e il quarantesimo emendamento alla Costituzione sono stati quindi sottoposti al voto popolare come “emendamento sulla famiglia” (“family amendment”) e “emendamento sulla cura” (“care amendment”).
Il primo proponeva una doppia modifica all’articolo 41, volta ad estendere la garanzia costituzionale che tale articolo accorda alla famiglia fondata sul matrimonio anche ad altre forme di famiglia fondate sulla convivenza e su rapporti durevoli di fatto, ferma restando la speciale protezione che la Costituzione riserva all’istituto del matrimonio. A tal scopo, si proponeva di aggiungere, al primo comma del primo paragrafo - il quale dispone che “Lo Stato riconosce la famiglia come l'unità naturale, primaria e fondamentale della società, e come un'istituzione morale dotata di diritti inalienabili ed imprescrittibili, antecedenti e superiori ad ogni iscrizione nel diritto positivo” - una formulazione più inclusiva mediante un inciso, dopo la parola “famiglia”, secondo cui questa è “fondata sul matrimonio o su altri rapporti durevoli”. La modifica complementare mirava a sopprimere, al primo comma del terzo paragrafo, l’inciso secondo cui la famiglia è fondata sul matrimonio. Sarebbe rimasta invariata, tuttavia, la disposizione secondo cui “Lo Stato si impegna ad accordare una speciale protezione all’istituto del matrimonio e a tutelarlo contro gli attacchi”.
Il ruolo della donna nella società era invece al centro del quarantesimo emendamento, presentato come “care amendment”, che mirava a cancellare dalla Costituzione ogni riferimento alla protezione della “vita domestica” e dei “lavori domestici” della donna in due disposizioni che riservavano ad essa il monopolio (o piuttosto il fardello) della cura domestica e familiare. L’emendamento proponeva quindi di abrogare in toto il secondo paragrafo dell’articolo 41, secondo cui “lo Stato riconosce che con la sua vita domestica la donna fornisce allo Stato un sostegno senza il quale il bene comune non può essere realizzato” e che “lo Stato si sforzerà pertanto di garantire che le madri non siano costrette, per necessità economica, a svolgere un lavoro trascurando i loro doveri domestici”, e di sostiuirlo con un nuovo articolo 42B, secondo cui “Lo Stato riconosce che la prestazione di assistenza reciproca dei membri di una famiglia in ragione dei vincoli che esistono tra loro, fornisce alla società un sostegno senza il quale il bene comune non può essere realizzato, e si impegna a sostenere tale prestazione.”
Con un’affluenza di poco superiore al 44%, entrambe le proposte sono state rigettate (con una maggioranza di no pari rispettivamente al 67% per l’emendamento sulla famiglia e al 74% per quello sulla cura) e l’articolo 41 resterà pertanto invariato.
Si tratta di una battuta d’arresto nel percorso di modernizzazione dell Costituzione del 1937, fortemente marcata dall’influenza cattolica e dal modello patriarcale della società, dopo il successo delle riforme volte dapprima a consentire (1996) e poi a semplificare l’accesso al divorzio (2019), a legalizzare l’accesso all’aborto (1992 e 2018), a consentire il matrimonio tra persone dello stesso sesso (2015) e a sopprimere dal testo costituzionale i riferimenti alla blasfemia (2018), tutte approvate per via referendaria.
Il rigetto dei referendum costituisce una sonora sconfitta non solo, sul piano politico, per il governo e per tutti i partiti che avevano sostenuto gli emendamenti, ma anche indubbiamente, sul piano sociale, per tutti coloro che si erano mobilitati in favore di un’adeguazione del dettato costituzionale ai principi di uguaglianza e parità di genere. Le proposte di modifica costituzionale traggono infatti ispirazione da alcune delle raccomandazioni formulate dall’Assemblea dei cittadini del 2020-2021 sull’uguaglianza di genere e sembravano godere del sostegno di una maggioranza dell’elettorato, sebbene meno ampia di quanto ci sarebbe potuti aspettare.
Le ragioni vanno probabilmente ricercate nella mancanza di chiarezza quanto ai termini e ai possibili effetti delle revisioni. Se infatti la società irlandese sembra maggioritariamente favorevole agli obiettivi prefissi – il riconoscimento di altre forme di famiglia e la rimessa in discussione degli obblighi domestici della donna posti come limite alla sua realizzazione sociale extrafamiliare -, un certo scetticismo si è diffuso quanto all’effettività della revisione e ad una possibile eterogenesi dei fini.
Per quanto riguarda il primo quesito, la vaghezza del riferimento alle altre forme di famiglia ha potuto far temere un’eccessiva devalorizzazione delle forme istituzionalizzate di famiglia e la potenziale apertura a qualunque tipo di relazione, malgrado il mantenimento della clausola di “speciale protezione” per il matrimonio.
Quanto al quesito sulla cura familiare, si è potuto avvertire un certo timore che la cancellazione del riferimento alla funzione di cura assolta dalle donne avrebbe potuto eliminare il fondamento di diritti sociali a garanzia di funzioni effettivamente ampiamente svolte da quest’ultime, in particolare dalle madri. La disposizione oggetto della proposta di abrogazione, infatti, era indubbiamente marcata da una visione patriarcale della famiglia fondata sul breadwinner family model e su una rigida concezione della ripartizione dei ruoli di genere, secondo cui alla donna sarebbero riservate funzioni domestiche che la relegherebbero principalmente alla sfera familiare, non potendo la sua implicazione pubblica andare a detrimento degli obblighi domestici. Tuttavia, sebbene formulata in termini sessisti che non possono che suonare obsoleti e contrari ai principi di uguaglianza e di parità abbracciati dalle moderne società democratiche, questa disposizione costituiva anche il fondamento delle particolari garanzie della donna e della madre lavoratrice, come se ne trovano in un gran numero di costituzioni democratiche del primo e secondo dopoguerra (basti pensare al comma 11 del preambolo della Costituzione francese del 1946 o all’art. 6 co. 4 della Costituzione tedesca o all’art. 31 della Costituzione italiana).
Ora, in una società che resta comunque marcata (come ancora peraltro la maggior parte, per non dire tutte, le società odierne) da una più forte implicazione della donna nell’assolvimento dei compiti domestici e familiari, l’abrogazione di tali disposizioni senza la controparte di opportune garanzie quanto agli obblighi positivi assunti dallo Stato per agevolare la conciliazione della vita professionale e familiare ha fatto temere, più che un progresso, un possibile peggioramento delle condizioni della donna lavoratrice.
“Era nostra responsabilità convincere la maggioranza delle persone a votare ‘sì’ e chiaramente non ci siamo riusciti”, ha detto l’allora capo del Governo Varadkar, assumendo la responsabilità della sconfitta. Ma probabilmente non si è trattato solo di una mancanza sul piano della comunicazione pedagogica, ma anche e soprattutto sul piano delle politiche proposte a completamento della riforma costituzionale, insufficienti a rassicurare sul mantenimento di garanzie minime per coloro che (in gran parte tra le donne) continueranno ad assumere il carico degli obblighi domestici. Rimane il fatto che, sebbene questi emendamenti avesso una portata ampiamente (ma non esclusivamente) simbolica e cavalcassero una tendenza alle strategie genderwashing per coprire le mancanze dei governi in termini di politiche concrete per la parità, l’Irlanda ha perso un’occasione per rimuovere un altro mattone del solido e ancora ben stabile paradigma patriarcale e eteronormativo della famiglia e della società.


Il Consiglio costituzionale francese e la riforma delle pensioni, o dell’occasione mancata di comportarsi da “cour constitutionnelle de référence”

Non succede spesso che il Consiglio costituzionale francese si trovi a pronunciare decisioni tanto attese quanto quella resa il 14 aprile scorso sulla legge recante la riforma delle pensioni, in un contesto sociale e politico quanto mai delicato.
Senza grandi sorprese, la decisione avvera il pronostico formulato dalla maggior parte degli esperti. Il Consiglio ha infatti dichiarato conforme alla Costituzione l’essenziale della riforma, a cominciare dalla disposizione che prevede l’aumento dell’età legale di accesso alla pensione da 62 a 64 anni, e ha censurato soltanto alcuni articoli considerati come “cavalieri sociali”, ovvero disposizioni prive di tenore finanziario indebitamente inserite in una legge di finanziamento della previdenza sociale.
Pur prevedendo quasi unanimemente una risposta marcata dal self-restraint tipico del giudice costituzionale francese, tuttavia, un gran numero di costituzionalisti si è speso in editoriali e commenti, nelle settimane precedenti la decisione, per immaginare, suggerire o auspicare come questi avrebbe potuto rispondere alle censure invocate, alcune delle quali appaiono, ci sembra, particolarmente fondate. Ed è proprio questa considerazione a guidare le considerazioni che seguono. In questo breve commento, infatti, dopo aver brevemente riassunto il dispositivo della decisione, non si intende analizzarne in dettaglio la motivazione, ma piuttosto cimentarsi in un esercizio in qualche modo opposto, per illustrare non tanto cosa il Conseil ha detto, bensì cosa avrebbe potuto dire.

1. La decisione del Conseil, o l’arte del “come ne usciamo?”
Per commentare l’approccio della Corte corte costituzionale italiana nella stagione caratterizzata dal più spiccato self restraint, Tania Groppi osservava che la preoccupazione che accompagnava i giudici costituzionali in camera di consiglio in quegli anni sembrava essere “come ne usciamo senza decidere? Come ne usciamo senza esporci?”. Ebbene, si direbbe che tale interrogativo non abbia mai davvero abbandonato il Consiglio costituzionale francese che, salvo rare eccezioni, ha fatto del “non decidere” e del “non esporsi” la cifra della sua giurisprudenza, in particolare in sede di controllo preventivo (al punto che alcuni costituzionalisti sono arrivati a domandarsi se tale meccanismo meriti ancora di essere mantenuto in vita).
Anche in questo caso il Consiglio ha essenzialmente validato l’operato della maggioranza – e in particolare dell’esecutivo, che si è servito di tutti gli strumenti offertigli dal parlamentarismo razionalizzato della Quinta Repubblica per forzare l’approvazione della legge – riducendo al minimo il proprio controllo sulla costituzionalità della procedura e limitandosi ad un’interpretazione letterale delle disposizioni costituzionali.
I ricorsi delle minoranze parlamentari, presentati rispettivamente dai deputati del Rassemblement national e dai deputati e dai senatori dell’opposizione di sinistra, contestavano sia il contenuto della riforma, per motivi essenzialemente di equità sociale e di valutazione economica, sia soprattutto le procedure utilizzate per l’adozione della legge.
Non ci attarderemo sui primi che, per quanto fondati sulle disposizioni del bloc de constitutionnalité in materia di uguaglianza e diritti sociali, possono ritenersi di natura più spiccatamante politica e dunque difficilmente idonei a fondare una dichiarazione di incostituzionalità : non ci si poteva aspettare, insomma, che il Conseil dichiarasse contrario alla Costituzione l’aumento dell’età pensionabile da 62 a 64 anni.
Più interessanti dal punto di vista dell’interpretazione giuridica sono invece le censure legate a motivi procedurali. Riassumendo, venivano contestati: l’utilizzo abusivo della procedura speciale prevista dall’art. 47-1 della Costituzione per le leggi di finanziamento della previdenza sociale, la violazione del principio costituzionale di “chiarezza e sincerità del dibattito parlamentare” in ragione del cumulo di procedure limitative della deliberazione parlamentare nonché della trasmissione di informazioni erronee al Parlamento e, infine, la presenza di disposizioni di contenuto non budgetario e dunque, per natura, non conformi al contenuto di una legge di finanziamento della previdenza sociale.
Il Consiglio ha accolto unicamente quest’ultima censura e ha dichiarato incostituzionali sei “cavalieri sociali”, tra i quali le disposizioni in materia di agevolazione dell’impiego dei lavoratori senior. I Sages hanno invece rigettato tutti gli altri profili con delle motivazioni alquanto laconiche che si limitano ad affermare che, sebbene si riconosca il fondamento dei motivi di censura (come il fatto che la riforma delle pensioni “avrebbe potuto figurare in una legge ordinaria”, par. 11; “la circostanza che alcuni ministri abbiano fornito [...] delle estimazioni inizialmente erronee sull’ammontare delle pensioni”, par. 65; “il carattere inabituale” del cumulo di procedure coercitive, par. 70), nessuna disposizione costituzionale risulta espressamente violata.

2. L’occasione mancata per comportarsi da “cour constitutionnelle de référence” e rafforzare la fiducia nella giustizia costituzionale
Giuridicamente mal motivata, pericolosa per la democrazia parlamentare o per il destino della giustizia costituzionale, marcata da un eccesso di zelo nei confronti dell’esecutivo: sono solo alcune delle critiche alla decisione apparse in un elevato numero di editoriali a firma di autorevoli costituzionalisti. Di certo non lusinghiere per l’istituzione che, sotto l’egida del suo Presidente Laurent Fabius, vorrebbe diventare una “corte costituzionale di riferimento”. Ora, la critica alle decisioni di un organo di giustizia costituzionale è consustanziale ad uno Stato di diritto e l’espressione di critiche, siano esse da parte della dottrina, dell’opinione pubblica o di altre istituzioni, non mina di per sé la legittimità dell’organo. Tuttavia, questa decisione rappresenta indubbiamente per il Conseil un’occasione mancata per affermarsi come corte costituzionale capace di elevarsi a garante di una lettura sistemica e sostanziale della Costituzione, assolvendo una funzione contromaggioritaria in un sistema fortemente squilibrato in favore dell’esecutivo a causa della coesistenza di dispositivi di forte razionalizzazione del parlamentarismo, di un sistema elettorale che – seppur con l’indebolimento del “fatto maggioritario” nell’attuale legislatura – assicura all’esecutivo il sostegno di una maggioranza parlamentare coesa e della presidenzializzazione del regime.
Com’è noto, infatti, al fine di rafforzare l’esecutivo e di scongiurare le derive del parlamentarismo conosciute sotto la Terza e la Quarta Repubblica, la Costituzione del 1958 ha dotato il governo di un ricco arsenale di strumenti di pressione sul Parlamento nel corso del procedimento legislativo: ruolo predominante nella determinazione dell’ordine del giorno delle camere, poteri di controllo sull’esercizio del diritto di emendamento dei parlamentari, voto bloccato, procedure speciali per le leggi finanziarie, procedure accelerate per mettere fine alla navette, possibilità di dare l’ultima parola alla camera bassa, questione di fiducia su un progetto di legge.
L’affermazione del fatto maggioritario e la progressiva presidenzializzazione del regime hanno invero reso parzialmente superflui alcuni di questi dispositivi, che hanno invece ritrovato tutta la loro utilità in un momento di crisi di quell’elemento strutturale della Quinta Repubblica che è il fatto maggioritario, con l’apparizione di una maggioranza soltanto relativa a sostegno del governo guidato dalla Prima ministra Borne. Così, per l’approvazione della riforma delle pensioni, la Prima ministra ha fatto uso di tutti questi dispositivi, a cominciare dalla scelta dello strumento legislativo finanziario, che apriva la strada a procedure particolarmente favorevoli al governo. Ora, se ognuna di queste procedure è di per sé perfettamente legittima in quanto prevista dalla Costituzione, l’utilizzo contestuale e cumulativo di tutte le procedure può destare qualche dubbio.

3. L’utilizzo cumulativo di procedure parlamentari facenti ostacolo allo svolgimento delle prerogative parlamentari essenziali
Era questo il motivo per cui i ricorrenti contestavano la violazione del “principio di chiarezza e di sincerità del dibattito parlamentare”, in quanto il cumulo delle diverse procedure utilizzate sarebbe stato di ostacolo “al corretto svolgimento del dibattito democratico” e al pieno esercizio del diritto di emendamento (par. 66-67).
Sono chiamati in causa: l’utilizzo della procedura dell’articolo 47-1, che ha imposto all’Assemblea nazionale di interrompere la lettura del testo dopo soli venti giorni quando aveva proceduto all’esame di due soli articoli; la limitazione del tempo di parola al Senato, combinata al rigetto di un gran numero di subemendamenti e soprattutto all’attivazione del “voto bloccato” per far deliberare la camera alta su tutto il testo in un solo voto, impedendo qualunque emendamento; l’utilizzo, infine, della preziosa quanto famigerata procedura della fiducia su un progetto di legge prevista dall’art. 49 co. 3 della Costituzione, che permette di interrompere ogni discussione sul testo e di farlo considerare come approvato senza voto da parte dei deputati, a meno che una mozione di censura non sia approvata alla maggioranza assoluta... L’utilizzo combinato di tutti questi dispositivi ha fatto sì che una riforma cruciale nel dibattito sociale e politico sia stata promulgata senza una vera deliberazione parlamentare e senza che la camera bassa ne abbia esaminato più di due articoli (respingendo peraltro il secondo).
Con un argomento prettamente formale e letterale, il Consiglio ha però respinto queste censure, limitandosi a constatare che nessuna disposizione costituzionale impedisce espressamente l’impiego cumulativo di tutte queste procedure e che pertanto “sebbene l’utilizzo combinato delle procedure adottate abbia un carattere inabituale [...], esso non ha reso la procedura legislativa contraria alla Costituzione” (par. 70). Si potrebbe invece obiettare che, sebbene niente lo vieti espressamente nella lettera della Costituzione, un’interpretazione sistematica e sostanziale porta a riconoscere che la razionalizzazione del parlamentarismo prevista dalla Costituzione ha inteso conciliare la governabilità con un altro principio fondamentale dello Stato di diritto, che è la possibilità per il Parlamento di esercitare la propria funzione e che, pertanto, un cumulo di procedure che arrivi a impedire alle assemblee il minimo esercizio delle loro prerogative fondamentali potrebbe considerarsi come un abuso non conforme alla Costituzione.
Stupisce, inoltre, che la trasmissione di informazioni scorrette da parte dei ministri alle assemblee non sia stata considerata elemento idoneo a nuocere alla “chiarezza e sincerità del dibattito parlamentare”: se non è questa un’ipotesi di applicazione di tale principio, ci si può davvero chiedere quale sia la vocazione di questo vago principio di enucleazione giurisprudenziale che il Consiglio ha formulato come garanzia dell’espressione della volontà generale, salvo poi utilizzarlo quasi esclusivamente in favore dell’esecutivo per giustificare le limitazioni al diritto di emendamento di fronte ai fenomeni di ostruzionismo.

4. L’utilizzo indebito della procedura riservata alle leggi di finanziamento della previdenza sociale
Soprattutto, ci sembra fosse fondata l’altra censura: quella sull’utilizzo abusivo di una procedura inadatta alla legge in questione. La riforma delle pensioni è stata infatti proposta dalla Prima ministra nella forma di una legge rettificativa di finanziamento della previdenza sociale (“loi de financement rectificative de la sécurité sociale” di seguito LFRSS), legge alla quale la Costituzione riserva una procedura particolare caratterizzata da indubbi vantaggi per il governo. Questa scelta è stata contestata in quanto si tratterebbe di un utilizzo abusivo e improprio, mediante il quale il governo avrebbe scelto non la procedura adatta in funzione dell’oggetto della legge, ma piuttosto la procedura più conveniente per raggiungere l’obiettivo dell’approvazione di una riforma (ritenuta urgente) in tempi stretti. Alla procedura per l’adozione di una LFRSS, la Costituzione riserva infatti un esame accelerato, di una durata massima di cinquanta giorni, al termine dei quali il governo è abilitato ipso iure ad adottare le misure contenute nel progetto di legge mediante ordonnance (un atto del governo che normalmente richiede una legge di abilitazione). Inoltre, mentre la questione di fiducia prevista all’articolo 49 co.3 può essere di regola utilizzata per un unico disegno di legge per sessione parlamentare, essa può invece essere utilizzata illimitatamente nella procedura di adozione di una LFRSS o di una legge finanziaria.
La ricerca dell’efficienza nella scelta dello strumento normativo non costituisce di per sé un’irregolarità. Parlare di utilizzo improprio e abusivo implica pertanto che detta procedura sia utilizzata non in ragione del contenuto del testo proposto, ma unicamente in ragione dei vantaggi procedurali che essa comporta. Il Consiglio ha però rigettato questi argomenti sulla base di un’interpretazione strettamente letterale dei contenuti imposti dalla legge organica sulle leggi di finanziamento della previdenza sociale. Si è cosi accontentato di verificare che la legge in questione contiene anche disposizioni che portano su spese e entrate della previdenza sociale per l’anno 2023, ignorando completamente il fatto che, per il resto, la legge contiene una riforma di ben più ampio respiro, le cui conseguenze sociali e economiche superano di gran lunga l’ambito di applicazione di una legge rettificativa per l’anno in corso. Anzi, il Consiglio non lo ignora, ma avalla la scelta governativa, limitandosi a sottolinere, secondo la sua massima abituale, che “se è vero che le disposizioni relative alla riforma delle pensioni avrebbero potuto figurare in una legge ordinaria [...] non compete al Consiglio costituzionale sostituire la propria discrezionalità a quella del legislatore a questo proposito”. Perché in effetti, e qui veniamo all’altra nota dolente, è stato il legislatore, e quindi in definitiva il Parlamento, a validare questa scelta governativa. Ma nella situazione di forte squilibrio tra i poteri che è stata presentata, con l’ascendente del governo sul Parlamento dato dalla combinazione tra fatto maggioritario e razionalizzazione del parlamentarismo e con l’utilizzo combinato delle procedure soprarichiamate, il giudice costituzionale può davvero lasciare alla maggioranza parlamentare la garanzia delle esigenze costituzionali del dibattito democratico?
Avallando questo utilizzo indebito della procedura della LFRSS, il Consiglio ha creato un precedente preoccupante che potrà essere invocato da questo o dai governi successivi per far approvare qualunque riforma di contenuto anche lontanamente finanziario e sociale (ma non lo sono poi quasi tutte?) attraverso un procedimento fortemente limitativo delle esigenze democratiche del dibattito parlamentare. La questione che si pone è quindi: ma il Consiglio avrebbe potuto fare diversamente, senza addentrarsi in delicate valutazioni di natura più politica che giuridica? Ebbene, seppure si possono comprendere le ragioni dell’eccesso di prudenza del Conseil, in linea con la sua storia e la sua collocazione all’interno delle istituzioni francesi, ritengo che da un giudice costituzionale ci si possa attendere di più, in particolare in un momento in cui la giustizia costituzionale e la sua capacità di difendere lo Stato di diritto sono rimesse in discussione.
Davanti ad un banco di prova così importante, ciò che è legittimo attendersi da una corte costituzionale è che sia in grado di erigersi a garante delle esigenze democratiche alla base del sistema costituzionale anche in un momento polico e sociale delicato, facendo atrazione di ogni valutazione di opportunità politica. Ciò che è legittimo attendersi è che sappia affermare che la legge di finanziamento della previdenza sociale non può essere un bazar nel quale infilare qualunque articolo si desideri trattare. Ciò che è legittimo attendersi è che sappia indicare al governo, e dunque al Presidente che indirettamente dirige o conferma la scelta del ricorso alle procedure richiamate, che le disposizioni costituzionali in materia di produzione normativa non possono essere utilizzate come una cassetta degli attrezzi dalla quale estrarre l’arnese che più conviene, per raggiungere l’obiettivo con il minore sforzo possibile davanti a questa vecchia e farraginosa istituzione che è la democrazia, tanto più in un sistema come quello della Quinta Repubblica che manca gravemente di contropoteri effettivi. Le dichiarazioni di inammissibilità dei referendum proposti contro la riforma dimostrano d’altronde come neanche questo strumento sia idoneo ad assolvere una funzione contromaggioritaria.