CONTRO IL REATO DI NEGAZIONISMO. L’appello dell’Unione delle Camere Penali

Il dramma della Shoah e’ ben presente nella memoria del popolo italiano, così come i crimini contro l’ umanità che hanno contraddistinto la storia contemporanea fino ai nostri giorni. Occorre tenere sempre desta l’attenzione, affinando la capacità di lettura degli accadimenti ed operando affinchè su questi temi vi sia sempre sensibilità culturale e trasmissione della memoria alle giovani generazioni.
Il problema del negazionismo, con particolare riguardo alla Shoah, è antico e va contrastato con forza, ma con la forza delle idee. Invece, riportato all’attenzione dalla morte di un criminale nazista, a tambur battente è stato approvato in Commissione Giustizia del Senato l’inserimento nel codice penale di una fattispecie di reato per chi “nega l’esistenza di crimini di genocidio o contro l’umanità o di guerra”, estendendo inoltre il reato di apologia ai casi in cui essa riguardi i crimini di cui sopra.
Gia nel 2007, quando il reato di negazionismo era stato proposto dal Guardasigilli Mastella, gli storici italiani denunciarono la pericolosità delle verità di Stato, stabilite nei tribunali penali, evidenziando il paradossale effetto di far diventare i negazionisti paladini della libertà di espressione. A queste obiezioni è opportuno aggiungere oggi quelle degli studiosi del diritto.
La reattiva risposta a fenomeni che turbano l’opinione pubblica attribuisce un valore eminentemente simbolico al diritto penale e perpetua, in questo modo, la deprecabile prassi di legiferare su spinte emotive, quando non per calcolo demagogico, spesso ignorando la coerenza complessiva del sistema. E’ esattamente quello che si sta cercando di fare adesso.
Il ricorso simbolico alla sanzione criminale è talmente eccentrico rispetto ai limiti costituzionali della tutela penale e agli scopi razionali suscettibili di essere assegnati alla pena, da non meritare che un moto di sconcerto. Le fattispecie incriminatrici di valenza simbolica costituiscono ormai una flotta pirata tanto sciaguratamente estesa da non richiedere davvero il varo di un’ammiraglia come quella che si va architettando.

L’inserimento nel nostro codice di un nuovo reato di opinione – tale è incontestabilmente quello proposto – rappresenterebbe con ogni evidenza un passo indietro sul piano dei diritti civili, essendo in controtendenza rispetto alla evoluzione del moderno diritto penale, perchè in contrasto con il pieno diritto di manifestazione del pensiero previsto dalla Costituzione.
Ugualmente incoerente ed antistorica risulterebbe la scelta di vivificare il reato di apologia, di dubbia costituzionalità, laddove sono già esistenti fattispecie di reato connotate da comportamenti materiali e concreti che sono idonee a perseguire l’eventuale messa in atto delle teorie negazioniste che si vogliono, e si debbono, contrastare.
Inoltre, se i crimini della Shoah sono incontrovertibili, altri accadimenti della storia sono dibattuti, e ciò produce una patologica indeterminatezza di fattispecie che, come questa, si propongono in modo rozzo ed approssimativo di perseguire genericamente i “crimini di guerra”; come se questi rappresentassero una categoria dai contorni definiti o agevolmente definibili. Proposte al contempo velleitarie ed ingenue come quella approvata in Commissione Giustizia non possono che determinare la palese violazione del principio di tassatività delle norme penali.
Il diritto penale traccia e fonda il limite più drastico e severo alla libertà personale. Per ricorrervi si deve individuare un interesse di rilevanza sufficiente a giustificare il ricorso alla tutela più forte ed occorre che la sanzione sia almeno potenzialmente efficace a garantire la tutela dell’interesse protetto.
Nel caso del reato di “negazionismo” questo interesse dovrebbe identificarsi non con le vittime delle vicende negate, perché il disvalore sotteso a fatti necessariamente massivi si esprime in una dimensione collettiva, ma con la salvaguardia della memoria di eventi di enorme offensività collettiva, in funzione del monito che da essa deve promanare. Ma la precondizione di un tale monito consiste nella verità dei fatti accaduti; una verità certa, inconfutabile, assoluta, che il diritto penale tutela ma con una riserva: dipende da quale verità.
La verità (ritenuta) assoluta, certa e irrefutabile non può essere oggetto di alcuna tutela se non si vuole, con un unico colpo di spada normativa, trafiggere il diritto di manifestazione del pensiero, la libertà morale di credere e la libertà di insegnamento, trasformando (o meglio: ritrasformando) il cittadino in un fedele.
Nel caso del “negazionismo” si tratta di tutelare una verità non perché fraudolentemente negata (da chi conosce quindi il reale assetto delle cose), ma semplicemente perché negata (da chi è, o può essere, perfettamente convinto della sua inconsistenza). Può il diritto penale ergersi a tutore della verità in tali termini, e cioè sul presupposto di una verità certa, assoluta, inconfutabile, alla quale bisogna credere, piaccia o non piaccia?
Il terreno delle verità di Stato é scivoloso e conduce ad esiti inaccettabili per la giustizia penale, ma se possibile é ancor più pericoloso sul piano delle libertà politiche. La libertà di espressione é la prima di esse: ogni sua restrizione costituisce un passo verso l’ autoritarismo.
La necessità di esprimersi in termini generali ed astratti finisce peraltro col rendere la fattispecie praticamente inapplicabile, perché riferita ad un oggetto destinato a rimanere indefinito. A chi spetterebbe infatti stabilire l’esistenza del genocidio, del crimine di guerra o del crimine contro l’umanità oggetto della negazione? Basta prospettare le alternative (il giudice o una corte internazionale) per rendersi conto delle ‘asperità’ applicative che la fattispecie sarebbe destinata a incontrare.
Si è ritenuto di eludere il problema riferendo all’evento considerato la qualifica di “conclamato”. Un espediente a dir poco sconcertante, dato che il notorio serve -notoriamente – per rendere superflua la prova di un fatto e non già per definirlo in termini selettivi: su quale base mai un genocidio non conclamato sarebbe indegno di tutela? E quali sarebbero mai i conclamanti cui riferire il giudizio?
Da ultimo, un delitto di eresia ‘laica’, basato su una verità “conclamata” avrebbe le gambe assai corte: fallirebbe miseramente il suo scopo (sempre che con la sua introduzione si intenda perseguire uno scopo razionalmente intelligibile). Infatti, sul piano della prevenzione generale dissuasiva c’è da attendersi piuttosto un effetto paradosso. Quale migliore occasione di propaganda, per un negazionista convinto, che un processo penale in cui gli si imputa la sua opinione e gli si offre il destro di presentarsi quale paladino della libertà? Sul piano della prevenzione generale persuasiva, peggio ci si volge. E’ stato giustamente rilevato che “il negazionismo è un fenomeno culturale prima ancora che politico. E’ un problema che dobbiamo affrontare con la nostra maturità civile, con cui dobbiamo misurarci costantemente senza l’usbergo rassicurante di una legge […] quando presto non ci saranno più testimoni diretti della Shoah, che cosa ha significato e che cosa significa per la nostra civiltà l’aver consentito lo sterminio degli ebrei, che cosa andremo a raccontare nelle scuole, che il negazionismo è un reato?”.
Le verità stabilite per legge sono destinate a essere infrante; tutelano dall’errore tanto quanto il proibizionismo ha protetto dal consumo di determinate sostanze: espandendolo.
Per tutti questi motivi si fa appello ai parlamentari affinchè venga scongiurata l’approvazione delle proposte di legge in discussione.

Roma, 13 novembre 2013

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