Covid-19 e uscita “energetica” dall’emergenza

La pandemia del Covid-19 ha messo in ginocchio l’economia globale. Con essa, ha condizionato il presente e futuro della convivenza sociale e politica delle comunità statali. Nel contempo, essa ha inaugurato anche quello che il Sistema Nazionale per la Protezione dell’Ambiente (SNPA) inquadra come “inedito ed eccezionale laboratorio”, che «permetterà di studiare meglio, sotto molti aspetti, la portata dell’impatto antropico sull’ambiente e sui cambiamenti climatici» (SNPA, Guardiamo al futuro, tra crisi e opportunità, 11 maggio 2020). La pandemia ha distrutto per offrire.
Questa singolare contraddizione è alla base di un ricco dibattito mondiale di ecologia, da un lato, e politica economica e diritto dell’economia, dall’altro.
Dal punto di vista ecologico, la contraddizione deriva dalla circostanza che la zoonosi, a base della pandemia, appare strettamente connessa alla perdita di biodiversità, alimentata dai cambiamenti climatici. La distruzione degli ecosistemi, insieme all’estinzione di determinate specie predatrici, sta facendo crollare le cosiddette “barriere naturali” di trasmissione interspecie dei virus (Vidal J. Destroyed Habitat Creates the Perfect Conditions for Coronavirus to Emerge, in Scientific American, march 18, 2020). Il dato comporta la presa d’atto che la lotta la virus non è più un problema esclusivamente epidemiologico e di copertura con un vaccino: rappresenta un tassello della lotta al cambiamento climatico e ai sui c.d. “Feedback Loop“, che coinvolgono la biodiversità e quindi anche le barriere di contenimento di nuovi virus. Se non si affronta risolutivamente la questione dei cambiamenti climatici, le zoonosi si moltiplicheranno, come del resto già proiettato da una serie di ricerche dell’OMS (Climate Change and Infectious Diseases, 2017).
Dal punto di vista di governo dell’economia, sembra utile partire da uno studio dell’Università di Oxford, che ha coinvolto 231 esperti di banche centrali, ministeri delle finanze, ricercatori e think tank di tutto il mondo, coordinati, tra gli altri, del premio Nobel Joseph Stiglitz (Hepburn C. et al. Will COVID-19 fiscal recovery packages accelerate or retard progress on climate change?, Smith School Working Paper 2, 2020). Esso ha provato a tradurre la contraddizione in proposta di ripresa economica. Ne è emerso uno scenario strutturato su quattro dimensioni: un ruolo rafforzato dello Stato nella regolazione degli investimenti per la ripresa; una funzionalizzazione di questi investimenti alle politiche di compatibilità ambientale e di lotta al cambiamento climatico; una riformulazione delle relazioni industriali nel quadro di infrastrutture energetiche connesse a fonti rinnovabili come eolico e solare, in quanto più “resistenti” agli effetti perversi della globalizzazione, come le delocalizzazioni, e del tutto coerenti con il “phase out” dell’energia fossile; una coniugazione della ripresa con azioni di resilienza verso le trasformazioni indotte dai cambiamenti climatici senza condizionamenti geopolitici sull’uso delle risorse. Ecco allora che lo studio osserva, attraverso il riscontro di pratiche esistenti e di studi e verifiche già condotte, che, già nel breve termine, la costruzione di infrastrutture per l’energia pulita attiverebbe impiego di nuova manodopera, creando almeno il doppio dei posti di lavoro per dollaro rispetto agli investimenti nei combustibili fossili (dato che ogni milione di dollari di spesa genera 7,49 posti di lavoro a tempo pieno nelle infrastrutture per le energie rinnovabili, 7,72 nell’efficienza energetica, ma solo 2,65 nei combustibili fossili). Inoltre, le nuove infrastrutture solleciterebbero politiche attive anche in ricerca e sviluppo a sostegno delle nuove energie rinnovabili per l’adeguamento degli ecosistemi urbani e dei complessi industriali. Infine, non entrerebbero in conflitto con gli indirizzi ambientali di rigenerazione degli ecosistemi.
Questo significa, però, che tutta la ripresa economica post Covid-19 non dovrebbe passare attraverso il semplice sostegno all’esistente o, peggio, il salvataggio incondizionato di qualsiasi impresa (a partire da quella del trasporto aereo); e questo, non per discriminazione politica, ma piuttosto proprio per convenienza economica, giacché qualsiasi semplice, ma costoso, “salvataggio” o “sostegno” produrrebbe, in comparazione con la promozione delle nuove infrastrutture energetiche, risultati scarsi sia in termini di impatto economico, sia in termini lavorativi, ambientali e climatici. Replicherebbe, in definitiva, la contraddizione tra crisi e opportunità, fotografata dal SNPA.
Sembra, allora, che l’uscita dall’emergenza non possa che essere “energetica”, per “utilità” tanto economica quanto climatica. In tal senso, si pone il manifesto italiano “Uscire dalla pandemia con un nuovo Green Deal per l’Italia“, promosso dalla Fondazione per lo Sviluppo sostenibile e sottoscritto da centodieci rappresentanti del mondo dell’impresa. Anche l’Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA) intravede come necessaria la stessa via, nel suo “Global Energy Outlook 2020“.
Tuttavia, se l’ipotesi richiamata risolve una contraddizione, essa stessa ne alimenta un’altra. L’emergenza Covid-19, infatti, ha condizionato le premesse di questa prospettiva, imponendo ampi interventi di politica economica, progettati sotto la pressione del tempo e non lasciando margini di valutazione del loro impatto sul clima e sull’ambiente. L’urgenza lavorativa, tra l’altro, sta giocando paradossalmente a favore delle industrie gravemente colpite dalla crisi, non necessariamente propense al cambiamento.
è dunque divenuta concreta quella “tragedia dell’orizzonte”, paventata appena cinque anni addietro per descrivere l’effettivo contenuto del dilemma energetico: il tempo asimmetrico tra urgenze economiche e urgenze climatiche (Carney M. Breaking the Tragedy of the Horizon. Climate Change and Financial Stability, Speech at Lloyd’s of London, 2015). Con il Covid-19, le urgenze climatiche non sono venute meno, anche se è emersa drammaticamente prorompente e inaspettata l’urgenza economica della crisi.
Ecco allora che la vera partita della politica “post emergenziale” del governo dell’economia si gioca sull’orizzonte temporale; e dalla scelta dell’orizzonte temporale deriverà l’attenzione o meno alla persistente e preesistente urgenza climatica. Per lo Stato, gli scenari di uscita “energetica” sono solo tre: l’orizzonte a breve termine, fermo sull’immediata risposta alla crisi per l’emergenza sanitaria pubblica e l’incombente recessione economica (senza alcuna discontinuità energetica rispetto all’urgenza climatica); l’orizzonte di medio termine (proiettato su pochi anni), volto alla stimolazione della ripresa economica nel contenimento dell’impatto sulla salute pubblica, lasciando però che l’impatto economico continui a modellare le scelte energetiche rispetto all’urgenza climatica; l’orizzonte a lungo termine (proiettato sui decenni), incentrato sulla trasformazione energetica per rispondere all’urgenza climatica e promuovere economie resilienti al cambiamento climatico e agli shock eco-sanitari da esso prodotti, ridimensionando possibili repliche di zoonosi (Steffen B. et al. Navigating the Clean Energy Transition in the COVID-19 Crisis, in 4 Joule, 2020, 1-5).