De similibus idem est judicium: la Corte Suprema statunitense sull’incostituzionalità della legge della Louisiana in materia di aborto

Il 29 giugno 2020 la Corte Suprema statunitense ha reso una delle sentenze probabilmente più attese – e cruciali – dello scorso semestre autunnale (“June Medical Services L. L. C. Et Al. V. Russo, Interim Secretary, Louisiana Department Of Health And Hospitals”), definitivamente pronunciandosi sulla dibattuta legge dello Stato della Louisiana sull’aborto. L’Unsafe Abortion Protection Act (Act 620) – approvato nel giugno del 2014 – prevedeva infatti che per poter operare interventi di Interruzione Volontaria di Gravidanza (IVG) all’interno di cliniche specialistiche i medici avrebbero dovuto essere necessariamente dotati dei cosiddetti “active admitting privileges”, riconosciuti ai professionisti facenti parte del personale sanitario di un ospedale situato a non più di trenta miglia di distanza dalla clinica abortiva. Nello specifico, in virtù di tali admitting privileges, il medico avrebbe potuto permettere il ricovero della donna all’interno della specifica struttura ospedaliera di riferimento qualora la stessa avesse avuto bisogno di ricorrere a prestazioni diagnostiche e chirurgiche a seguito all’intervento abortivo; dunque in caso di complicazioni correlate all’IVG. Ottenere tali attribuzioni non era però cosa semplice, stando a quanto stabilito dalla discussa legge, posto che il professionista avrebbe potuto vedersi concessi tali privilegi solo qualora fosse stato riconosciuto quale “membro in piena regola” dell’ospedale, senza null’altro specificare.
Ebbene tale normativa era stata immediatamente avversata in tribunale, addirittura prima della sua entrata in vigore, poiché tacciata di illegittimità costituzionale. In particolare, diverse cliniche e professionisti del settore lamentavano come le previsioni contenute nell’Act 620 rappresentassero un undue burden (onere eccessivo) comprimente – fino a sopprimerlo – il diritto delle gestanti di ricorrere all’aborto. Le doglianze dei ricorrenti incontrarono in realtà il favore della District Court nel 2017; la sentenza di primo grado venne però poi ribaltata in appello innanzi alla Corte del Fifth Circuit, fino ad arrivare alla Corte Suprema (per un approfondimento si rimanda qui) nel 2019.
La decisione di primo grado del 2017 risultava invero in linea con l’orientamento adottato in materia dalla stessa Corte Suprema solo poco tempo prima. La somiglianza con le vicende recentemente solute con la decisione Whole Woman’s Health v. Hellerstedt del 2016 – con cui i giudici di Washington avevano dichiarato la incostituzionalità della legge del Texas imponente admitting privileges di ugual tenore di quelli della Louisiana (su tali vicende giudiziarie, si veda) – era infatti tangibile. Nel 2019, però, la rinnovata composizione della Corte Suprema, con una forte corrente pro-choice (e quindi contraria all’aborto) al suo interno, come pure i recenti sviluppi e umori in materia non permettevano comunque di dare per scontato l’esito della controversia ivi analizzata e sciolta dalla Corte solo a fine giugno di quest’anno.
Ed è proprio con il richiamo al precedente noto di WWH v. Hellerstedt che si apre la sentenza qui in oggetto. In particolare, stando all’opinione della maggioranza resa dal Justice Breyer, la Corte ha ritenuto che la questionata normativa della Louisiana fosse da ritenersi in contrasto con la Costituzione statunitense rappresentando un ostacolo sostanziale all’esercizio del diritto all’aborto. Liquidato agilmente l’argomento sollevato dallo Stato della Louisiana circa la carenza di legittimazione attiva dei ricorrenti poiché – asseritamente – non direttamente lesi dalla normativa, la Corte Suprema ha difatti rilevato come la maggior parte dei professionisti che si erano candidati ad ottenere gli admitting privileges non vi erano riusciti per ragioni sconosciute, trovandosi di fatto del tutto interdetti dall’eseguire interventi di IVG. Inoltre, stando alle testimonianze e alle prove, gli interventi abortivi nello Stato risultavano già particolarmente sicuri prima dell’entrata in vigore dell’Act 620, alla luce del bassissimo tasso di ricoveri post-IVG registrati tanto che la media era di uno all’anno. Nel lungo periodo la legge avrebbe pertanto causato unicamente un incremento dei tempi di attesa e sovraffollamento delle (poche) cliniche abortive rimaste attive, stante la drastica riduzione del personale medico abilitato e la inevitabile chiusura di numerose strutture. Nessun miglioramento allo stato di salute e al benessere delle donne pareva invece prospettabile, posto che, al contrario, le gestanti sarebbero state costrette a viaggiare e spostarsi nel territorio statale alla ricerca di una clinica, con effetti sensibilmente gravosi soprattutto sulle donne più indigenti. Applicando il balancing test, la normativa finiva dunque per non apportare alcun beneficio in termini sanitari, considerato altresì che alcuna correlazione era stata dimostrata tra il possesso degli admitting privileges e il buon esito della prestazione sanitaria del professionista incaricato. L’unico effetto tangibile era dunque quello di complicare sensibilmente – se non rendere praticamente impossibile – il ricorso della donna all’aborto, aggravando ingiustificatamente l’esercizio del suo diritto di scelta se ricorrere all’IVG o meno.
La sentenza ricalca quindi le argomentazioni già fatte proprie dalla Corte nel precedente giurisprudenziale incarnato da WWH v. Hellerstedt, se non fosse che – in quest’occasione – decisiva si è rivelata la posizione assunta dal Justice Roberts. Il Chief Justice ha sorprendentemente reso una opinione concorrente a supporto della frangia liberale della Corte, capitanata dal Justice Breyer appunto, determinando così l’esito finale della vicenda. A contrario di quanto sostenuto nel 2016, infatti – anno in cui il Justice Roberts si era schierato per la costituzionalità della legge texana sull’aborto finendo nella schiera della minoranza dissenziente – in questo caso il giudice conservatore si è espresso per la censura della legge della Louisiana. Scorrendo le parole dell’opinione resa dal Chief Justice, però, quel che balza all’occhio non è certamente un cambio di idee o di orientamento, quanto piuttosto la precisa volontà di aderire strettamente al principio dello stare decisis, vincolante l’organo giudicante a conformarsi al precedente giudiziale qualora si trovi a decidere su fattispecie similari se non omologhe. Riconoscendo che nella sostanza la legge della Lousiana era di base identica a quella texana, il Justice Roberts ha pertanto risolto la questione in virtù del suddetto principio di common law, senza lasciar trapelare troppa simpatia per il merito della questione.
Pertanto, la tanto attesa pronuncia “June Medical Services L. L. C. Et Al. V. Russo, Interim Secretary, Louisiana Department Of Health And Hospitals” del mese scorso non può dunque che rivestire un denso significato simbolico, più che giuridico, lasciando velatamente trasparire gli oscillanti equilibri interni alla Corte Suprema nonché la precarietà dei principi – finora ritenuti – cardine in materia. Più che ad una convinta affermazione da parte dei giudici della necessità di salvaguardare il diritto di scelta della donna se ricorrere o meno all’aborto, il felice esito della controversia pare piuttosto essere stato determinato da ragioni di mera procedura giuridica e di ossequio per il precedente.
Eppure gli umori appaiono parzialmente rinnovati a livello statale. Indicativa è difatti la decisione resa il 13 luglio scorso da un giudice della Georgia con cui è stata dichiarata la illegittimità costituzionale dell’House Bill 481 (“Living Infants Fairness and Equality – LIFE Act) che vietava il ricorso all’IVG dal momento in cui fosse stato possibile auscultare il battito umano del feto, ovvero all’incirca alla sesta settimana di gravidanza. Sebbene fossero presenti delle esenzioni nel caso di incesto, stupro, pericolo di vita per la gestante e impossibilità di sopravvivenza del feto, la legge avrebbe comunque comportato una significativa limitazione all’auto-determinazione della gestante, considerato anche che molte donne scoprono di essere incinte ben oltre tale stretto limite temporale. Come rilevato dal giudice di primo grado, infatti, il solo intento della legge era quello di promuovere il benessere del non-nato, senza tenere in considerazione quello della donna, privata di fatto della libertà di scelta. Il legislatore finiva dunque per imporre sulla gestante un onere eccessivo sulla propria possibilità/volontà di interrompere la gravidanza prima che il feto avesse raggiunto la capacità di sopravvivere al di fuori dell’utero materno. Parimenti, sempre nello stesso lunedì di luglio di quest’anno, un giudice della District Court di Nashiville ha emesso un ordine restrittivo temporaneo impedente l’implementazione della normativa del Tennessee in materia di aborto con cui veniva introdotto il limite delle sei settimane alla stregua di quanto già accaduto in Georgia. Ebbene, nel caso del Tennessee, la risposta giudiziale è stata a dir poco fulminea posto che la legge è stata firmata dal Governatore in mattinata e il relativo ordine restrittivo è stato emesso dal giudice di prime cure meno di un’ora dopo, andandone quindi a recidere – o almeno sospendere temporalmente – prontamente gli effetti.
In conclusione, allora, se a livello centrale è la regola dello stare decisis pare aver decretato la cesura per incostituzionalità della legge della Louisiana particolarmente restrittiva in tema di aborto, a livello statale pare essere la sensibilità dei giudicanti a cercare di fare salvi alcuni diritti acquisiti e costituzionalmente protetti, ma di certo non ancora assodati.