Dibattiti sulle cittadinanze in vendita nell’Unione europea

E’ fissata per questa settimana, il 15 gennaio, la prima discussione da parte del plenum del Parlamento europeo sul «topical subject» dell’Investor Citizenship Scheme maltese, il progetto politico in elaborazione da parte del governo dell’isola per la cd. messa in vendita della propria cittadinanza, una misura che come ben noto, stante il dettato dell’art. 20 del TFUE e la membership comunitaria di Malta, necessariamente coinvolge la cittadinanza europea.

Il progetto maltese, che già ha fatto discutere a livello pubblicistico e che è stato recentemente modificato dal governo responsabile, richiederebbe al momento un versamento una tantum nelle casse erariali di € 650.000, ed una parallela aggiuntiva obbligazione quinquennale per investimenti sui mercati immobiliari e mobiliari locali da parte degli interessati, a fronte dell’accesso ai diritti civili e politici nazionali e, per il tramite, a quelli sovranazionali.


Bene si vede come la questione vada a coinvolgere apertamente i labili ed incerti confini di quella creatura di laboratorio che è la cittadinanza europea, che certe versioni apocrife dei lavori preparatori del Trattato di Maastricht vogliono come concessione dell’ultima ora alla dimensione civica e sociale dell’integrazione nell’ambito di negoziati e di un testo “costituzionale” percepito come troppo tecnocratico (si vedano le ben note riserve di J.H.H Weiler, To be a European citizen – Eros and civilization, in Journal of European Public Policy 4(4), 1997, 495-519).

Dopo un ventennio, e consegnate le perplesse disposizioni sul complementare istituto sovranazionale ad una ondivaga ma certo progressiva giurisprudenza lussemburghese, pare che ora questo accessorio alle storiche cittadinanze nazionali sia divenuto di pregio, tanto da creare, o quantomeno aumentare, un ipotetico valore di mercato di queste ultime.
Pare ovvio, infatti, che se il governo maltese si impegna a destinare il ricavato di una futura collocazione sul mercato dei diritti di accesso alla propria comunità a progetti «linked to education, innovation, job creation and the implementation of the jobs plus strategy, social projects and ones regarding public health», gli aventi causa della compravendita in fieri siano attratti non solo o non tanto dalla partecipazione ad un simile rilancio politico locale, quanto alle prospettive di libera circolazione e di accesso paritario ai servizi negli altri ventisette stati membri europei.

E’ allora possibile che la Commissione europea e il Consiglio, chiamati anch’essi, nel dibattito del 15 p.v., ad esprimere la propria posizione, possano opporre obiezioni in punta di diritto al paventato progetto maltese, in rappresentanza della comunità?
Può ad esempio il principio cardine di sincera e leale cooperazione tra stati membri espresso all’art. 4(3) del TUE essere opposto credibilmente ed efficacemente contro pratiche che pur sempre ricadono, per tradizione internazionalistica, nelle competenze uniche ed essenziali degli stati stessi? Sono configurabili simile pratiche, come è stato espresso proprio in vista del prossimo dibattito parlamentare, quali abuso dei diritti derivanti dai trattati europei? (si veda ad es. l’interrogazione dei deputati dell’Alleanza dei Democratici e dei Liberali per l’Europa.
E in quest’ottica, è la pratica stessa della cd. compravendita, e quindi il paventato sinallagma economico, che può essere determinato come un abuso, quando anche altri paesi, tra cui alcuni orientali di ultima annessione o la stessa Italia nei confronti di molti naturalizzati sudamericani, largheggiano nella concessione della propria cittadinanza, anche con effetti numericamente più rilevanti di quelli maltesi?
E da ultimo, l’investimento finanziario di un acquirente cittadinanza maltese può essere o meno paragonabile a quello di chi investe la propria forza lavoro, la propria volontà di risiedere stabilmente e la propria disponibilità ad integrarsi nel tessuto civile di un altro paese nell’ottica di una naturalizzazione? Od altrimenti, dove tracciare il confine tra un investimento benvenuto ed uno irricevibile in questo senso?

Senz’altro un simile dibattito – che solo si avvia in questi giorni e che pare poter portare ad una fase di maturazione nella coscienza comunitaria su cosa debba intendersi per cittadinanza europea e con quale intrinseco valore  rispetto al simbolismo federalistico legato al passaporto unico – pare opportuno, congiungendosi peraltro temporalmente con le polemiche britanniche per la fine delle restrizioni all’accesso dell’immigrazione lavorativa rumena e bulgara.

Un rimando pare opportuno, in tal senso, per chi volesse approfondire la questione, agli già numerosi scambi di giuristi e politologi nelle pagine di EUDO, l’osservatorio europeo sulle politiche di cittadinanza presso l’Istituto Universitario Europeo di Fiesole.