La capacità trasformativa della cittadinanza europea. Una prospettiva comparatistica

This article provides a first overview of the EU citizenship’s transformative impact over national ones. It looks at the capacity of EU citizenship to evolve and modify national citizenship laws by interacting with them. The analysis corroborates these links by looking at three domains and conceptual dimensions: citizenships as bundles of rights, as status, as elements of identity. It establishes that a natural coexistence of casuistry and logic nourishes the evolution of this interaction, and will do so in the future.


C’è un Comitato in Lussemburgo. Riflessioni comparatistiche sull’art. 255 TFUE a dieci anni dal Trattato di Lisbona

This paper analyses the new system for selecting the Judges and Advocates General of the Court of Justice of the European Union. This system has been introduced by the Treaty of Lisbon. In so doing, the system for selecting the Luxembourg Judges will be considered against the background of prototypical comparative models, both in nation states and in international organisations. Comparison will make it possible to understand the system currently in force in the EU as the result of a compromise. A prospective analysis will follow, in which independence and accountability, i.e. the two main goals of a selection system, are taken into account.


Nuove cronache costituzionali da Israele, frontiera del costituzionalismo occidentale

Già in queste pagine si è provato a dare conto, anni orsono, dello sviluppo sempre vivido del dibattito israeliano sul ruolo della Corte suprema e sui confini dei poteri di judicial review nel sistema costituzionale del paese.
Le naturali tensioni insite nel ruolo contromaggioritario del giudiziario si acuiscono da decenni in Israele per via di note specificità del sistema: l'aspirazione anfibologica alla costruzione di uno stato al contempo Jewish, connotato identitariamente, e democratic, e dunque inclusivo e che mira alla tutela delle minoranze; l'assenza, insieme contingente e programmatica, di una costituzione unidocumentale e completa, sostituita da un progetto di leggi fondamentali, leggi capitolo, su singole tematiche, di discusso valore parametrico; il continuo stato d'emergenza dichiarato per legge, pure da decenni, dalla Knesset; l'iniziativa della locale Corte suprema degli anni '90, sotto la guida di Aharon Barak, di arrogarsi ex novo ed in via interpretativa un potere di judicial review of legislation sino a quel momento pressoché sconosciuto nell'ordinamento, in esito all'adozione, però estemporanea, nel 1992 delle prime Basic Laws in materia di diritti umani; l'inclusione successiva nel tessuto di una di dette Basic Laws, ed in particolare della Basic Law: Freedom of Occupation, di una cd. override clause che, sul modello canadese, permettesse al potere legislativo, una volta dichiarata l'incostituzionalità di una certa normativa, di scavalcare, almeno temporaneamente, gli effetti di detto responso votando ancora, a maggioranza assoluta, per la sua permanenza in vigore.

Il dibattito si interessa oggi di alcuni nuovi rilevanti capitoli, sempre declinati nell'ottica del conflitto tra poteri che sembra essere diventato - dopo decenni di ricercata omogeneità culturale e valoriale dopo la fondazione - caratteristica indefettibile del paese.

Il primo capitolo. Si sono succeduti in passato numerosi tentativi di reazione da parte del potere politico locale rispetto alla pretesa espansione dei poteri del giudiziario.

Ad esempio, a più riprese sono stati avanzati tentativi di contenimento dei poteri di judicial review riconosciuti dalla Corte, tra cui spiccano proposte di riforma dei meccanismi di selezione dei giudici e un contestato tentativo di ridefinizione nel 2008 (via legge ordinaria! e supportato dal ministro della giustizia dell'epoca) dell'ambito delle Basic Laws capaci di fungere da parametro in un giudizio di costituzionalità - giacché, tra le varie questioni lasciate aperte dalla fondativa sentenza United Mizrahi Bank del 1995 (la Marbury v. Madison locale, nel cui ambito la Corte suprema scoprì i propri poteri di judicial review) vi era appunto quella di quali leggi fondamentali potessero fondare i nuovi poteri giudiziali, se solo quelle nuove sui diritti umani del 1992 od anche, opportunamente interpretate, anche quelle passate ed eventuali future.

Facendo poi perno sulla menzionata inclusione già dagli anni '90 di una override clause nel tessuto di una particolare legge fondamentale sui diritti umani (la  Basic Law: Freedom of occupation, mentre occorre sottolineare che la Basic Law: Human Dignity and Liberty invece non contiene alcuna clausola di questo tipo, che era presente nell'originario disegno di legge ma non fu approvata), si sono succedute nel tempo numerose proposte per l'istituzione di un generalizzato meccanismo cd. di overturn delle decisioni giudiziarie da parte della Knesset, attraverso il voto di una speciale maggioranza qualificata.
Ciò già accadde, nel 2012, nella proclamata ottica di «ridurre la conflittualità tra il parlamento e il giudiziario», e ancora nel 2014 in esito ad uno di detti numerosi episodi di conflittualità, una sentenza della Corte suprema che dichiarò incostituzionale una normativa in tema di detenzione di richiedenti asilo, sempre col supporto del partito oggi di maggioranza del Likud e dei partiti ebraici ortodossi.
All'epoca la riforma fu semplicemente discussa a livello politico, senza esito; ma negli anni successivi la proposta finì per essere inclusa negli accordi di coalizione tra gli attuali partiti conservatori al governo del paese.
In esito ai recenti nuovi aspri dibattiti in tema di migrazioni dall'Africa, e di opportunità di detenzione degli immigrati, la proposta è oggi però finita per risorgere e ottenere una consacrazione formale nel voto iniziale del Ministerial Committee on Legislation, e dunque l'adesione del Governo in carica.

Fermo un recentissimo richiamo ad un ripensamento in sede di coalizione di maggioranza, probabilmente la proposta farà dunque la sua prima apparizione all'attenzione della Knesset e sarà oggetto di un voto d'approvazione. Nel mentre, si è già scatenato un dibattito, non solo locale, che ha visto veementemente schierarsi contro il progetto di riforma l'attuale e la passata presidente della Corte suprema e l'Attorney General del paese, un'ampia coorte di accademici locali, oltre che vari partiti d'opposizione.
Il dibattito teorico sul concetto di override/notwithstanding clause quale compromesso e uovo di Colombo per la risoluzione della storica countermajoritarian difficulty, e quale potenziale creatore di un dialogo tra poteri, tende per ora quantomeno a rimanere sullo sfondo: le controversie locali si incentrano in realtà tutte sui temi migratori che hanno funto da innesco per la questione, sulle accuse politiche da parte di alcuni alla Corte suprema di voler fungere da istituzione «sovrana», sulla difesa della Corte da parte di altri da attacchi che mettono in ballo il corretto dispiegamento della separazione tra poteri.
Ciò è in fondo comprensibile: le specificità estreme del paese, il permanente stato d'emergenza per ragioni di sicurezza, le continue tensioni etniche e religiose, la mancanza di stabili tradizioni democratiche fungono da innesco per le proposte di riforma ma sono al contempo, ovviamente, le ragioni di maggiore preoccupazione per ogni proposta che voglia reprimere il controllo giudiziario, ed anzi sono le ragioni di fondo che colorano come strumentali le proposte politiche di contenimento. Salve le suggestioni comparatistiche, ciò è particolarmente vero in un ordinamento monocamerale, ove dunque il sistema di ovverride risulterebbe massimamente centralizzato e passibile di utilizzi distorti, e ove in particolare, lo si rimarca, lo stato di emergenza legislativa è da decenni rinnovato con ovvio potenziale continuo detrimento del rispetto dei diritti umani.

A ciò si lega, come necessaria contestualizzazione, il secondo capitolo di queste brevi cronache.
Dopo una gestazione di anni, ma con esito pressoché contestuale all'emersione del primo tema, la Knesset ha approvato nell'ultimo giorno della propria sessione estiva una nuova Basic Law intitolata «Israel as the Nation State of the Jewish People».
Essa si connota, già ictu oculi, come una ulteriore torsione in tema di equilibri ordinamentali fondamentali, ed in particolare in tema di equilibrio tra le professe velleità israeliane di essere uno stato al contempo Jewish e democratic. Nell'ambito di una legge fondamentale che sembra appuntarsi su aspetti simbolici e puramente formali, la Knesset ha inserito alcune disposizioni di sicura problematicità sul punto: riconoscendo il «diritto di esercitare l'autodeterminazione nazionale» al solo popolo ebraico, e non ad altri; stabilendo l'ebraico quale unica lingua ufficiale, e degradando l'arabo, lingua ampiamente diffusa nel paese, a idioma con un semplice status speciale protetto; e non solo proclamando quale «valore nazionale» la creazione di insediamenti ebraici, ma anche programmaticamente stabilendo che lo stato ne incoraggerà e promuoverà la costituzione.
Ora, è evidente che la nuova Basic Law interviene a gamba tesa su temi lungamente dibattuti nel paese, quale quello dei confini territoriale e quello dell'identità etnico-religiosa; e probabilmente non è un caso se l'attuale primo ministro Benjamin Netanyahu incontrava solo poche ore prima della formale adozione del testo, in visita ufficiale, il presidente ungherese Orbán, dichiarando una ampia consonanza con i paesi del gruppo di Visegràd sui temi identitari.
Ma è ancora più preoccupante notare che questa Basic Law potrà fungere da scudo futuro per misure politiche problematiche; e che la Corte suprema, che si troverà con ogni probabilità a vagliarne la legittimità giacché già si infittiscono le iniziative a ciò tese, si troverà nelle ambasce di dover ineditamente abbracciare, se del caso, la dottrina altrove creata dell'incostituzionalità dell'emendamento costituzionale, e comunque di agire da una posizione istituzionale particolarmente indebolita.


Book Review: G. Papaconstantinou, Game Over. The Inside Story of the Greek Crisis (Papadopoulos Publishing, 2016)

La recensione intende segnalare ad un pubblico di specialisti del diritto un libro apparentemente estraneo al settore disciplinare, ma che, ad avviso di chi scrive, è prezioso per la comprensione delle dinamiche costituzionali in essere nel continente europeo.

L'autore del libro è l'ex ministro delle finanze greco George Papaconstantinou, economista di formazione anglosassone, per anni funzionario dell'Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, poi tornato in patria dapprima come consulente del governo greco, poi come membro del parlamento locale e poi di quello europeo; da ultimo nominato, nell'ottobre 2009, ministro del governo socialista di George Papandreou. Il libro – versione in inglese dopo il successo di quella in greco - si definisce, in quarta di copertina, come thriller politico fondato sulla realtà: è difatti una sorta di diario di bordo, scritto da posizione privilegiata, del Ministro che per primo si trovò a negoziare nell'Unione e con l'Unione europea, e con il Fondo monetario internazionale, il programma di aiuti alla Grecia, nella temperie della crisi economica e finanziaria del 2009.

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Marco Dani, Il diritto pubblico europeo nella prospettiva dei conflitti (CEDAM, Padova) 2013

Il dibattito sulla natura costituzionale o meno (o più o meno costituzionale) dell'Unione europea e del suo diritto, dopo due decenni circa di splendore, ha conosciuto recentemente una fase di stanca.
Fiorita dopo il Maastricht-Urteil del Tribunale costituzionale tedesco del 1993 una ricca serie di teorizzazioni sull'autorità e sulla legittimazione del diritto europeo, che hanno accompagnato e ispirato i noti tentativi e i fallimenti costituzionali del decennio scorso, e si sono poi interrogate sulle risultanti discrasie del post-Lisbona, la dottrina giuspubblicistica negli ultimi anni è parsa più dedita ad annotare le gravi tensioni derivanti dalla crisi economica e politica in atto nel continente, le cui dimensioni e le cui prospettive sono ancora di là da essere compiutamente definite.
Il bel libro di Marco Dani, edito lo scorso anno, rompe questa tendenza riallacciando le fila dei dibattiti del passato e delle criticità del frangente attuale.

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Dibattiti sulle cittadinanze in vendita nell'Unione europea

E' fissata per questa settimana, il 15 gennaio, la prima discussione da parte del plenum del Parlamento europeo sul «topical subject» dell'Investor Citizenship Scheme maltese, il progetto politico in elaborazione da parte del governo dell'isola per la cd. messa in vendita della propria cittadinanza, una misura che come ben noto, stante il dettato dell'art. 20 del TFUE e la membership comunitaria di Malta, necessariamente coinvolge la cittadinanza europea.

Il progetto maltese, che già ha fatto discutere a livello pubblicistico e che è stato recentemente modificato dal governo responsabile, richiederebbe al momento un versamento una tantum nelle casse erariali di € 650.000, ed una parallela aggiuntiva obbligazione quinquennale per investimenti sui mercati immobiliari e mobiliari locali da parte degli interessati, a fronte dell'accesso ai diritti civili e politici nazionali e, per il tramite, a quelli sovranazionali.

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Il caso E-18/11: un simulacro di rinvio pregiudiziale come nuovo riflesso nello specchio della comparazione tra sistema UE e sistema EFTA?

Che l'ordinamento della Unione europea sia da considerare locus amoenus e grande laboratorio per la comparazione giuridica è cosa risaputa ed assodata, riaffermata del resto dalla stessa ragion d'essere di questo blog.

Varie sono però le dimensioni in cui detta comparazione giuridica si estrinseca nel mondo del diritto europeo, e le sempre nuove dinamiche di armonizzazione positiva e di interpretazione delle multiformi tradizioni costituzionali comuni degli stati membri a volte nascondono all'attenzione generale certi fenomeni sicuramente collaterali, ma parimenti interessanti e degni di menzione e nota in questa sede.

 

In particolare si vuol fare qui riferimento al nuovo, recentissimo capitolo della saga che unisce i destini e le traiettorie giurisprudenziali dei sistemi giudiziari dell'Unione europea e del sistema EFTA (European Free Trade Association, o Associazione Europea di Libero Scambio).

Trattasi di due sistemi di giustizia sovranazionali che, “separati” per così dire alla nascita a seguito della nota Opinione della Corte di Giustizia 1/91 (http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=CELEX:61991CV0001:IT:PDF), hanno tuttavia legato, come noto, “istituzionalmente” il proprio operare: il tutto attraverso le previsioni espresse, nel diritto positivo, degli art. 6 dell'Accordo sullo Spazio Economico Europeo e dell'art. 3-II dell'Accordo cd. SCA sull'Autorità di Vigilanza e sulla Corte, che richiamano rispettivamente la Corte EFTA ad un'interpretazione conforme del diritto del proprio ordinamento alla luce della giurisprudenza comunitaria precedente all'Accordo stesso e, in aggiunta e relativamente allo stesso operare, alla seria “presa in considerazione” dei dicta successivi della Corte di Giustizia di Lussemburgo, e, successivamente, con un'intensa opera di genuino “dialogo” tra Corti (in tal senso si veda in particolare C. Baudenbacher, The EFTA Court in Action. Five lectures, German Law Publishers GLP, 2010), dialogo estrinsecatosi a propria volta in più interessanti direzioni.

 

In effetti la finalità di creazione di un'“area dinamica ed omogenea” di applicazione del diritto europeo (come da obiettivi espressi nei rilevanti Trattati) si è appalesata nei decenni non solo attraverso una costante opera di «mirror legislation» nell'area EFTA in conformità con la paradigmatica normazione comunitaria (in tal senso da ultimo D. Gallo, From Autonomy to Full Deference in the Relationship between the EFTA Court and the ECJ: The Case of the International Exhaustion of the Rights Conferred by a Trademark, EUI Working paper RSCAS 2010/78, p. 4 e ss.), ma nella stessa trasformazione per via interpretativa e giurisprudenziale di una semplice “area di libero scambio” (come da tradizionali principi ispiratori del sistema EFTA) in una particolare tipologia di “mercato interno”, attuando modalità non meno «integration-friendly … than the ECJ does in Community Law» (in tal senso C. Baudenbacher, The EFTA Court Ten Years On, in C. Baudenbacher, P. Tresselt, T. Orlygsson ed., The EFTA Court – Ten Years On, Oxford, 2005, 20).

Uno speciale Joint Committee previsto dall'art. 105 par. 2 dell'Accordo sullo Spazio Economico Europeo ha del resto il precipuo compito in detto sistema di gestire e di vagliare il flusso informativo relativo allo sviluppo dei due ordinamenti, specialmente in sede di interpretazione giudiziale, tanto da poter agire conseguentemente «to preserve the homogeneous interpretation of the Agreement» (art. 105 par. 3).

La Corte EFTA, vieppiù, nel corso degli anni, si è progressivamente conformata ai ritrovati della giurisprudenza comunitaria, attraverso l'adozione di una serie di dottrine, tra cui quella della presunzione di interpretazione omogenea in caso di normazione a propria volta omogenea (EFTA Court caso Norwegian Waterfalls, 2007), l'applicazione – seppur libera e per certi versi condizionata -  dei principi “costituzionali” del diritto UE, tra cui quelli di un cd. “quasi-effetto diretto” (EFTA Court caso Restamark, 1994) e di una cd. “quasi-primacy” (EFTA Court  caso Einarsson, 2002), e la creazione per via giurisprudenziale della responsabilità degli stati membri per violazione del diritto convenzionale (EFTA Court caso Sveinbjòrnsdòttir, 1998, tra gli altri).

 

Le relazioni tra le due Corti si sono in tal senso sviluppate costantemente, e in modo biunivoco: è possibile ravvisare difatti anche una nutrita serie di casi in cui la Corte di Giustizia del Lussemburgo ha fatto a propria volta rimando alla giurisprudenza EFTA (sin dai primi casi riuniti C 34-36/95 Konsumentombudsmannen (KO) v. De Agostini (Svenska) Forlag AB e TV-Shop Isverige AB), e uno speciale dialogo si è sviluppato in particolare con gli Avvocati Generali della Corte UE, spesso dimostratisi propensi a corroborare le proprie Opinioni con medesimi riferimenti. A sua volta la giurisprudenza EFTA ha spesso richiamato (anche in vista della mancanza nel proprio sistema di simili amici curiae) le Opinioni degli Avvocati Generali in casi analoghi.

 

In un simile sistema binario, fondato tanto sull'analogia quanto sulla comparazione - e qui per ragioni di spazio e di opportunità soltanto abbozzato nei propri aspetti fondamentali - una grande asimmetria è sempre balzata agli occhi.

Il sistema EFTA ha sempre difettato infatti - per previsione espressa del citato Accordo SCA sull'Autorità di Vigilanza e sulla Corte - di uno strumento notoriamente rivelatosi fondamentale per lo sviluppo “costituzionale” della costruzione sovranazionale europea qual è quello del rinvio pregiudiziale di cui all'odierno art. 267 TFUE.

Un mero simulacro di procedura consultiva di raccordo tra la Corte EFTA e i tribunali locali di Norvegia, Islanda e Liechtenstein è previsto dall'art. 34 dell'Accordo, che però dà vita ad uno strumento che non solo non vincola in alcun modo i giudici al rinvio pregiudiziale («… any court or tribunal in an EFTA State … may, if it considers it necessary to enable it to give a judgment, request the EFTA Court to give such an opinion ...»), ma nemmeno è inteso produrre per questi effetti vincolanti una volta che la pronuncia della Corte sovranazionale sia stata posta in essere.

 

Alla luce però delle altre rilevanti citate simmetrie che lo specchio della comparazione tra sistema UE e sistema EFTA ha riflesso nel corso degli anni, non solo la dottrina aveva da tempo chiamato ad un ripensamento del sistema interno di judicial remedies che portasse ad un'unitaria interpretazione autoritativa del diritto dello Spazio Economico Europeo (si veda in tal senso S. Magnússon, On the Authority of Advisory Opinions, in Europarättslig tidskrift 13/2010, 535-536 e, per un recente commento in linea con il presente, B. Pirker, Case E-18/11: Small steps towards a preliminary reference procedure for the EEA EFTA countries?, in European Law Blog, http://europeanlawblog.eu/?p=1450), ma la stessa Corte EFTA, facendo perno sui propri poteri interpretativi, nel recente caso E-18/11 - Irish Bank Resolution Corporation Ltd vs Kaupthing Bank hf (http://www.eftacourt.int/images/uploads/18_11_PR_EN.pdf, posto in decisione nel settembre 2012) ha aperto interessanti prospettive di rimodulazione nell'utilizzo delle esistenti procedure di advisory opinion, verso un sistema che sembra di nuovo aderire a un paradigma di “quasi-rinvio pregiudiziale” ex art. 267 TFUE.

 

Il caso di specie traeva origine dal rinvio – appunto opzionale – che il Tribunale distrettuale di Reykjavìk (Héraðsdómur Reykjavíkur, tribunale di primo grado) effettuava alla Corte EFTA per l'interpretazione di alcune parti della Direttiva 2001/24/EC di Parlamento e Consiglio europei del 4 aprile 2001 in materia di risanamento e liquidazioni di enti creditizi, rinvio consistente in due diverse questioni poste alla Corte. Nel giudizio d'appello parziale nelle more occorrente, la Suprema Corte islandese confermava la richiesta interpretativa alla Corte EFTA, ma si trovava a rimodulare decisamente sua sponte le questioni formulate dal giudice di primo grado, in particolare dividendo la prima in due diverse domande e omettendo pienamente la seconda (par. 36-38).

 

Di fronte a un simile, discutibile e discusso comportamento del tribunale d'appello, la Corte EFTA si dimostra disposta a fare ampio uso nel caso in commento della propria creatività interpretativa per fini di razionalizzazione del proprio sistema ordinamentale.

Basti pensare che in primis, di fronte alla strutturale correlata mancanza di obblighi in capo a qualsivoglia tribunale interno di riferire questioni interpretative, la Corte coglie l'occasione per rileggere qui l'art. 34 dell'Accordo SCA alla luce del principio generale di leale cooperazione tra corte sovranazionale e corti nazionali: e sebbene debba riconoscere per inciso come la permanente differenza con il sistema di cui all'art. 267 TFUE sia da ricondurre ad un livello «less far-reaching» di integrazione tra i membri del sistema EFTA (par. 57), in questa sede esprime un chiaro monito ai propri giudici nazionali di primo grado di riferimento per l'instaurazione di rapporti «more partner-like» (ivi).

Per di più, nel successivo par. 58, sempre alla luce del principio generale di leale cooperazione di cui all'art. 3 dell'Accordo sullo Spazio Economico Europeo, la Corte EFTA prosegue nel proprio monito indirizzandosi ai giudici di ultimo grado – quelli che nel sistema comparando, quello comunitario, avrebbero ex art. 267 TFUE un generale obbligo di rinvio pregiudiziale – richiamandoli in maniera invero vaga a tenere speciale «due account of the fact that they are bound to fulfil their duty of loyalty under Article 3 EEA», e quindi ad una maggiorata attenzione per l'esatta ed uniforme interpretazione del diritto sovranazionale.

 

Di seguito, occupandosi della più diretta questione della possibilità di emendamento della questioni interpretative indirizzate alla Corte stessa in sede d'appello, i giudici EFTA riaffermano sì la funzionale possibilità di soggezione ai «national remedies», nelle more, dei giudizi fatti oggetto di rinvio (par. 62), ma in tal senso richiamano al dovere di un'interpretazione delle norme dell'ordinamento dello Spazio Economico Europeo, e in particolare qui dell'Accordo SCA sull'Autorità di Vigilanza e sulla Corte, «in the light of fundamental rights» (par. 63), includendo esplicitamente in tal senso il valore parametrico delle disposizioni della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo e la stessa giurisprudenza della Corte ECHR (come da stabili orientamenti, si vedano i casi E-2/03 Ásgeirsson par. 23, E-4/11 Clauder par. 49, E-15/10 Posten Norge par. 84 e ss.).

 

In quest'ottica, la Corte EFTA corrobora alla luce dell'art. 6 della Convenzione europea del 1950 e dei suoi principi di “giusto processo” il proprio richiamo tanto ai tribunali in generale ad una più attenta considerazione, di nuovo, della possibilità di rinvio di questioni interpretative pregiudiziali (specie se richiesti in tal senso dalle parti), quanto in particolare le corti interne di ultimo grado ad una più solerte opera di rinvio, suggerendo proprio la condotta modificativa della Suprema Corte islandese delle questioni sollevate dal Tribunale distrettuale di Reykjavìk come passibile di revisione alla luce dello stesso art. 6 come recepito nel sistema SEE.

In tal senso, la Corte EFTA procede del resto nel caso Irish Bank Resolution Corporation Ltd non solo a censurare la scelta emendatrice della Suprema Corte (par. 69), anche alla luce delle similitudini riscontrate nelle questioni sollevate dai due organi giudiziari interni; ma pure in effetti a rispondere alle originali questioni interpretative poste dal Tribunale di prime cure (par. 70 e ss.), proprio «in order to give as complete and as useful a reply as possible to the referring court in the framework of the close cooperation under Article 34 SCA».

 

Una lettura contestuale insomma del nuovo caso E-18/11, anche alla luce dello sviluppo nei decenni delle relazioni tra sistema EFTA e sistema UE, pare mostrarci la Corte EFTA propensa a reclamare, grazie all'interposizione parametrica dell'art. 6 della Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo, non solo la propria possibilità di censura nelle scelte modificative delle questioni pregiudiziali proposte a se stessa da parte dei giudici di primo grado (questione fondamentale nel caso di specie); ma anche a suggerire un proprio più generale potere - secondo i canoni del “giusto processo” e secondo il principio di leale cooperazione - di vagliare quantomeno le motivazioni che stanno dietro ad un mancato rinvio pregiudiziale da parte dei giudici nazionali, pur rimanendo nel diritto positivo del sistema detto rinvio pregiudiziale opzionale e non obbligatorio.

Si dovranno pertanto attendere con attenzione i futuri sviluppi di questa giurisprudenza per capire quanto pervasivo sarà lo scrutinio della Corte stessa sull'operato dei giudici nazionali di Norvegia, Islanda e Liechtenstein, e quanto spazio di discrezionalità rimarrà invece a questi ultimi nella scelta dell'avvalersi o meno dell'ausilio del proprio “oracolo” sovranazionale, dipendendo essenzialmente da questi fattori la convergenza o meno della procedura consultiva di cui all'art. 34  dell'Accordo SCA sull'Autorità di Vigilanza e sulla Corte verso il modello fondamentale del rinvio pregiudiziale ex art. 276 TFUE.

 


La nuova tornata di nomine dei giudici supremi d'Israele: when law meets politics

E' noto come Carl Schmitt, nella sua critica visione della giustizia costituzionale, temesse per mezzo di questa tanto la giurisdizionalizzazione della politica quanto la politicizzazione della giurisdizione.
In tal senso, come del resto spesso capita di leggere decenni dopo, il giurista tedesco coglieva nel segno, quantomeno per quanto riguarda alcuni effetti.
E per averne più compiuta riprova, è sufficiente constatare come a certe latitudini non solo la stessa nomina dei giudici costituzionali è questione ampiamente contestata, che anima i dibattiti e divide il pubblico; ma la polarizzazione che ne deriva tende a rispecchiare il dibattito politico generale del paese d'appartenenza, tanto da poterne fungere da utile cartina di tornasole.

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Il “dialogo” secondo il New York Times, e la “declinante influenza” della Costituzione americana.

La cosa avrà senz'altro colpito molti degli studiosi. Quasi venticinque anni dopo l'icastico titolo del Time, che nel 1987, nel bicentenario della Costituzione americana, la celebrava come “Gift to all nations” (http://www.time.com/time/magazine/article/0,9171,964901,00.html), ecco la Magna Carta di Filadelfia di nuovo assurgere agli albori della pubblicistica.

Stavolta l'atmosfera è ben diversa, e gli intenti molto più critici. Il New York Times (http://www.nytimes.com/2012/02/07/us/we-the-people-loses-appeal-with-people-around-the-world.html?_r=4&hp) prende spunto da una ricerca che da qualche mese circolava sulle nostre scrivanie, quella di David Law e Mila Versteeg (http://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=1923556), legata al progetto Comparative Constitutions (http://www.comparativeconstitutions.org), e di lì muove per riflettere sulla “declinante influenza” della Costituzione americana come modello genericamente comparatistico.

Se nel 1987 infatti 160 delle 170 carte costituzionali del mondo erano “modellate direttamente o indirettamente sulla versione americana”, questo processo di assimilazione si sarebbe secondo gli autori interrotto tra gli anni '80 e gli anni '90, rendendo la “supreme law of the land” una sorta di “Windows 3.1”, cui nessuno più volge la propria attenzione in cerca d'ispirazione quanto a formule organizzative e istituti caratteristici.

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