Europa allo specchio: il comparatista e le “primavere” arabe

Ad un anno dalla caduta dei regimi dittatoriali in Tunisia ed Egitto e dallo scoppio del conflitto libico, lo scenario politico e costituzionale dei paesi dell’area del Maghreb continua ad apparire confuso, ed incerti gli esiti del processo di transizione in atto. Più in generale, il quadro appare complicato dall’inasprirsi della vicenda siriana e dalla stessa crisi economica che sta colpendo l’area euromediterranea.

In tale contesto, l’analisi del complesso fenomeno che va sotto il nome di “primavera araba” (meglio: di “primavere arabe”) pone delle sfide profonde al costituzionalismo. Quale può essere, in altre parole, il ruolo della scienza costituzionalistica, e dello studioso di diritto costituzionale comparato in particolare, di fronte ai processi di transizione in atto, al tempo della crisi economica globale?

Viene alla mente, innanzitutto, il precedente dei processi di transizione democratica nell’Europa orientale dopo il 1989; in tale frangente, infatti, gli studiosi di diritto costituzionale – specie tedeschi – riuscirono con successo a tracciare un ponte tra le esperienze costituzionali dell’Europa occidentale e la scrittura delle nuove Costituzioni dei paesi dell’Est. Tuttavia, sarebbe sciocco non riconoscere che, in tale contesto, tale ruolo fu facilitato dalla presenza di una matrice culturale comune, dalla comune appartenenza all’orizzonte culturale europeo, pur in costanza di differenze storiche, sociali, economiche e politiche di sicuro rilievo.

Così, con riferimento alla situazione attuale ed alla possibilità di tendere un analogo ponte verso l’altra sponda del Mediterraneo, bisogna farsi carico di alcuni rischi: in primo luogo, quello di sottovalutare le profonde differenze culturali e di contesto tra le esperienze costituzionali ed in secondo luogo di quello, altrettanto forte e profondamente connesso al primo, di assumere una posizione di superiorità “eurocentrica”, a cui consegue talvolta l’illusione di poter esportare acriticamente modelli istituzionali maturati nel contesto europeo – non tutti, peraltro, in ottima salute – in contesti profondamente diversi.

La sfida, tuttavia, deve essere raccolta ed affrontata proprio con gli strumenti del metodo della comparazione giuridica, specie qualora di esso si accettino quelle interpretazioni particolarmente attente alle premesse dell’apertura all’alterità in diritto (Legrand), dell’ascolto di esperienze culturali e storiche diverse e soprattutto della profonda attenzione al contesto sociale economico e culturale in cui i processi di transizione si stanno sviluppando (Häberle).

L’attenzione al contesto, con riferimento a paesi di tradizione islamica, dovrebbe condurre, in particolare, ad un più profondo sforzo di conoscenza, ben al di là delle immagini consolidate di un Islam monolitico e rigidamente orientato al rifiuto della tradizione giuridica occidentale, specie con riferimento al concetto di uno spazio pubblico aperto. Lo studio della tradizione giuridica islamica, al contrario, mostra che, accanto ad innegabili distanze ed a punti di vista radicalmente diversi, si cela una realtà profondamente plurale, caratterizzata dalla centralità – nello stesso sistema delle fonti del diritto islamico – del dibattito e della ricerca del consenso (ijma) tra posizioni e scuole anche assai diverse tra loro. Un consenso che, come è stato bene osservato (Glenn), è essenzialmente di tipo plurale, proprio perché basato sulla centralità del ragionamento individuale (ra’y) nelle dinamiche di interpretazione dei testi sacri, con particolare attenzione alle situazioni concrete.

Una lettura in chiave comparatistica delle “primavere arabe” potrebbe così condurre l’osservatore a riconoscere in essa un vero e proprio “specchio” per l’Europa. Nel confronto con i processi di transizione nei paesi del Maghreb, il comparatista si scopre in altre parole a riflettere sulla stessa Europa in crisi, scoprendo poco a poco simmetrie, problemi e prospettive comuni, ferma restando la lucida coscienza delle differenze. Allo stesso tempo, non è possibile dimenticare che l’Europa – nell’apertura all’analisi dei processi costituzionali, politici, sociali ed economici del Nordafrica – si trova oggi ad affrontare le conseguenze delle proprie politiche di appoggio ai regimi autocratici, dei propri complici silenzi, della prevalenza degli interessi economici – ma anche geopolitici – sulla difesa della democrazia, dei diritti, delle libertà fondamentali. Conseguenze che è possibile avvertire, con particolare intensità, sul fronte delle politiche migratorie, dove al silenzio complice degli ultimi vent’anni si sostituisce il silenzio ed il rifiuto di chi nega accoglienza, inganna, confina in campi ed impietosamente rimpatria, quando non lascia morire in mare: un silenzio che non può essere mantenuto a lungo, se non si vuole replicare la schizofrenia di una Europa “dei diritti” che non si assume responsabilità umane e politiche fondamentali e funzionali proprio all’allargamento dello spazio di godimento e alla condivisione di democrazia e diritti.

Dunque, le “primavere arabe” come specchio in cui cercare analogie, differenze, possibili risposte a problemi in larga parte comuni che attanagliano l’Europa e il Mediterraneo al tempo della crisi.

Anzitutto, se ci si “specchia” nelle modalità in cui hanno avuto inizio i processi di transizione nel Maghreb, si è interrogati in profondità dalla spontaneità e dal coraggio dei rivoltosi, ma soprattutto dalla capacità di veicolare il dissenso, l’antagonismo e la contestazione verso obiettivi politici concreti, in assenza di un supporto partitico/organizzativo (se si eccettua, almeno in parte e nella fase finale delle rivolte, il ruolo del sindacato UGTT in Tunisia e della Fratellanza musulmana in Egitto). Anche l’Europa sta conoscendo infatti, da molti anni, l’emersione di un forte movimento di dissenso, di antagonismo radicale che, tuttavia, non riesce a canalizzare pienamente le proprie forze verso obiettivi politici concreti, rimanendo così attore fondamentale, ma marginale di fronte alle profonde resistenze del sistema istituzionale e politico (che spesso si traducono in episodi di repressione violenta) rispetto a narrazioni alternative della situazione economica e politica contemporanea. Le primavere arabe, così, pongono il comparatista davanti ad un primo compito, quello di comprendere il “movimento” e soprattutto di interrogarsi in profondità sul suo ruolo politico nel tempo della crisi.

Se si passa, in secondo luogo, ad analizzare almeno alcune tra le ragioni che hanno condotto allo scoppio delle rivolte nel Maghreb, ci si trova nuovamente di fronte ad uno “specchio”, a profondi e significativi punti di contatto con il fremito di contestazione, di insoddisfazione profonda, di rabbia, di sete di inclusione e di giustizia sociale che sta percorrendo l’Europa. Certo, non si possono cancellare le differenze strutturali, il diverso livello di sviluppo economico e soprattutto la diversa violenza ed oppressività del sistema politico di partenza; tuttavia, le analogie sono più forti di quanto si possa pensare, specie se si guarda al fenomeno nel (comune) orizzonte della crisi.

Le rivolte del Maghreb, infatti, hanno tradotto in termini politici una disperazione che affondava le proprie radici almeno in tre ambiti.

In primo luogo, la precarietà della condizione giovanile. Strozzati dalla morsa di standard educativi alti cui non potevano corrispondere adeguate possibilità di lavoro, i giovani del Maghreb hanno sfidato quell’incertezza che troppo spesso ripiega nella rassegnazione e nel fatalismo per realizzare l’etimologia stessa più profonda della parola “precario”. Precarietà rinvia infatti senz’altro ad una condizione di incertezza, ma è anche “richiesta, preghiera, anelito”, cioè desiderio di costruzione di un senso della propria esperienza personale: in questo senso, i giovani rivoltosi del Maghreb sono stati in grado di tradurre il disagio (e il coraggio) della precarietà in una vera e propria domanda di integrazione sociale e politica.

In secondo luogo, si deve ricordare la sostenibilità del modello economico, specie per ciò che riguarda la reazione all’intreccio tra oligarchie economiche e politiche e la domanda di apertura del sistema economico alla partecipazione di soggetti liberi da appartenenze politiche, familiari, tribali.

In terzo luogo, va ricordato il carattere asfittico degli spazi di partecipazione politica – con differenze che, ovviamente, non possono essere ignorate – e forse, più precisamente, lo scollamento tra dimensione istituzionale e forze sociali. Tre ordini di ragioni, tre livelli di comprensione che ci interrogano in profondità, come in uno “specchio”.

Ed infine, gli esiti, incerti, problematici, del tutto aperti. Anche ad analizzare questi, ci si scopre a ragionare di problemi che interessano l’Europa stessa, a rimeditarli in una prospettiva più ampia, illuminata dal gesto comparativo, dall’apertura all’esperienza dell’altro. Gli scenari che si aprono una volta avviato il processo di transizione sono legati all’elaborazione della “formula di convivenza” tra i diversi soggetti della transizione medesima; processi costituenti, in questo senso, sono stati avviati tanto in Egitto come in Tunisia, sia pure non senza ombre, resistenze, problemi assai significativi di rappresentatività e reale autonomia dei soggetti incaricati di redigere la Costituzione. Sullo sfondo dell’elaborazione della “formula di convivenza” costituzionale è possibile scorgere alcuni problemi fondamentali che, di nuovo, sono meno lontani dall’Europa di quanto si possa ritenere ad uno sguardo superficiale. Anche qui, senza pretesa di esaustività, richiamo quattro profili: le strategie di integrazione sociale (nella misura in cui, come detto, sullo sfondo delle rivolte c’era essenzialmente una domanda di integrazione), la sostenibilità del modello economico e più in generale il ripensamento dello stesso rapporto tra Costituzione, potere politico e mercato, le forme della partecipazione democratica, il ruolo del fattore religioso.

Quanto alle strategie di integrazione sociale, è evidente la ricchezza di patrimonio teorico e pratico che le esperienze costituzionali europee possono mettere a disposizione dei processi di transizione arabi. Il legame tra dimensione statale e costituzionale e strategie di integrazione sociale è infatti un’acquisizione assai risalente della scienza giuridica europea (Smend, Heller, Hesse, Häberle), che si è tradotta, tuttavia, in una serie di strumenti operativi (si pensi, su tutti, ai diritti sociali) ed in un vero e proprio modello sociale che oggi si mostra sofferente di fronte alle sfide della crisi, producendo tutele insufficienti e nuove marginalità sociali. Ecco allora che, di nuovo, riflettere sulle “primavere arabe” impone allo studioso europeo di rimeditare l’Europa stessa, il proprio bagaglio concettuale e culturale per far rivivere, nel confronto, l’ispirazione originaria di quelle strategie di integrazione ed interrogarsi sulle nuove forme che esse possono assumere nello scenario contemporaneo.

Altro profilo problematico comune, all’esito provvisorio delle rivolte arabe è, come accennato, il ripensamento del rapporto tra potere politico e mercato e, più in generale, il profilo della sostenibilità del modello economico. Si tratta di intervenire, infatti, su di un contesto che è stato caratterizzato per molti anni da un assetto oligarchico, unito ad un forte intreccio tra interessi economici e politici, anche con proiezione internazionale, al fine di garantire l’effettiva apertura del sistema economico e soprattutto la redistribuzione della ricchezza. Anche in questo caso, peraltro, non vanno sottovalutate analogie profonde con la situazione europea ed occidentale, ferma restando la diversità dei livelli di sviluppo (che non può essere dimenticata). Come nei paesi del Maghreb, anche in Europa si pone con forza il problema del rapporto tra potere politico e potere economico, degli assetti oligarchici del mercato, dell’assenza di politiche redistributive ed in questo senso la comparazione con l’esperienza delle transizioni arabe può risultare interessante. Si pensi, solo per fare un esempio, alla circostanza che nel diritto islamico tradizionale non è ammesso il finanziamento monetario dell’attività economica d’impresa (in linea con il più generale divieto del prestito ad interesse), ma esso è sostituito dalla compartecipazione e quanto possa incidere sulla sostenibilità del modello economico l’apertura a forme di cooperazione.

Si pone poi, in terzo luogo, il problema, in parte già accennato, del ripensamento delle forme della partecipazione democratica di fronte al profondo scollamento tra dimensione istituzionale e forze sociali che ha caratterizzato il “farsi” delle rivolte arabe. Anche in questo caso, ci troviamo di fronte ad una prospettiva problematica comune con il contesto europeo, caratterizzato da una profonda crisi di rappresentatività delle tradizionali forme istituzionali di organizzazione della società e dall’emersione di movimenti e forze sociali che non aspirano a condizionare l’indirizzo politico nelle forme tradizionali della rappresentanza parlamentare attraverso i partiti. Si tratterà di vedere se ed in che misura i processi di transizione arabi riusciranno ad integrare gli assetti tradizionali della rappresentanza politica, attraverso l’istituzione di forme di partecipazione che possano continuare a convogliare le domande di integrazione provenienti dal movimento. Anche a tal fine, il confronto critico con l’esperienza europea potrebbe rappresentare un’occasione di mutuo arricchimento.

Infine, non si può prescindere da alcune considerazioni sul problema del ruolo del fattore religioso sulla scena pubblica, vero e proprio convitato di pietra dell’analisi sin qui condotta. Non è evidentemente possibile, in questa sede, approfondire il ruolo delle forze islamiche nei processi di transizione e, soprattutto, l’effettiva fondatezza della diffusa interpretazione dei passati regimi autocratici come regimi laici, che avrebbero lasciato spazio all’affermazione di forze refrattarie ad ogni esito di apertura dello spazio pubblico. Quello che preme sottolineare, invece, riproponendo la logica dello “specchio” sin qui seguita, è che anche l’Europa, da qualche anno a questa parte, si trova di fronte alla necessità di ripensare in profondità gli assetti dei rapporti tra fattore religioso e sfera pubblica, tanto sotto il profilo individuale (nel duplice senso della protezione delle opzioni religiose fondamentali – si pensi al diritto di indossare il velo – e della piena garanzia della libertà di coscienza di fronte ad indebite ingerenze del pubblico potere – si pensi all’esposizione dei simboli religiosi nello spazio pubblico). Anche in questo ambito, è dunque fondamentale che il confronto con il contesto islamico abbandoni posizioni pregiudiziali per assumere i tratti di un confronto comparativo aperto, capace di rivolgersi – nell’ascolto della specificità islamica (si pensi, solo per fare un esempio, alla centralità del concetto di umma come comunità anche politica dei credenti) – alla coscienza critica delle forze più vive della società dei paesi del Maghreb (giovani, donne, clero progressista), interrogandosi sulle possibilità di un modello di laicità islamica, simile a quello sviluppatosi nell’esperienza turca. Su questi aspetti, sulla sostenibilità della differenza islamica ed in particolare sulla possibilità di opporre a tali dinamiche – nel giudizio e del confronto critico – un nucleo irrinunciabile di valori e principi connaturati all’esperienza costituzionale europea, dovranno inevitabilmente dispiegarsi nella loro pienezza le virtualità evolutive e di arricchimento connaturate ad un approccio di tipo comparativo.

Email Subscription

Privacy Preference Center