Genitori in ogni paese: la Corte di Giustizia si pronuncia sulla tutela transnazionale delle famiglie arcobaleno nell’UE

Con la decisione in commento (V.М.А. c. Stolichna obshtina, rayon «Pancharevo», in causa C-490/20) la Corte di giustizia dell’Unione europea interviene su una vicenda – quella della circolazione degli status familiari dei partner di coppie omosessuali e delle loro figlie e figli – molto presente (e urgente) nell’esperienza giuridica degli stati membri. In particolare, la Corte estende alle/ai minori con genitori dello stesso sesso le tutele già assicurate a partire dalla sentenza Coman ai partner omosessuali, coniugati in uno Stato membro, nel caso di trasferimento della residenza in altro stato membro che non riconosca né tuteli la vita familiare delle coppie same-sex e delle famiglie omogenitoriali.
Il caso è quello di una minore nata in Spagna e ivi registrata come figlia di V.M.A., cittadina bulgara, e di sua moglie K.D.K., cittadina del Regno Unito, entrambe indicate come madri nell’atto di nascita. Trasferitasi dalla Spagna in Bulgaria, V.M.A. chiedeva alle autorità bulgare il rilascio di un documento di identità, previa trascrizione integrale dell’atto di nascita e, dinanzi al rifiuto oppostole, adiva il Tribunale amministrativo di Sofia. Quest’ultimo, investito della controversia, sollevava rinvio pregiudiziale alla Corte di giustizia chiedendo se le pertinenti disposizioni di diritto primario (in particolare l’art. 4.2 del TUE e gli artt. 20 e 21 del TFUE) e della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (in particolare gli artt. 7, 24 e 45) debbano essere interpretate nel senso di imporre alle autorità bulgare di riconoscere lo status filiationis attribuito in Spagna nei confronti di entrambe le madri.
La decisione si iscrive in un quadro evolutivo delle politiche dell’Unione che è sempre più sensibile al rafforzamento delle tutele per le soggettività LGBTIQ+, anche sul piano della tutela della vita familiare. Si pensi, per un verso, alla Strategia per l’uguaglianza delle persone LGBTIQ 2020-2025, comunicata dalla Commissione il 12 novembre 2020 e che prevede – al par. 3.2 – specifiche azioni per migliorare la protezione giuridica delle famiglie arcobaleno in situazioni transfrontaliere, alla luce del principio secondo cui “chi è genitore in un paese, è genitore in tutti i paesi”. Ma si pensi, più in generale, alle numerose prese di posizione della Commissione e del Parlamento in relazione alle ricorrenti violazioni dei diritti delle persone LGBTIQ+ in stati membri come Ungheria o Polonia le quali – profondamente legate alla situazione di sofferenza e fragilità delle garanzie dello stato di diritto in quei due paesi – sono state oggetto di attenzione specifica in ormai numerose risoluzioni del Parlamento europeo (si v. in particolare le risoluzioni del 18 dicembre 2019, del 11 marzo 2021 – con la proclamazione dell’UE come zona di libertà per le persone LGBTIQ; e ancora alle risoluzioni del 8 luglio 2021 e del 14 settembre 2021).
Anzitutto in questo quadro deve essere dunque letta la decisione in esame che, in quanto riguardante una fattispecie di circolazione degli status all’interno dell’UE, evoca il conflitto – e, correlativamente, la ricerca di un equilibrio – tra identità nazionale, per come rifratta nell’interpretazione del concetto di ordine pubblico, e tutela dei diritti fondamentali garantiti dal diritto UE, in uno con il superiore interesse del minore.
La decisione della Corte si pone in continuità con il precedente Coman e con la consolidata giurisprudenza in materia: ferma restando l’esclusiva competenza dello stato membro in merito all’an e al quomodo del riconoscimento della vita familiare omosessuale, sussiste l’obbligo di assicurare alla minore il pieno godimento dei diritti che discendono dal suo status di cittadina dell’Unione – a partire dalla libera circolazione nel territorio dell’UE – attraverso il riconoscimento del suo status di figlia di entrambe le madri.
A ciò non osta, in particolare, il contrasto di tale riconoscimento con l’ordine pubblico, invocato dal giudice del rinvio anche in relazione alla “tradizione costituzionale bulgara […] sia sotto il profilo puramente giuridico sia sotto il profilo dei valori, tenuto conto dello stadio attuale di evoluzione della società in Bulgaria” (cfr. par. 28). Come si legge al par. 55 della decisione, infatti, la nozione di ordine pubblico, ove invocata – come nel caso di specie – al fine di derogare a una libertà fondamentale garantita dal diritto UE “dev’essere intesa in senso restrittivo” e, soprattutto, “la sua portata non può essere determinata unilateralmente da ciascuno stato membro senza il controllo delle istituzioni dell’Unione”. In altri termini, il riferimento all’identità nazionale – che rimane libera di esprimersi negli assetti dati alla materia dal diritto interno dello stato membro – non può spingersi fino a pregiudicare, attraverso lo specifico rilievo del concetto di ordine pubblico, l’esercizio di diritti e libertà fondamentali garantito alla minore dal suo status di cittadina dell’UE. Se è vero, cioè, che la determinazione dello status delle persone – anche con riferimento al matrimonio e alla filiazione – rientra nelle competenze degli stati membri, è altrettanto vero che “nell’esercizio di tale competenza, ciascuno Stato membro deve rispettare il diritto dell’Unione e, in particolare, le disposizioni del Trattato FUE relative alla libertà riconosciuta a ogni cittadino dell’Unione di circolare e di soggiornare nel territorio degli Stati membri, riconoscendo, a tal fine, lo status delle persone stabilito in un altro Stato membro conformemente al diritto di quest’ultimo” (par. 52).
Parimenti rilevante, nell’iter argomentativo della Corte, la ricostruzione del complesso di diritti spettanti alla minore e l’iscrizione del medesimo – per un verso – nel quadro della nozione di vita familiare desumibile dall’articolo 7 della Carta dei diritti fondamentali e, per l’altro, in relazione alla portata espansiva della cittadinanza dell’Unione.
Quanto al primo profilo, è senz’altro degna di nota l’interpretazione dell’articolo 7 della Carta alla luce della giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo. Decisiva in questa prospettiva, anzitutto, la declinazione della nozione di vita familiare elaborata dalla giurisprudenza di Strasburgo che – in un luogo di una nozione impostata dogmaticamente – la interpreta quale “questione di fatto dipendente dalla realtà pratica di stretti legami personali” e che, in tale quadro, consente di ritenere che “la possibilità per un genitore e il figlio di essere insieme rappresenta un elemento fondamentale della vita familiare”. Egualmente rilevante, come ovvio, il riconoscimento – a partire dalla sentenza Schalk et Kopf v. Austria – che l’esperienza di vita delle coppie omosessuali (e poi anche delle famiglie a cui queste coppie danno vita) rientra a pieno titolo nella nozione di vita familiare (cfr. par. 61). La scelta di rendere esplicita l’interpretazione “convenzionalmente orientata” della Carta conferma le virtualità della relazione tra ordinamenti giuridici – come inverata nell’articolazione del parametro di giudizio – ai fini dell’allargamento degli spazi di libertà e di effettivo godimento dei diritti fondamentali; e conferma altresì che tale scelta argomentativa assume particolare rilievo, in chiave di rafforzamento della stessa legittimazione della decisione, in relazione ad aspetti del caso sui quali non si registri ancora un quadro interpretativo consolidato. Si noti, al riguardo, che l’interpretazione della Carta alla luce della Convenzione investe la nozione di vita familiare ma non anche, ad esempio, la portata degli articoli 24 e 45 della Carta, in materia di interesse della minore (sui quali maggiormente consolidato appare il quadro di riferimento).
Quanto al secondo profilo, la circostanza che la minore sia cittadina dell’Unione assume un rilievo centrale nell’iter decidendi e, a ben vedere, ne fonda e condiziona gli sviluppi. Infatti, è dal possesso della cittadinanza UE che discende la necessità di assicurare alla minore il godimento della fondamentale libertà di circolare nel territorio UE, in modo pieno ed effettivo e, soprattutto, adeguato alla sua esperienza di vita familiare (che essa, cioè, possa circolare liberamente con ciascuna delle sue madri). Nel prisma della cittadinanza – “status fondamentale dei cittadini degli Stati membri” (par. 41) – si registra così la faticosa emersione, nella cornice del processo di integrazione, dell’istanza individuale come nodo di resistenza rispetto al rilievo della posizione degli stati membri e dei loro interessi. Una dinamica già presente nella giurisprudenza eurounitaria sui diritti fondamentali, certo; ma che nella cittadinanza trova un momento di unificazione e interna armonizzazione.
Pur nella netta affermazione del principio, la Corte non si spinge tuttavia sino a imporre allo stato membro specifiche forme di riconoscimento dello status attribuito nello stato membro di provenienza. Infatti, la trascrizione dell’atto di nascita, afferma la Corte al par. 50, “può” (e non già deve) rappresentare lo strumento più idoneo per assicurare alla minore il diritto di circolare con entrambe le madri; e allo stesso modo, nel definire l’estensione dell’obbligo di riconoscimento posto in capo allo stato membro, la Corte precisa che esso non si spinge fino ad imporre di riconoscere il rapporto di filiazione “a fini diversi dall’esercizio dei diritti che a tale minore derivano dal diritto dell’Unione” (par. 57).
Ciononostante, la decisione in commento segna un significativo avanzamento nella tutela della vita familiare omosessuale nell’ordinamento dell’UE. E, soprattutto, fissa ancora una volta il punto di equilibrio tra salvaguardia dell’identità nazionale e della tradizione costituzionale interna e l’istanza di piena effettività dei diritti fondamentali, a netto favore di quest’ultima: un insegnamento che, in tempi di sovranismi, si spinge a ben vedere molto al di là del rilievo del caso dedotto in giudizio.