Il Consiglio di Stato e la CEDU
Possono bastare poche parole, per di più tra parentesi, a segnare una svolta nel regime di applicazione della CEDU nell’ordinamento interno?
É in quest’ottica che deve essere letta la recente sentenza n. 1220/2010 della Quarta Sezione del Consiglio di Stato, già commentata, su Guida al Diritto, da Giuseppe Colavitti e Cesare Pagotto (ai quali devo la segnalazione).
La vicenda è di per sé interessante e meriterebbe autonomo approfondimento. In questa sede, basti ricordare che la decisione è stata resa al termine di un giudizio di ottemperanza relativo ad una complessa vicenda di espropriazioni sine titulo e che il Consiglio di Stato fa riferimento alla necessità di applicare dei “principi sulla effettività della tutela giurisdizionale, desumibili dall’articolo 24 della Costituzione e dagli articoli 6 e 13 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo” (punto 5). Questi ultimi, in particolare, sarebbero divenuti “direttamente applicabili nel sistema nazionale” a seguito dell’entrata in vigore del nuovo testo dell’art. 6 TUE, come modificato dal Trattato di Lisbona. Poche parole, per di più tra parentesi (quasi a sottolineare l’ovvietà del percorso argomentativo) sollevano questioni provviste di un dirompente rilievo teorico. Sullo sfondo, con ogni probabilità, l’eco dell’insofferenza diffusa tra i giudici comuni nei confronti del modello ricostruttivo tracciato dalla Corte costituzionale con le sentenza 348 e 349 del 2007.
Anzitutto, l’esatta portata del riferimento alla diretta applicabilità: appare infatti difficile contestare che, attraverso il ricorso a tale espressione, il Consiglio di Stato abbia voluto equiparare il regime di applicazione della Cedu a quello del diritto comunitario derivato.
Il fondamento di simile operazione resta tuttavia inespresso e assai problematico, tanto sul piano del diritto positivo, quanto sul piano più generale della ricostruzione teorica delle dinamiche di cooperazione tra istanze giurisdizionali in un sistema di protezione dei diritti fondamentali articolato su più livelli.
Per ciò che concerne gli argomenti di diritto positivo, una volta escluso che il giudice amministrativo facesse riferimento all’art. 6, comma 4 (il che non avrebbe spiegato la menzione del Trattato di Lisbona) è necessario domandarsi, in primo luogo, se sia possibile far discendere dal tenore dell’art. 6, comma 3 del TUE (“l’Unione aderisce alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali”) la diretta applicabilità della Cedu: essa potrebbe conseguire, semmai, alla vera e propria incorporazione della Cedu al diritto comunitario, in conseguenza della stipula di un trattato di adesione. Vale sottolineare, peraltro, che se la versione italiana può indurre taluni dubbi nell’interprete, la versione inglese e quella spagnola coniugano il verbo al futuro (shall accede, se adherirá) non lasciando margini interpretativi in ordine alla necessità di un trattato di adesione per l’incorporazione della Cedu al diritto comunitario. In ogni caso la possibilità di una diretta applicazione della Cedu “tramite” l’ordinamento comunitario avrebbe richiesto una motivazione ben più articolata. La più recente evoluzione della giurisprudenza della Corte di giustizia in materia di obblighi internazionali (sentenze Kadi e Intertanko), come anche la giurisprudenza della Corte di Strasburgo in materia di livelli di protezione (in particolare, la sentenza Bosphorus) ma anche, a ben vedere, le stesse “clausole orizzontali” che chiudono la Carta dei diritti fondamentali dell’UE, rendono infatti alquanto arduo postulare facili automatismi nel regime di applicazione del diritto internazionale pattizio nell’ordinamento comunitario, rinviando piuttosto alla necessaria mediazione delle supreme istanze giurisdizionali e alla ricerca, attraverso dinamiche cooperative, di equilibri dinamici tra esse, specie laddove sia indubbia la rilevanza materialmente “costituzionale” del diritto da applicare.
Si giunge così alle perplessità di più generale ordine teorico. Da questo punto di vista, se è innegabile il disagio mostrato dal giudice comune a seguito delle sentenze 348 e 349 del 2007, non può dimenticarsi che la successiva giurisprudenza della Corte costituzionale ha ribadito significative aperture al ruolo del giudice comune (già presenti, in nuce, nella sentenza n. 349/2007). É il caso, ad esempio, della recente sentenza n. 317/2009, nella quale la Corte riconosce il ruolo dell’interpretazione adeguatrice del giudice comune, come perno di un sistema plurale di protezione dei diritti fondamentali ispirato a dinamiche di tipo cooperativo. In simile contesto, riaffermare l’importanza del ruolo della Corte costituzionale non equivale a una professione di sfiducia nel cd. “attivismo giudiziale” in materia di diritti fondamentali né, tantomeno, a riproporre argomenti legati ad un presunto carattere “vago” o troppo generico delle disposizioni Cedu, con il misconoscimento dell’importanza della giurisprudenza di Strasburgo. Piuttosto, il ruolo della Corte risponde all’esigenza di mantenere assieme l’istanza di concretezza – che accompagna l’estensione dell’applicazione diffusa della Cedu – con l’esigenza di articolare il rapporto tra identità costituzionale nazionale e apertura secondo canoni certi di cooperazione, al più alto livello, garantendo al tempo stesso nuove dimensioni della certezza del diritto. Il problema non è pertanto quello di scegliere rigidamente – come fa, ancora una volta, il Consiglio di Stato – tra Corte costituzionale e giudice comune. Piuttosto, bisogna chiedersi quale attitudine, nella Corte costituzionale come nel giudice comune, favorisca la piena operatività di un sistema multilivello decisamente orientato in senso cooperativo.