Il diritto a elezioni libere tra attivismo della Corte EDU e argomenti storici: in merito alle pronunce Tanase c. Moldavia e Aliyev c. Azerbaijan

Inaugurata nel 1987 con la prima pronuncia in merito all’articolo 3 del Protocollo 1 (Mathieu-Mohin et Clerfayt c. Belgique – Ricorso n. 9267/81 del 2 marzo 1987), l’ormai copiosa giurisprudenza di Strasburgo sul tema, si è arricchita di due importanti sentenze, Tanase c. Moldavia (Ricorso n. 7/08 del 27 aprile 2010) e Aliyev c. Azerbaijan (Ricorso n. 18705/06 del 8 aprile 2010), che meritano di essere esaminate in modo congiunto.

La Corte EDU ha contribuito in modo sempre più incisivo a definire l’importanza del principio democratico che pervade l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950, e a enfatizzare la centralità del “diritto a libere elezioni” garantito all’articolo 3 del Protocollo 1, sostenendo con forza che la procedura elettorale deve essere finalizzata a determinare la volontà del popolo tramite lo strumento del suffragio universale. Ciononostante, i diritti incastonati nel suddetto articolo non sono assoluti, e gli Stati mantengono il loro (sovrano) margine di apprezzamento nella definizione degli elementi tecnici dei sistemi elettorali. Il contesto storico-politico e sociale, inoltre, contribuisce a dare significative sfumature di valore a questi elementi tecnici, facendo irrompere la Storia nella riflessione sulle tecniche della rappresentanza politica. Il tratto peculiare delle sentenze, difatti, è l’utilizzo dell’argomento storico-contestuale nel ragionamento giuridico e nel percorso ermeneutico svolto dai giudici di Strasburgo.

Nel primo caso (Tanase c. Moldavia) i ricorrenti erano due soggetti titolari della doppia cittadinanza moldava e rumena, il sig. Alexandru Tanase e il sig. Dorin Chirtoaca, che lamentavano la violazione dell’articolo 3, Protocollo 1, da parte della legislazione moldava che subordinava l’accesso all’elettorato passivo alla rinuncia della doppia cittadinanza. Pur riconoscendo la fondatezza delle “ragioni storiche” addotte dal Governo – su cui si tornerà a breve – e la preoccupazione della dedizione agli affari pubblici nazionali di candidati titolari di una doppia cittadinanza, la Corte riscontrò un’anomalia nella cronologia di approvazione della normativa, delegittimando punto per punto le argomentazioni del Governo. La normativa, difatti, era stata introdotta solo nella riforma elettorale del 2008 e non già al momento della proclamazione dell’indipendenza nel 1991. Solo nel secondo caso, una simile normativa si sarebbe potuta configurare come un legittimo strumento di protezione dell’ordinamento, nel timore di aprire le porte delle istituzioni nazionali a cittadini di plurima cittadinanza. Nel secondo caso, di contro, la legge presentava più i caratteri di una misura sproporzionata ed eccessivamente restrittiva dei diritti individuali e della “libera espressione dell’opinione del popolo sulla scelta del corpo elettorale”. Sulla base di simili argomentazioni, dunque, la Corte smontava le motivazioni del Governo moldavo e riconosceva la violazione dell’articolo 3 del Protocollo 1 della Convenzione, per eccessiva e illegittima restrizione del diritto all’elettorato passivo.

Nel secondo caso (Aliyev c. Azerbaijan) il ricorrente era un cittadino azero, residente a Baku, il sig. Namat Faiz oglu Aliyev, candidato alle elezioni per l’assemblea parlamentare per il partito dell’opposizione, lo Azadliq. Aliyev adiva la Corte di Strasburgo sostenendo che vi fossero state delle gravi irregolarità nella procedura elettorale e nello svolgimento delle elezioni nella sua circoscrizione. I documenti internazionali – che hanno informato la redazione dei codici elettorali dei Paesi in transizione – considerano le Commissioni elettorali indipendenti e il sistema di giustizia in materia elettorale come strumenti giuridici di garanzia, per ridurre il rischio delle irregolarità procedurali. Consapevole di tali proposizioni, il sig. Aliyev, riteneva che le cause delle irregolarità fossero da ritrovare nelle modalità di composizione della Commissione elettorale, posta de facto sotto il controllo del partito dominante. Concluso ciò, Aliyev esperiva tutti i gradi di giudizio interni per trovare rimedio, ma senza ottenere successo. Combinando questi due elementi, la Corte di Strasburgo capovolse la tesi, sostenendo che il diritto violato al ricorrente non era tanto il diritto a vincere e ottenere un seggio nella competizione elettorale, quanto il diritto a competere liberamente e in condizioni di correttezza ed eguaglianza delle chances. La Corte, dunque, ritenne che l’esistenza di un sistema interno di giustizia per l’esame effettivo delle istanze e dei ricorsi nelle controversie in materia elettorale, fosse un postulato della garanzia del diritto a libere elezioni. Riconoscendo questo, la Corte EDU si spinse ancora oltre nel definire la correttezza procedurale come un positive duty che sorge in capo agli Stati, in ragione del diritto a elezioni libere e regolari disciplinato dall’art. 3, Protocollo 1: “What was at stake in those proceedings was not only the alleged infringement of the applicant’s individual rights but also, on a more general level, the State’s compliance with its positive duty to hold free and fair elections”. In altre parole, quello che era in discussione di fronte ai giudici di Strasburgo, non era solo la violazione del diritto individuale a elezioni libere, ma anche, su un piano più generale, la condotta dello Stato e l’adempimento degli obblighi convenzionali. La parzialità della commissione elettorale e l’incapacità di trovare un rimedio giurisdizionale alle irregolarità procedurali commesse, dunque, configurarono – con giudizio unanime – gli estremi per la violazione dell’art. 3, Protocollo 1, costringendo lo Stato azero ad un risarcimento di danni al ricorrente.

L’analisi congiunta delle due sentenze permette di enucleare la duplice interpretazione del diritto a libere elezioni. Da una parte come diritto di partecipazione politica, che si scompone nel diritto soggettivo all’elettorato attivo e passivo, e si codifica nella legislazione sul diritto di voto. Dall’altra come paradigma della “regolarità del voto” e della procedura elettorale, che attiene al livello dell’amministrazione delle elezioni e s’immette nella complessa e, spesso, sibillina formula della “garanzia della qualità del processo elettorale”. Sul piano della sistematizzazione teorica, era difficile immaginare che dalla timida formulazione – Le Alte Parti Contraenti s’impegnano ad organizzare, ad intervalli ragionevoli, libere elezioni a scrutinio segreto, in condizioni tali da assicurare la libera espressione dell’opinione del popolo sulla scelta del corpo legislativo – voluta dai rappresentanti degli Stati durante i lavori preparatori, si sarebbe arrivati, in sede giurisprudenziale e nell’arco di un ventennio, alla definizione di un diritto soggettivo e individuale, assimilabile, in tutto e per tutto, agli altri diritti della Convenzione. Nonostante la lettera dell’articolo, che volle come soggetti “Le Parti”, ossia “Gli Stati”, e che la dottrina aveva acutamente ricondotto nell’alveo delle tecniche redazionali dei trattati internazionali (Pinelli C., Art. 3. Diritto a libere elezioni, in Bartole S., Conforti B., Raimondi G., Commentario alla Convenzione europea per la tutela dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, Cedam, Padova, 2001) – la Corte ha modificato la sintassi della Convenzione imputando la titolarità del diritto non già agli Stati, ma ai singoli individui. Al contempo, si poteva intuire come l’aver sottoposto al controllo di compatibilità convenzionale la materia del diritto elettorale avrebbe aperto il vaso di pandora verso il superamento del dogma della political question. L’ambito della legge elettorale, anche in quelle culture giuridiche predisposte geneticamente al controllo giurisdizionale come gli Stati Uniti, era stato inizialmente escluso dal controllo e dalla revisione costituzionale e considerato prerogativa esclusiva dell’organo di rappresentanza popolare, come ebbe a ricordare la Corte suprema degli Stati Uniti nella sentenza Colegrove v. Green [328 U.S. 549 (1946)]. In terra anglo-sassone, tuttavia, dove il ruolo dei giudici è sempre stato congenito all’evoluzione dei diritti fondamentali, la giurisdizione delle corti in materia elettorale venne estesa nel lontano 1867, con l’Election Petitions and Corrupt Practices at Elections Act, per assicurare che anche il processo elettorale fosse subordinato al rigoroso rispetto del principio della rule of law. L’introduzione del diritto a libere elezioni nella Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo, dunque, ha permesso ai giudici di Strasburgo di addentrarsi nel controllo della materia elettorale e nelle tecniche di espressione della rappresentanza politica, per predisporre un arsenale di rimedi giurisdizionali, modulati sul risarcimento materiale per i danni subiti e per sanzionare la violazione del diritto soggettivo a libere elezioni. Questo stesso diritto soggettivo è stato ritenuto violato da novantuno cittadini italiani, che nel 2009, hanno sollevato di fronte ai giudici di Strasburgo la scellerata legge n. 270 del 2005, e la compatibilità della tecnica delle “liste bloccate” con la libera espressione della scelta dell’elettore [Ric. 11583/08 Saccomanno e altri, del 16 dicembre 2009].

Un secondo aspetto interessante dell’interpretazione del diritto elettorale degli Stati – fornita dai giudici di Strasburgo – si trova nell’enfasi posta sul contesto storico-culturale e sociale e nell’utilizzo dell’argomento storico-contestuale nel ragionamento giuridico. Le disposizioni elettorali, contenute nelle diverse leggi e nei codici elettorali, difatti, devono essere interpretate “alla luce della Storia”. Così, nell’ambito delle argomentazioni addotte dal governo moldavo, si trova l’ampia regressione storica descritta nella sentenza Tanase che offre un dettagliato affresco dell’evoluzione del piccolo principato moldavo nel cuore dell’Europa orientale. Fondato nel 1359 come Principato autonomo della Moldavia, questo piccolo stato si estendeva nell’area oggi coperta dalla Moldavia, una parte dell’Ucraina e una parte della Romania ed era composto da una popolazione omogenea appartenente alla medesima stirpe. Dopo aver accettato la sovranità Ottomana nel XV° secolo, ed essere stato smembrata agli inizi dell’ottocento tra l’Impero russo e la provincia della Bessarabia, il Principato moldavo si unì alla provincia della Valacchia per acquisire la denominazione di Romania nel 1861. Dopo la prima guerra mondiale, la Bessarabia proclamò la sua indipendenza rispetto alla Russia e la sua annessione allo Stato rumeno. L’Unione Sovietica decise di non riconoscere tale unione e annesse la Bessarabia proclamandola Repubblica socialista sovietica di Moldavia. Si comprende, dunque, come questo territorio sia sempre stato al confine con l’Impero ottomano, fino a diventare il limes tra l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche e le Repubbliche popolari dell’Europa orientale. Per tale ragione, la popolazione residente sul territorio cambiò di frequente il legame giuridico di appartenenza con le varie entità statali, passando dalla cittadinanza rumena a quella sovietica. Allo stesso tempo, l’acquisizione o il mantenimento della cittadinanza rumena, dopo il crollo del regime sovietico e il mutare del quadro geopolitico e internazionale, avrebbe significato ottenere anche un passaporto per l’Unione europea. Letta in questo quadro, la normativa moldava che introduce l’obbligo di rinunciare alla doppia cittadinanza per accedere all’elettorato passivo, si configura come una disposizione giuridica di protezione dell’ordinamento che privilegia la logica ottocentesca della supremazia e della sovranità dell’interesse statale, rispetto alla protezione dei diritti fondamentali. Una logica politica che i giudici di Strasburgo risolvono, come si è visto, limitando il margine di apprezzamento dello Stato, riconoscendo l’avvenuta violazione del diritto a elezioni libere e obbligando lo Stato a risarcire la parte lesa. Ciò detto, la sentenza Tanase pone in modo dirompente la problematica dei confini della comunità politica, di fronte all’abbattimento dei muri e delle frontiere, e pone nuovamente la domanda – che ha riecheggiato per più di un secolo nei dibattiti di giuristi e intellettuali – sul “chi vota?” e “chi può essere eletto?” e dunque “merita/è degno” di entrare a far parte dell’organo rappresentativo e legislativo.

Da strumenti tecnici che influenzano il gioco politico e modificano la forma di governo, gli elementi tecnici e di contorno dei sistemi elettorali entrano a pieno titolo nel panorama della protezione dei diritti fondamentali – nello spazio giuridico europeo – assumendo una rilevanza costituzionale e convenzionale che legittima l’intervento del giudice e la predisposizione di un rimedio giurisdizionale. Tale assunto, tuttavia, non può far dimenticare la complessità del vissuto storico e i movimenti di assestamento che subiscono ancora oggi gli Stati europei, tra la ragion di Stato e le ragioni dei diritti fondamentali, che la Corte riesce sapientemente a bilanciare nel ragionamento giuridico e nelle argomentazioni svolte.