La saga Scoppola v. Italia e il margine di apprezzamento degli Stati in materia elettorale. A margine della sentenza della Grande Camera del 22 maggio 2012 sul diritto di voto dei detenuti

Il 15 aprile del 2011 il Governo italiano aveva presentato ricorso avverso la pronuncia della Camera della Seconda sezione della Corte europea di Strasburgo che aveva riconosciuto all’unanimità che la limitazione del diritto di voto ai detenuti prevista dall’ordinamento italiano costituiva una violazione dell’art. 3 Protocollo 1 della Convenzione (In un precedente post siamo intervenuti a commentare la prima sentenza). In virtù dell’art. 36 della Convenzione e dell’art. 44 del Regolamento della Corte, di fronte ai giudici di Strasburgo è intervenuto anche il Governo britannico, depositando delle memorie scritte.

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Al confine di “universale”. La limitazione del diritto di voto ai detenuti, nella pronuncia della Corte EDU Scoppola v. Italia

Nel costituzionalismo contemporaneo, il diritto di voto si è spogliato della sua veste di privilegio ereditario, censitario o capacitario, per essere elevato a rango di diritto, prima ristretto e precluso a gruppi d’individui maggioritari o minoritari sulla base dell’appartenenza di genere, di razza, di lingua, o religione, e poi riconosciuto come un diritto fondamentale dell’uomo. Ciò nonostante, la qualificazione di universale – che, sul piano giuridico implica la maggior coincidenza possibile tra la capacità di agire e la capacità elettorale – trova continui e ripetuti ostacoli nelle clausole di limitazione che, nelle democrazie aperte e pluraliste, dovrebbero ammettere solo requisiti minimi e universalmente accettati.

Ogni qual volta una Corte nazionale o sovranazionale si trova ad affrontare il quesito sui limiti del confine di “universale”, sembra ormai ricorrere alle medesime argomentazioni: il diritto di voto è uno strumento fondamentale di partecipazione politica fondato sul presupposto della dignità umana.

E’ questo il caso della pronuncia Scoppola v. Italia (Ric. N. 126/05) del 20 giugno 2011 che merita di essere posta in correlazione con due sentenze delle Corti costituzionali del Canada [Sauvé c. Canada (Directeur général des élections) [2002] 3 R.C.S. 519, 2002, CSC 68] e del Sudafrica [August v. The Electoral Commission, Case CCT 8/99].

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Il diritto a elezioni libere tra attivismo della Corte EDU e argomenti storici: in merito alle pronunce Tanase c. Moldavia e Aliyev c. Azerbaijan

Inaugurata nel 1987 con la prima pronuncia in merito all’articolo 3 del Protocollo 1 (Mathieu-Mohin et Clerfayt c. Belgique - Ricorso n. 9267/81 del 2 marzo 1987), l’ormai copiosa giurisprudenza di Strasburgo sul tema, si è arricchita di due importanti sentenze, Tanase c. Moldavia (Ricorso n. 7/08 del 27 aprile 2010) e Aliyev c. Azerbaijan (Ricorso n. 18705/06 del 8 aprile 2010), che meritano di essere esaminate in modo congiunto.

La Corte EDU ha contribuito in modo sempre più incisivo a definire l’importanza del principio democratico che pervade l’interpretazione e l’applicazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950, e a enfatizzare la centralità del “diritto a libere elezioni” garantito all’articolo 3 del Protocollo 1, sostenendo con forza che la procedura elettorale deve essere finalizzata a determinare la volontà del popolo tramite lo strumento del suffragio universale. Ciononostante, i diritti incastonati nel suddetto articolo non sono assoluti, e gli Stati mantengono il loro (sovrano) margine di apprezzamento nella definizione degli elementi tecnici dei sistemi elettorali. Il contesto storico-politico e sociale, inoltre, contribuisce a dare significative sfumature di valore a questi elementi tecnici, facendo irrompere la Storia nella riflessione sulle tecniche della rappresentanza politica. Il tratto peculiare delle sentenze, difatti, è l’utilizzo dell’argomento storico-contestuale nel ragionamento giuridico e nel percorso ermeneutico svolto dai giudici di Strasburgo.

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“Gli irriducibili diritti”, ovvero dello straniero come persona. In merito alla pronuncia n. 269 del 2010 della Corte costituzionale italiana e alla definizione di una cittadinanza materiale

Nella pronuncia n. 269 del 7 luglio 2010 la Corte costituzionale italiana ha dichiarato inammissibile il ricorso promosso dal Presidente del Consiglio contro la legge della Regione Toscana n. 29 del 8 giugno 2009 (Norme per l’accoglienza, l’integrazione partecipe e la tutela dei cittadini stranieri nella Regione Toscana) sanzionando tutto quell’orientamento politico rivolto ad associare il godimento dei diritti sociali da parte degli stranieri al possesso dei regolari documenti di soggiorno. La Corte ha ribadito con fermezza un principio, che appare consolidato nell’ordinamento italiano, ossia il fatto che lo straniero, anche quando non è titolare del permesso di soggiorno, è titolare di tutti i diritti che la Costituzione attribuisce alla persona umana. Così facendo, la Corte ha collegato l’interpretazione dei diritti sociali in modo indissolubile alla dignità umana, confermando l’esistenza di un “nucleo irriducibile” del diritto alla salute.

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Al confine tra il diritto e la storia. Rileggendo “Antropologia giuridica. Contributo ad una macrostoria del diritto” di Rodolfo Sacco.

Le problematiche attuali del diritto sollevate dalla sempre crescente rilevanza costituzionale del multiculturalismo, dalla globalizzazione, dal trapianto delle regole nel rispetto della specificità e dalle spinte all’unificazione internazionale del diritto sono quantomai sfuggevoli e spesso tramandate in modo acritico e pedissequo. Gli strumenti ermeneutici sono molteplici e allo stesso tempo solo pochi ambiti disciplinari, come l’antropologia giuridica, riescono a cogliere con immediatezza ed acume le infinite sfaccettature del problema.

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Corti e diritti culturali. Lezione n. 2 dal Sudafrica

La redazione degli articoli riferiti ai c.d. “diritti culturali” nella Costituzione sudafricana del 1996 ha subito una forte influenza da parte del diritto internazionale. Propriamente parlando, si fa riferimento agli articoli 15 (libertà di religione), 29 (diritto all’istruzione), 30 (lingua e cultura), 31 (diritti della comunità culturali, linguistiche e religiose).
In particolare, l’articolo 31 della Costituzione “Persons belonging to a cultural, religious or linguistic community may not be denied the right, with other members of that community to enjoy their culture, practise their language; and to form, join and maintain cultural, religious and linguistic associations and other organs of civil society” riprende l’articolo 27 del Patto sui diritti civili e politici: “In those States in which ethnic, religious or linguistic minorities exist, persons belong to such minorities shall not be denied the right, in community with the other members of their group, to enjoy their own culture, to profess and practice their own religion, or to use their own language” ... se non fosse per alcune piccole differenze ...
La sostituzione del lemma “etnico” dell’articolo 27 del Patto con il lemma “culturale” contribuisce a promuovere uno spirito del tutto diverso.

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Separato non è eguale: la Corte EDU e il diritto all’istruzione della minoranza rom

Separato non è eguale: conclude così la Grande Camera sanzionando la Croazia per violazione degli articoli 6.1 (ragionevole durata del processo); 14 (non-discriminazione) in combinato con l’articolo 2 del Protocollo 1 (diritto all’istruzione) e rovesciando, in parte, il giudizio della Camera che aveva escluso la violazione del diritto all’istruzione e giustificato il trattamento differenziale per gli studenti di etnia rom per ragioni di capacità linguistica.
Il 16 marzo 2010 la Corte EDU si è pronunciata su un ricorso da parte di un gruppo di giovani studenti di nazionalità croata e etnia rom residenti a Orehovica, Podturen e Trnovec [Requête n. 15766/03, Affaire Orsus et autres c. Croatie].

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Corti e diritti sociali: a lezione dal Sudafrica?

L’8 ottobre del 2009 la Corte costituzionale del Sudafrica è stata adita con ricorso in appello contro una pronuncia della Supreme Court of Appeal, e si è trovata per la prima volta a dover interpretare il diritto costituzionale all’acqua [Mazibuko and Others v City of Johannesburg and Others, Case n. CCT 39/09]. Il punto del ricorso verteva sulla legittimità della condotta del governo locale, la City of Johannesburg, e della società municipale di fornitura dell’acqua, che avevano installato nelle aree povere di Phiri dei contatori pre-pagati, al fine di tassare i consumatori per la quantità di acqua che eccedeva la dotazione mensile di sei chilolitri. Quantificare la disposizione costituzionale che stabilisce il diritto di accesso ad una “quantità sufficiente di acqua”, come ha ricordato la Corte, non è un compito facile. Tanto più in un paese in cui si stima che otto milioni di abitanti non vi abbiano adeguato accesso.

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