Il parere 2/13 della Corte di giustizia sull’adesione dell’Unione europea alla CEDU: questo matrimonio non s’ha da fare? (1)

Il parere 2/13 della Corte di giustizia è stato pubblicato il 18 dicembre 2014 suscitando da subito accese reazioni in dottrina[2]. Pur non potendo conoscere la presa di posizione dell’avvocato generale Kokott, la quale, pur essendo stata adottata il 13 giugno 2014, non è stata resa pubblica fino alla data del parere, da più parti si immaginava che la Corte avrebbe adottato un approccio simile a questa, ovvero che avrebbe pronunciato un sostanziale consenso all’adesione, evidenziando al tempo stesso i punti critici del progetto di accordo.

La Corte di giustizia, invece, ha sorpreso l’opinione pubblica e gli interpreti con un parere del tutto negativo che sembra chiudere le porte all’adesione in maniera davvero imprevedibile. Dopo decenni di confronto sembrava, infatti, che l’introduzione della base giuridica per l’adesione nell’ordinamento dell’Unione, con la modifica in tal senso operata dal trattato di Lisbona dell’art. 6, par. 2 TUE (insieme con la modifica dell’art. 59 CEDU, ad opera del suo Protocollo 14, per consentire l’adesione ad essa di un soggetto diverso dagli Stati), avesse ormai definitivamente aperto la strada all’adesione. Proprio il precedente parere 2/94, reso nel marzo 1996, infatti, aveva censurato la mancanza delle idonee basi giuridiche per procedere all’adesione, evidenziando l’esigenza che un tale mutamento istituzionale (e costituzionale) trovasse il proprio fondamento in una decisione politica (il parere, allora, era stato reso in prossimità dei negoziati del trattato di Amsterdam, ove però non si colse  l’occasione per esprimere tale scelta).

Il fatto che tale lacuna sia stata colmata dal trattato di Lisbona e dal Protocollo 14 e che siano stati condotti tre anni di negoziati (una prima fase tra 2010-2011 e una seconda tra 2012-2013) per trovare una posizione comune tra Unione europea e Stati membri del Consiglio d’Europa, confluita nel progetto di accordo approvato il 5 aprile 2013, non è stato tuttavia sufficiente a consentire al progetto di accordo di adesione di superare il vaglio della Corte di giustizia.

Occorre, dunque, esaminare attentamente il parere 2/13 per scoprire quali siano gli aspetti censurati dal giudice di Lussemburgo, anche al fine di verificare se vi siano margini per superare tali censure con una nuova fase di negoziati.

Il parere è strutturato in otto sezioni. La prima riporta la domanda della Commissione, ovvero il quesito circa la compatibilità con i trattati del progetto di accordo, insieme ai cinque allegati, elaborati anch’essi dai negoziatori, costituiti da (1) il progetto riveduto di accordo sull’adesione dell’Unione europea alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, (2) il progetto di dichiarazione dell’Unione europea da emettere al momento della firma dell’accordo di adesione, (3) il progetto di regola da aggiungere alle regole del Comitato dei Ministri per il controllo dell’esecuzione delle sentenze e delle composizioni amichevoli nelle cause in cui è parte l’Unione europea, (4) il progetto di memorandum di accordo tra l’Unione europea e X [Stato non membro dell’Unione europea], (5) il progetto di relazione illustrativa dell’accordo sull’adesione dell’Unione europea alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, tutti facenti parte del “pacchetto adesione”. La seconda sezione ricostruisce in maniera completa e didattica il quadro istituzionale del Consiglio d’Europa e i contenuti della CEDU; la terza descrive i rapporti tra Unione e la CEDU, secondo quanto sancito dalla storica giurisprudenza della Corte e secondo quanto disciplinato dai trattati; la quarta ripercorre il processo di adesione e la quinta riassume i contenuti del progetto di accordo. La sesta sezione riassume il ricorso della Commissione, mentre la settima presenta una sintesi delle principali osservazioni presentate dinanzi alla Corte di giustizia dai ventiquattro Stati intervenuti nella procedura, nonché da Parlamento europeo e Consiglio, le quali, sebbene con alcuni profili di difformità quanto ai contenuti, concludono tutte per la compatibilità del progetto di accordo con i trattati. L’ottava sezione (punti 144-258) è quella in concreto rilevante, in cui la Corte esprime la propria posizione con riferimento alla ricevibilità della richiesta di parere e ai diversi profili di incompatibilità del progetto di accordo con i Trattati.

1.1  Sulla ricevibilità della domanda di parere della Commissione

La Corte di giustizia sgombra, innanzitutto, il campo da ogni dubbio quanto alla ricevibilità del parere: alcuni Stati membri, infatti, pur senza chiedere il rigetto per irricevibilità della domanda della Commissione, avevano espresso dubbi con riferimento a quest’ultima, poiché contenente valutazioni relative alle norme interne che avrebbero dovuto essere adottate per l’attuazione dell’adesione.

La Corte, ricordando la propria precedente giurisprudenza, tra cui spicca il richiamo al parere 2/94, ricorda che per consentire alla Corte di pronunciarsi sulla compatibilità delle disposizioni di un “accordo previsto” con le norme dei trattati, è necessario che essa disponga degli elementi sufficienti in merito al contenuto di tale accordo (punto 147). Nel caso di specie, la Commissione aveva trasmesso tutti i progetti degli strumenti di adesione su cui i negoziatori avevano trovato un accordo: la Corte ritiene, quindi, di disporre degli elementi sufficienti per poter formulare il proprio parere. Per quanto riguarda la valutazione delle norme interne che si sarebbero rese necessarie per gli adattamenti opportuni in caso di adesione, la Corte si limita a sancire che tale questione non può essere oggetto della procedura di cui è investita nel caso di specie, la quale deve vertere unicamente sulle disposizioni degli accordi internazionali sottoposti al suo scrutinio. Per inciso, la Corte, condividendo quanto espresso dall’avvocato generale, osserva che tali norme, non essendo ancora state adottate, hanno un contenuto puramente ipotetico (149).

La conclusione della Corte è del tutto condivisibile e coerente con la propria giurisprudenza: del resto, in occasione del parere 2/94, la Corte aveva addirittura ritenuto ricevibile la domanda in assenza dell’avvio dei negoziati e di un accordo dal contenuto preciso.

1.2   Le censure della Corte di giustizia

La Corte di giustizia ritiene incompatibile con i Trattati il progetto di accordo di adesione del 5 aprile 2013, nella versione rivista del 10 giugno 2013, per sette differenti profili: l’entità della censura si può e si deve valutare tenendo in considerazione il fatto che  detto progetto di accordo si compone unicamente di dodici articoli.

La Corte, prima di procedere all’esame del progetto di accordo, descrive accuratamente il “quadro costituzionale” del parere (punti 155-176), profondamente diverso da quello del contesto del parere 2/94 per effetto delle modifiche apportate dal Trattato di Lisbona, delineando, dunque, i parametri di legittimità da tenere presenti nel proprio giudizio.

Tale quadro si compone (i) dell’art. 6 TUE, che prevede la base giuridica per l’adesione, (ii) del protocollo n. 8 allegato ai trattati, che (ex art. 51 TUE) ha lo stesso valore giuridico dei trattati (e che «dispone segnatamente che l’accordo di adesione deve garantire che siano preservate le caratteristiche specifiche dell’Unione e del diritto dell’Unione e assicurare che l’adesione non incida né sulle competenze dell’Unione, né sulle attribuzioni delle sue istituzioni, né sulla situazione particolare degli Stati membri nei confronti della CEDU, e neppure sull’articolo 344 TFUE»), nonché (iii) della dichiarazione relativa all’art. 6, par. 2, TUE (ove si ribadisce che l’adesione deve essere realizzata con modalità atte a preservare le specificità dell’ordinamento giuridico dell’Unione).

La Corte sottolinea così che l’adesione è subordinata alle condizioni previste dai Trattati dirette a «garantire che quest’ultima non incida sulle caratteristiche specifiche dell’Unione e del diritto dell’Unione» (164), tra cui spicca il principio di attribuzione e il quadro istituzionale (165), la natura stessa del diritto dell’Unione, con particolare riferimento al primato (166). Essa evidenzia, quindi, anche l’esistenza di valori comuni su cui l’Unione si fonda, la fiducia reciproca tra gli Stati membri (168), l’autonomia del diritto dell’Unione rispetto al diritto degli Stati membri e dell’ordinamento internazionale (170) . La Corte pone poi l’accento sul sistema istituzionale e giurisdizionale dell’Unione (174), rilevando che «la [sua] chiave di volta» è rappresentata dal rinvio pregiudiziale (176).

i) La mancanza di coordinamento tra l’art. 53 CEDU e l’art. 53 della Carta di Nizza

Le prime tre censure riguardano la compatibilità del Progetto di accordo con le caratteristiche specifiche e l’autonomia del diritto dell’Unione.

La Corte, in primis, sottolinea che, ai sensi della propria giurisprudenza (parere 1/91), non è in linea di principio incompatibile con il diritto dell’Unione la conclusione di un accordo internazionale che preveda la sottoposizione delle istituzioni dell’Unione al controllo di un organo giurisdizionale esterno, purché esso preservi la natura delle competenze dell’Unione e non venga pregiudicata l’autonomia del suo ordinamento giuridico (181-183). In particolare, l’intervento degli organi investiti dalla CEDU di competenze decisionali, non deve finire per imporre alle istituzioni dell’Unione, nell’esercizio delle loro competenze interne, un’interpretazione determinata delle norme di diritto dell’UE.

Secondo il ragionamento della Corte, è pacifico che – per effetto dell’adesione – l’interpretazione della CEDU fornita dalla Corte di Strasburgo vincolerebbe l’Unione e le sue istituzioni, mentre l’interpretazione dei diritti contenuti nella CEDU fornita dalla Corte di giustizia non potrebbe vincolare la Corte EDU, perché sarebbe inerente al controllo esterno dalla stessa operato (185). Tuttavia – e questo è il passaggio “sorprendente” – un meccanismo siffatto non potrebbe valere per quanto riguarda l’interpretazione fornita dalla Corte di giustizia con riferimento al diritto dell’Unione e in particolare alla Carta di Nizza. Secondo la Corte, infatti, «le valutazioni della Corte [di Lussemburgo] relative all’ambito di applicazione sostanziale del diritto dell’Unione, al fine in particolare di stabilire se uno Stato membro sia tenuto a rispettare i diritti fondamentali dell’Unione, non dovrebbero poter essere messe in discussione dalla Corte EDU» (186). In particolare, la Corte sottolinea come «l’articolo 53 della Carta stabilisca che nessuna disposizione di quest’ultima deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell’Unione, dal diritto internazionale e dalle convenzioni internazionali delle quali l’Unione o tutti gli Stati membri sono parti, in particolare dalla CEDU, nonché dalle costituzioni degli Stati membri» (187). Secondo l’interpretazione della Corte operata nella sentenza Melloni, tale norma deve essere interpretata nel senso che l’applicazione di standard nazionali di tutela dei diritti fondamentali più elevati non deve compromettere il livello di tutela previsto dalla Carta, né il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione. Dunque, secondo la Corte, occorrerebbe coordinare l’art. 53 della Carta con l’art. 53 della CEDU, norma che prevede la possibilità per gli Stati di prevedere standard di tutela più elevati rispetto alla CEDU, «affinché la facoltà concessa dall’articolo 53 della CEDU agli Stati membri resti limitata, per quanto riguarda i diritti riconosciuti dalla Carta corrispondenti a diritti garantiti dalla citata convenzione, a quanto è necessario per evitare di compromettere il livello di tutela previsto dalla Carta medesima, nonché il primato, l’unità e l’effettività del diritto dell’Unione» (189).

Tale passaggio suscita, come accennato, non poche perplessità. L’art. 53 CEDU prevede semplicemente che la CEDU costituisca lo standard minimo di tutela in Europa, consentendo agli Stati parte di stabilire un livello di tutela più alto, peraltro con una formulazione pressochè identica rispetto a quanto contenuto nell’art. 53 della Carta. Non si vede in che modo un accordo di adesione potrebbe coordinare tale norma con l’art. 53 della Carta, dal momento che un’eventuale contrasto con detto articolo, dovuto all’applicazione di uno standard più elevato di tutela adottato da uno Stato membro in un ambito di rilevanza “comunitaria”, sembra essere una questione del tutto interna all’Unione europea, la cui risoluzione non può certo essere demandata né all’accordo di adesione, né alla Corte EDU. La pretesa che sia affidata all’accordo di adesione la tutela del primato del diritto dell’Unione e del rapporto tra i livelli di tutela nazionali e dell’Unione appare francamente priva di fondamento, tanto più che un’eventuale norma in tal senso nell’accordo rischierebbe di addentrarsi nel riparto di competenze UE/Stati membri e ledere il principio di autonomia dell’Unione europea. Come osservato da Lock peraltro, non è chiaro cosa si debba intendere come coordinamento: sembrerebbe che la Corte pretenda l’inserimento di una clausola che imponga agli Stati membri di non adottare il proprio standard più elevato in applicazione dell’art. 53 CEDU quando si tratta di un settore armonizzato dal diritto dell’Unione, indicando la Carta di Nizza quale “standard massimo” di tutela (sul punto, v. L.S. Rossi),

 

ii)  L’equiparazione dell’Unione ad uno Stato e il rapporto tra Stati membri ai fini del controllo reciproco

La seconda censura con riferimento alle caratteristiche specifiche e all’autonomia del diritto dell’Unione viene introdotta dalla Corte mediante il riferimento al principio della fiducia reciproca tra gli Stati membri, segnatamente per quanto riguarda lo spazio di libertà, sicurezza e giustizia. In virtù di tale principio, gli Stati sono tenuti a presumere il rispetto dei diritti fondamentali da parte degli altri Stati membri, sicchè da un lato non possono esigere l’applicazione di uno standard più elevato, dall’altro devono  astenersi dal verificare se un altro Stato rispetta i diritti fondamentali: a tal proposito, la Corte richiama rispettivamente le sentenze Melloni e N.S..

A questo proposito, la Corte censura  «l’approccio adottato nell’ambito dell’accordo previsto, consistente nell’equiparare l’Unione ad uno Stato e nel riservare ad essa un ruolo del tutto identico a quello di qualsiasi altra Parte contraente». Tale approccio, infatti, secondo la Corte, «contravviene [..] alla natura intrinseca dell’Unione e, in particolare, omette di considerare il fatto che gli Stati membri, in virtù della loro appartenenza all’Unione, hanno accettato che i loro reciproci rapporti, relativamente alle materie costituenti l’oggetto del trasferimento di competenze dagli Stati membri all’Unione stessa, fossero disciplinati dal diritto di quest’ultima, con esclusione, se così prescritto da tale diritto, di qualsiasi altro diritto» (193). Secondo la Corte, infatti, una tale equiparazione e la possibilità di un ricorso interstatale ai sensi della CEDU anche in ipotesi di rilevanza comunitaria, eliminerebbe la fiducia reciproca tra gli Stati membri e sarebbe, dunque, incompatibile con il sistema dell’Unione.

Anche tale critica non è scevra di dubbi. Innanzitutto, dato che gli Stati dell’Unione sono già tutti parte del sistema CEDU, una tale situazione è già suscettibile di verificarsi. Già ora, infatti, uno Stato membro potrebbe esperire un ricorso interstatale nei confronti di uno Stato membro, anche in un ambito di rilevanza comunitaria. Inoltre, eliminare tale possibilità minerebbe alle basi il sistema CEDU, il quale si fonda sul ricorso individuale ex art. 34 CEDU e su quello interstatale ex art. 33 CEDU. Peraltro, la Corte in tal modo censura anche un importante assunto dei negoziati, ovvero la partecipazione dell’Unione “on an equal footing” rispetto alle altre Parti contraenti. Del resto, come sottolineato da Labayle, tale assunto sembra proprio costituire il motivo profondo del rifiuto dell’adesione.

 

iii)                 Il mancato coordinamento tra Protocollo 16 e rinvio pregiudiziale

La terza censura con riferimento alle caratteristiche specifiche e all’autonomia del diritto dell’Unione riguarda la possibilità che l’applicazione del Protocollo 16 possa creare una sorta di forum shopping tra tale procedura e il rinvio pregiudiziale, con il rischio di elusione di tale ultima procedura, “chiave di volta”, come accennato, del sistema giurisdizionale e istituzionale dell’Unione. Infatti, nel momento in cui la CEDU, per effetto dell’adesione, diventasse parte integrante del diritto dell’UE ex art. 216, par. 2 TFUE, un quesito alla Corte EDU con riferimento all’interpretazione dei diritti e delle libertà garantiti dalla CEDU potrebbe, in linea di principio, sostituire il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE (196-197).

Se tale preoccupazione non appare del tutto infondata, è pur vero che detti strumenti hanno ambiti di applicazione e meccanismi di funzionamento molto diversi. In primis, il parere ex Protocollo 16 può essere richiesto solo dalle più alte giurisdizioni, mentre il rinvio pregiudiziale è accessibile a tutti gli organi giurisdizionali nazionali. Inoltre, il rinvio alla Corte EDU riguarda l’interpretazione di previsioni con finalità di carattere generale, mentre il rinvio pregiudiziale è diretto alla soluzione di un caso concreto. Da ultimo, occorre osservare che impedire agli Stati di utilizzare la procedura di cui al Protocollo 16 per assicurare l’intangibilità del rinvio pregiudiziale, significherebbe svuotare di ogni significato tale strumento.

Non si comprende come il Progetto di accordo possa coordinare le due procedure, tanto più che il Protocollo 16 non solo non è stato ratificato da tutti gli Stati membri, ma conta unicamente un esiguo numero di firme e nessuna ratifica. Peraltro, non essendo prevista l’adesione a questo strumento nel Progetto di accordo, tale questione esula dalla richiesta di parere. Infine, come sottolineato dall’avvocato generale, il Protocollo 16 non può in alcun modo scalfire il vincolo ad effettuare il rinvio pregiudiziale per i giudici di ultima istanza ex art. 267 TFUE: ove la Commissione ritenesse che tale norma è stata violata per effetto del Protocollo 16, potrebbe sempre attivare una procedura di infrazione.

iv)                 L’art. 344 TFUE

Secondo la Corte di giustizia, il Progetto di accordo deve essere censurato anche in ragione del contrasto con l’art. 344 TFUE, norma che prevede l’obbligo per gli Stati di non sottoporre una controversia relativa all’interpretazione o all’applicazione dei trattati ad un modo di composizione diverso da quello previsto da questi ultimi. Secondo la Corte, la procedura di ricorso interstatale di cui al citato art. 33 CEDU è suscettibile di trovare applicazione a qualsiasi Parte contraente, e dunque anche alle controversie tra gli Stati membri o (dopo le menzionate modifiche di cui all’art. 59 CEDU) tra questi e l’Unione allorché viene in discussione il diritto dell’Unione. Dunque, per tale via, resterebbero sottratte alla Corte di giustizia le controversie che le sono invece obbligatoriamente ed esclusivamente attribuite ex art. 344 TFUE.

Invero, l’art. 5 del progetto di accordo prende in considerazione il problema. Tale norma contiene una disposizione interpretativa con riferimento ai procedimenti di fronte alla Corte di giustizia, statuendo che questi ultimi non devono essere considerati come un processo di investigazione internazionale o di conciliazione, ai sensi dell’art. 35, par. 2, CEDU, né come un mezzo di risoluzione delle controversie di cui all’art. 55 CEDU.

L’art. 35, par. 2, lett. b), CEDU specifica che sono inammissibili i ricorsi identici a quelli già sottoposti a un’altra istanza internazionale d’inchiesta o di risoluzione: la previsione di cui all’art. 5 mira, quindi, a chiarire che i procedimenti avviati dinanzi alla Corte di giustizia, al Tribunale o ai tribunali specializzati dell’Unione, non devono essere considerati svolti dinnanzi a istanze internazionali, perché, a seguito dell’adesione, tali istanze giurisdizionali saranno considerate interne ad una parte della Convenzione, ovvero l’Unione europea. Il Rapporto esplicativo specifica che la giurisprudenza della Corte di Strasburgo in una recente pronuncia ha già chiarito che anche i procedimenti di infrazione di cui all’art. 258 TFUE, nella fase precontenziosa presso la Commissione, non devono essere considerati quali procedure di inchiesta internazionale o di conciliazione.

Più rilevante la precisazione concernente l’art. 55 CEDU, il quale prevede che «Le Alte Parti contraenti rinunciano reciprocamente, salvo compromesso speciale, ad avvalersi dei trattati, delle convenzioni o delle dichiarazioni tra di esse in vigore allo scopo di sottoporre, mediante ricorso, una controversia nata dall’interpretazione o dall’applicazione della presente Convenzione a una procedura di risoluzione diversa da quelle previste da detta Convenzione». Secondo la precisazione contenuta nell’art. 5 del progetto d’accordo, i procedimenti presso la Corte di giustizia non devono essere considerati quali mezzi di risoluzione alternativa delle controversie ai sensi dell’art. 55 CEDU: dunque, gli Stati membri possono continuare ad applicare l’art. 344 TFUE, ovvero a sottoporre questioni di rilevanza comunitaria anche concernenti la tutela dei diritti fondamentali alla Corte di giustizia, senza esporsi alla censura della Corte di Strasburgo.

Tuttavia, secondo la Corte di giustizia, neppure tale accorgimento è sufficiente: «soltanto un’espressa esclusione della competenza della Corte EDU risultante dall’articolo 33 della CEDU per eventuali controversie tra gli Stati membri, ovvero tra questi e l’Unione, relative all’applicazione della CEDU nell’ambito di applicazione sostanziale del diritto dell’Unione, sarebbe compatibile con l’articolo 344 TFUE» (213). Per rimuovere tale ostacolo, tuttavia, sarebbe sufficiente inserire una clausola di chiarimento nel Progetto di accordo, come suggerito dall’avvocato generale, o semplicemente fare ricorso alla procedura di infrazione nel caso in cui gli Stati attivassero l’art. 33 CEDU.

v)                   Il meccanismo del convenuto aggiunto

La quinta censura riguarda il meccanismo del convenuto aggiunto. Secondo quanto previsto dall’art. 3, par. 2, del progetto di accordo, quando un ricorso è proposto contro uno o più Stati membri, l’Unione europea può partecipare al procedimento in qualità di convenuto aggiunto se appare che la violazione contestata metta in discussione la compatibilità con la CEDU di una norma del diritto dell’Unione europea, comprese le decisioni adottate ai sensi del TUE e del TFUE, soprattutto quando detta violazione avrebbe potuto essere evitata dai sistemi nazionali unicamente mediante l’inosservanza della norma dell’Unione. Specularmente, il successivo par. 3 dell’art. 3 prevede che, quando un ricorso è proposto nei confronti dell’Unione europea, gli Stati membri possono intervenire in qualità di convenuto aggiunto, se appare che la violazione contestata metta in discussione una norma del TUE, del TFUE o di ogni altra disposizione con il medesimo valore giuridico, soprattutto quando detta violazione avrebbe potuto essere evitata unicamente mediante l’inosservanza di tali disposizioni.

L’intervento del convenuto aggiunto può avvenire su invito della Corte di Strasburgo o su richiesta della stessa Parte contraente già convenuta o che intende partecipare secondo questo meccanismo. Secondo la Corte, quando la Corte EDU verifica se vi sono le condizioni per consentire l’ingresso del convenuto aggiunto, potrebbe essere indotta a valutare le norme del diritto dell’Unione che disciplinano la ripartizione delle competenze tra quest’ultima e i suoi Stati membri, nonché i criteri di imputazione degli atti o delle omissioni ai medesimi, al fine di adottare una decisione definitiva al riguardo che si imporrebbe nei confronti sia degli Stati membri sia dell’Unione. Un tale controllo per la Corte di giustizia è inammissibile, perché rischierebbe di interferire con la ripartizione delle competenze tra Unione e Stati membri (225). Come è stato correttamente notato da Lock, tale censura appare eccessiva, trattandosi, in questo caso, di un mero giudizio sulla plausibilità di detto intervento, prima facie, senza che la Corte di Strasburgo possa addentrarsi nel riparto delle competenze mediante un giudizio vincolante.

Secondo la Corte, il meccanismo è censurabile anche per altre due ragioni.

In primis, l’art. 3, par. 7, stabilisce che, in linea di principio, convenuto principale e aggiunto sono ritenuti congiuntamente responsabili: di conseguenza, uno Stato potrebbe essere ritenuto responsabile della violazione di una norma CEDU anche nel caso in cui abbia formulato riserve rispetto a quest’ultima. Ciò è in contrasto con il Protocollo 8, in forza del quale l’accordo di adesione deve garantire che nessuna delle sue disposizioni incida sulla situazione particolare degli Stati membri nei confronti della CEDU e, segnatamente, in relazione alle riserve formulate riguardo a quest’ultima (228).

Inoltre, per la Corte di giustizia non è compatibile con i trattati neppure la previsione dell’art. 3, par. 7, del progetto di accordo, ai sensi della quale la Corte EDU, sulla base degli argomenti presentati dal convenuto e dal convenuto aggiunto, dopo aver sentito le osservazioni del ricorrente, può decidere che solo uno dei soggetti sopra indicati venga dichiarato responsabile di tale violazione. Anche in questo caso, secondo la Corte, vi sarebbe il rischio di pregiudicare la ripartizione delle competenze su cui solo il giudice di Lussemburgo ha competenza a pronunciarsi.

Tali censure destano, ancora una volta, grande stupore. Innanzitutto, si osserva che la norma sul meccanismo del convenuto aggiunto è stata uno dei punti più accesi del negoziato, ove i rappresentati di Stati e istituzioni hanno speso le maggiori forze per la ricerca del compromesso. L’eccezione alla responsabilità congiunta di convenuto e convenuto aggiunto è stata inserita solo nelle ultime fasi del negoziato del 2013, tant’è che non è presente nella bozza di accordo dell’ottobre del 2011, proprio per rispondere alle esigenze di equità manifestate da entrambe le parti: appariva, infatti, iniquo che vi fosse una pronuncia di responsabilità congiunta ove dagli atti di causa emergesse chiaramente la responsabilità di un’unica parte.

In ogni caso, la Corte di giustizia ben avrebbe potuto censurare solo quest’ultima eccezione e lasciare che la ripartizione di responsabilità tra Stati e Unione fosse risolta internamente dall’Unione.

Come rilevato da L.S. Rossi, peraltro, il meccanismo del convenuto aggiunto , così come quello del previo coinvolgimento, è un meccanismo “tortuoso e di dubbia efficacia”, inserito proprio per venire incontro alle peculiari esigenze dell’Unione europea.

vi)                 Il previo coinvolgimento della Corte di giustizia 

Non sfugge alla censura de giudice dell’Unione neppure il meccanismo del previo coinvolgimento della Corte di giustizia, previsto dal progetto di accordo all’art. 3, par. 6. Tale norma sancisce che, nei procedimenti in cui l’Unione europea è parte in qualità di convenuto aggiunto, se la Corte di giustizia non si è già pronunciata sulla compatibilità, con i diritti previsti dalla CEDU o dai suoi Protocolli rilevanti nel caso di specie, delle disposizioni del diritto dell’Unione di cui al par. 2 (ovvero, di diritto derivato o primario), deve essere concesso un tempo sufficiente alla stessa per effettuare tale valutazione, nonché alle parti in causa dinanzi alla Corte EDU, per presentare le proprie osservazioni.

Secondo la Corte di giustizia, l’istituto va censurato per due profili. In primo luogo, si sottolinea che la procedura in parola rimette alla Corte EDU il potere di decidere se la Corte di giustizia si sia già pronunciata su una questione di diritto identica a quella costituente l’oggetto del procedimento dinanzi alla Corte EDU e siffatta scelta finirebbe per attribuire a quest’ultima la competenza ad interpretare la giurisprudenza della Corte di giustizia. Al contrario, secondo la Corte di Lussemburgo, la procedura dovrebbe essere articolata «in modo tale che, per ogni causa pendente dinanzi alla Corte EDU, venga trasmessa un’informazione completa e sistematica all’Unione, affinché la competente istituzione di quest’ultima sia messa in condizione di valutare se la Corte si sia già pronunciata sulla questione costituente l’oggetto di tale causa e, in caso negativo, di ottenere l’attivazione di detta procedura» (241).

In secondo luogo, l’istituto è stato censurato perché incide sulle competenze dell’Unione e sulle attribuzioni della Corte, nella misura in cui la procedura del previo coinvolgimento è applicabile solo in caso di giudizio di validità del diritto derivato o di interpretazione del diritto primario, escludendo le ipotesi di giudizio di interpretazione del diritto primario. Nel parere in esame viene, infatti, sottolineato che «se non fosse permesso alla Corte [di giustizia di] fornire l’interpretazione definitiva del diritto derivato e se la Corte EDU, nel suo esame della conformità di tale diritto alla CEDU, dovesse fornire essa stessa un’interpretazione determinata tra quelle che sono plausibili, il principio della competenza esclusiva della Corte quanto all’interpretazione definitiva del diritto dell’Unione verrebbe senz’altro violato» (246).

Anche tale censura suscita perplessità, soprattutto se si considera che l’istituto del previo coinvolgimento – della Corte di giustizia – con chiaro ed esplicito riferimento alla sola questione di validità del diritto derivato –  è stato fortemente voluto dalla stessa istituzione nel documento del 5 maggio 2010. Nello stesso senso era la pronuncia dei presidenti delle due Corti.

Forse bene avrebbe fatto la Corte a meglio specificare già nel 2010 tutte le peculiarità di funzionamento di detto meccanismo, per evitare un inutile e costoso sforzo negoziale.

 

vii)                Il controllo giurisdizionale in materia di PESC

L’ultima censura riguarda il controllo giurisdizionale degli atti PESC. Secondo la Corte di giustizia, poiché la sua competenza in tale ambito è fortemente limitata dai trattati, «per effetto dell’adesione nei termini contemplati dall’accordo previsto, la Corte EDU sarebbe legittimata a pronunciarsi sulla conformità alla CEDU di determinati atti, azioni od omissioni posti in essere nell’ambito della PESC e, in particolare, di quelli per i quali la Corte non ha competenza a verificare la loro legittimità in rapporto ai diritti fondamentali» (254). Dunque, il controllo su tali atti spetterebbe in via esclusiva ad un organo esterno all’Unione.

A tal proposito, non può non osservarsi che per rimediare a tale circostanza, sarebbe “sufficiente” – seppur ricorrendo certo ad una revisione dei trattati ex art. 48 TUE – estendere il controllo giurisdizionale della Corte di giustizia a tali atti, anziché “bocciare” l’accordo perché prevede il controllo della Corte EDU di atti sottratti alla giurisdizione di Lussemburgo. Un controllo più ampio dei giudici dell’Unione anche in ambito PESC assicurerebbe sicuramente una maggiore effettività della tutela giurisdizionale. Certo, come detto, gli Stati membri, dovrebbero ricorrere ad una modifica dei trattati in questo senso, ma non essendosi opposti – in sede di negoziati di adesione e in udienza – alla possibilità di un controllo esterno su tali atti da parte della Corte EDU dovrebbero essere, almeno in via di principio, disponibili a procedere ex art. 48 TUE per assicurare (almeno) anche il controllo della Corte di giustizia anche su tali atti. Peraltro, come sottolineato dall’avvocato generale, non c’è  bisogno di forzare la lettera del Trattato, come avrebbe voluto invece la Commissione, essendo la tutela giurisdizionale nel settore PESC comunque assicurata, ad eccezione del limitato spazio per la Corte di giustizia, dai giudici nazionali. In questa situazione, peraltro, un controllo esterno non avrebbe che potuto aumentare l’effettività di tale tutela, senza alcun rischio di contrapposizione con la giurisprudenza della Corte di giustizia.

2.        Il futuro del Progetto di accordo e la prosecuzione della strada verso l’adesione 

Il parere della Corte di giustizia ha gettato una grande incertezza sul futuro dell’adesione: non è, infatti, facile prevedere che cosa succederà dopo questo secondo no, che appare una barriera insormontabile. La Corte, infatti, non si è limitata ad evidenziare aspetti del progetto di accordo da migliorare o da riscrivere tenendo presente le sue indicazioni: essa, infatti, ha letteralmente smontato ogni previsione ed istituto ivi contenuto, rendendo difficile immaginare delle modifiche che possano portare ad un giudizio positivo. In alternativa, pensando a ridisegnare l’accordo secondo le indicazioni della Corte, ne risulterebbe un’adesione che neutralizzerebbe a tal punto gli effetti del controllo della Corte di giustizia da essere del tutto inutile.

A tal proposito vi è stato chi ha sostenuto che sia chiaro che i negoziatori torneranno al tavolo negoziale, cercando di rimuovere gli ostacoli sollevati dalla Corte di giustizia (v. Lock), pur riconoscendo che « the Court’s agenda was driven by a desire to make accession if not impossible, but very difficult indeed». Altri hanno sottolineato che un’adesione in conformità a quanto statuito nel parere non comporterebbe un efficace controllo esterno (v. Douglas-Scott) da momento che l’accordo ne risulterebbe disegnato in modo da mettere al riparo l’Unione (e soprattutto la Corte di giustizia) da ogni serio intervento di Strasburgo. Peraltro, vi sarebbe un certo imbarazzo dei negoziatori a tornare al tavolo, soprattutto per quanto riguarda i rappresentati dei paesi non membri, che già avevano dovuto accettare una serie di compromessi a favore dell’Unione europea.

Di fronte alla rigida presa di posizione della Corte, il prof. Besselink ha suggerito di procedere “aggirando” le problematiche sollevate, attraverso l’adozione di un “Notwithstandig Protocol” del seguente tenore: «The Union shall accede to the European Convention for the Protection of Human Rights and Fundamental Freedoms, notwithstanding Article 6(2) Treaty on European Union, Protocol (No 8) relating to Article 6(2) of the Treaty on European Union and Opinion 2/13 of the Court of Justice of 18 December 2014». Secondo la sua ricostruzione, in tal modo si avrebbe una modifica dei Trattati conseguente al parere 2/13, in conformità a quanto previsto dall’art. 218, par. 11, TFUE: come noto, infatti, se il parere della Corte è negativo, l’accordo non può entrare in vigore, salvo una modifica dei trattati. Tale proposta, per quanto provocatoria, non appare del tutto inconferente, essendo evidente che la volontà politica degli Stati si è scontrata con l’opposizione di una sola istituzione, la Corte di giustizia. Resta da chiedersi se gli Stati accetterebbero di ratificare una tale modifica dei Trattati: sul punto la professoressa Douglas-Scott ha alcune riserve, soprattutto per quanto riguarda Stati come il Regno Unito che recentemente hanno mostrato una certa riluttanza di fronte ad una maggiore integrazione.

Peers non ha esitato a definire il parere 2/13 come un “unmitigated disaster” e “a clear and present danger to human rights protection”, aggiungendo che un’adesione secondo le modalità disegnate dalla Corte di giustizia è tutt’altro che desiderabile.

Non si può che condividere questo senso di frustrazione di fronte ad un parere che, dopo decenni di dibattito e un negoziato di tre anni, conseguente ad una modifica dei Trattati e della CEDU, non lascia sperare in alcun futuro credibile per l’adesione, impedendo qualsiasi controllo esterno da parte di Strasburgo: l’impressione è, infatti, che la Corte  rifiuti il presupposto stesso dell’adesione, ovvero l’assoggettarsi ad un controllo esterno “on an equal footing with the other High Contracting Parties”, come invece espresso sia dalla Commissione nelle proprie raccomandazioni per il mandato a negoziare, sia dai negoziatori nel progetto di relazione esplicativa all’ accordo.

Riscrivere un testo di accordo di adesione che escluda ogni significativo intervento e controllo della Corte di Strasburgo sulle istituzioni di Lussemburgo nei termini espressi dalla Corte di giustizia appare quanto mai arduo. E, a maggior ragione, non sembra neppure immaginabile – come pure ammesso dall’art. 218, par. 11, TFUE – una revisione dei Trattati ex art. 48 TUE per renderli compatibili con almeno alcune previsioni del progetto di accordo, così da consentirne l’entrata in vigore (seppur in termini contenutistici meno estesi di quelli originari).

Certo, pur nell’esercizio legittimo della competenza conferitale dal citato art. 218, par. 11, TFUE, nel caso in esame la Corte, disattendendo l’opinione della maggioranza degli Stati membri, nonché delle tre istituzioni politiche, si è di fatto sostituita ad esse nella gestione delle relazioni esterne dell’Unione.

 La ripresa dei negoziati appare, come detto, ardua se non impossibile. Anche se non è escluso che gli Stati membri dell’Unione, e così quelli del Consiglio d’Europa, anche per non “buttar via” anni di negoziati assai costosi, cerchino una soluzione all’attuale impasse. Sebbene alcuni (v. Peers)  abbiano ipotizzato che gli Stati potrebbero essere passibili di una procedura di infrazione per la mancata realizzazione dell’adesione, vista la prescrizione di cui all’art. 6, par. 2 TUE, allo stato la responsabilità pare essere più nel campo delle istituzioni, eventualmente censurabili con un ricorso in carenza (v. Jacqué) .

Da ultimo, come suggerito dalla prof.ssa Rossi, non si può fare a meno di considerare la possibile reazione del sistema di Strasburgo. Si può, infatti, immaginare, che negli anni a venire la Corte di Strasburgo rinunci al self restraint mostrato con la presunzione di protezione equivalente inaugurata con la sentenza Bosphorus. Ben potrebbe, infatti, la Corte EDU dichiarare responsabili gli Stati per violazioni discendenti dall’attuazione del diritto dell’Unione europea, anche in assenza di un margine di discrezionalità degli Stati, non ritenendo più equivalente il sistema di tutela dei diritti fondamentali dell’Unione europea.

 


[1] Il presente post riprende ed amplia quanto già pubblicato nel post Il parere 2/13 della Corte di giustizia sul Progetto di accordo di adesione dell’unione europea alla CEDU: una bocciatura senza appello?, 22 dicembre 2014, http://www.eurojus.it/il-parere-213-della-corte-di-giustizia-sul-progetto-di-accordo-di-adesione-dellunione-euro-pea-alla-cedu-una-bocciatura-senza-appello/; per il titolo di questo post un ringraziamento va a Jacopo Alberti.

[2] T. Lock, Oops! We did it again – the CJEU’s Opinion on EU Accession to the ECHR, http://www.verfassungsblog.de/en/oops-das-gutachten-des-eugh-zum-emrk-beitritt-der-eu/#.VJPu2dDpDw;   S. Peers, The CJEU and the EU’s accession to the ECHR: a clear and present danger to human rights protection, 18 dicembre 2014, http://eulawanalysis.blogspot.it/2014/12/the-cjeu-and-eus-accession-to-echr.html ; L.S. Rossi, Il Parere 2/13 della CGUE sull’adesione dell’UE alla CEDU: scontro fra Corti?, 22 dicembre 2014, http://www.sidi-isil.org/sidiblog/?p=1228 ; H. Labayle, La guerre des juges n’aura pas lieu. Tant mieux? Libres propos sur l’avis 2/13 de la Cour de justice relatif à l’adhésion de l’Union à la CEDH, http://www.gdr-elsj.eu/2014/12/22/elsj/la-guerre-des-juges-naura-pas-lieu-tant-mieux-libres-propos-sur-lavis-213-de-la-cour-de-justice-relatif-a-ladhesion-de-lunion-a-la-cedh/, 22 dicembre 2014; S. Vezzani “Gl’è tutto sbagliato, gl’è tutto da rifare!”: la Corte di giustizia frena l’adesione dell’UE alla CEDU, 23 dicembre 2014, http://www.sidi-isil.org/sidiblog/?p=1231 ; L. Besselink, Acceding to the ECHR notwithstanding the Court of Justice Opinion 2/13, 23 dicembre 2014, http://www.verfassungsblog.de/acceding-echr-notwithstanding-court-justice-opinion-213/#.VKvveiuG-WA ; S. Douglas-Scott, Opinion 2/13 on EU accession to the ECHR: a Christmas bombshell from the European Court of Justice http://www.verfassungsblog.de/opinion-213-eu-accession-echr-christmas-bombshell-european-court-justice/#.VKvvryuG-WA .