In Memoriam R.B.G.

È a tutt’oggi impossibile visitare New York senza imbattersi in qualcuno dei tanti gadget con le sue riconoscibilissime iniziali – RBG – o con l’effigie del colletto di pizzo con cui usava ingentilire la monacale toga nera dei giudici. Senza dimenticare i numerosi libri per bambini dedicati a questa figura esemplare di donna e giurista, alla parabola di una ragazza di Brooklyn ammessa assieme a poche altre alla Harvard Law School, paladina dei diritti delle donne ma anche moglie e madre, approdata infine alla Corte Suprema – seconda donna dopo Sandra Day O’Connor, prima donna ebrea – per iniziativa del Presidente Clinton. Come ha ricordato il Presidente Obama, nel 1960 Ginsburg fece domanda come law clerk alla Corte Suprema ma, a dispetto delle lettere di presentazione che ne elogiavano le qualità fuori dal comune, non fu selezionata perché donna. Solo dieci anni più tardi, come avvocato, ella presentò la sua prima memoria alla Corte che contribuì alla prima dichiarazione di incostituzionalità di una legge statale fondata sulla discriminazione di genere.
Con Ruth Bader Ginsburg scompare non solamente una delle legal mind più brillanti della sua generazione, ma una vera e propria icona. Forse nessuno fra i suoi predecessori ha mai avuto in sorte di assurgere a una tale popolarità: non certo Earl Warren, già governatore repubblicano della California, poi presidente di quella commissione chiamata a indagare sull’omicidio di John Fitzgerald Kennedy, che pure fu presidente negli anni Sessanta della Corte Suprema più progressista del Ventesimo secolo – come dire: di sempre –, quella di Brown v. Board of Education e la fine della segregazione razziale nelle scuole pubbliche, di Griswold v. Connecticut e l’invenzione della privacy che aprirà la strada più tardi a Roe v. Wade, della legalizzazione dei matrimoni interrazziali di Loving v. Virginia. Non Antonin Scalia, giudice iniziatore della scuola originalista, che, per quanto radicale nelle sue letture della Costituzione, seppe nondimeno catalizzare intorno a sé una curiosità che ne fece un volto molto noto anche fra i detrattori. E neppure William Brennan, giudice cattolico di ascendenze irlandesi, colui che più di ogni altro da quello scranno si batté affinché anche la settecentesca Costituzione degli Stati Uniti potesse farsi garante della dignità umana. Ma se tanti fra i giudici hanno goduto di una notorietà ben oltre i confini dei circuiti forensi, se pure la Corte Suprema altro non è che la mera somma di nove singoli giudici, nessuno fra loro ha vista impressa la propria immagine e la scritta “Notorious RBG” su t-shirt, borse, occhiali da sole come è accaduto a lei. E se ogni giudice si fa riconoscibile per certi gesti, certe posture – si sa che Clarence Thomas, per dirne una, non pone mai domande agli avvocati, non interviene mai durante le udienze, ma scrive di continuo messaggi su carta che distribuisce ai colleghi per scambiarsi le impressioni del momento –, la statura più che minuta di Ginsburg e quella voce precisa, tagliente, quasi chirurgica erano le sue temibili cifre nel corso dei dibattimenti: avvocati consumati, stretti nelle loro marsine, ne subivano la possanza di una vita spesa con coerenza e irriducibile determinazione all’affermazione dell’uguaglianza.
Ma come vedeva la Costituzione degli Stati Uniti Ruth Bader Ginsburg? Intanto, la vedeva vecchia, persino antiquata: a uno studente nord-africano che le chiedeva, in uno degli ultimi incontri pubblici tenutosi alla Library of Congress, cosa avessero le giovani, instabili democrazie della primavera araba da imparare dalla Costituzione degli Stati Uniti, lei rispondeva senza abbellimenti: Nothing at all, e suggeriva, invece, di guardare a costituzioni più moderne, fonti di ispirazione come non sa certo essere un testo scritto da soli uomini, bianchi, istruiti, luterani e benestanti alla fine del Diciottesimo secolo. Amava quella Costituzione, ma non la idolatrava; era votata con ogni fibra del suo essere a difenderla, ma non la considerava la migliore sulla piazza, certo non la più adatta a ogni latitudine e storia.

Sono celebri alcune opinion della Corte di cui fu redattrice e altrettanto molti suoi dissent. In entrambi i casi, sapeva che una sentenza non è un lavoro accademico e che va difesa dalla tentazione del narcisismo del mot juste, della frase icastica e memorabile che, però, non serve la causa della piena intelligibilità e funzionalità del disposto, che è ciò che conta quando si decide dei rapporti giuridici e dei destini.
Si rese conto di aver commesso un errore fatale, all’indomani delle elezioni del 2016, quando Trump salì alla Casa Bianca malgrado i quasi tre milioni di voti in più di Hillary Clinton. Fonti dirette dall’interno della Corte Suprema mi dissero che aveva deciso di non dimettersi allora perché convinta della vittoria democratica. Che anche lei avesse perso il contatto con quelle viscere profonde del Paese che avevano reso possibile l’impensabile elezione di un outsider che, dopo aver schiaffeggiato il GOP, lo aveva ridotto alla sua mercé? Negli ultimi quattro anni, l’America liberal, che ha assistito con crescente apprensione alle ultime due nomine di Neil Gorsuch e Brett Kavanaugh in sostituzione dello stesso Scalia e del dimissionario Anthony Kennedy, ha fatto il tifo per la sua salute, anche per non lasciare al Presidente Trump l’occasione di una terza nomina in un solo mandato, come riuscì solo a George Washington. Per una manciata appena di settimane, la sua pertinace resistenza malgrado gli infortuni e la malattia non è bastata.

Nel ripercorrere la carriera che le ha guadagnato un posto nella storia, merita di essere ricordato anche suo marito, Marty Ginsburg. Si sposarono nel 1954, appena lei completò il college a Cornell: decisero che, qualunque professione avessero intrapreso, lo avrebbero fatto insieme, e insieme scelsero legge. Quando il Presidente Carter la nominò alla Corte d’appello del Distretto di Columbia, nell’aprile 1980, lui, che era di ruolo come Charles Keller Beekman Professor of Law alla Columbia Law School, si trasferì al Georgetown Law Center, dove insegno tax law fino alla sua morte. Era così orgoglioso di lei che ripeteva che, entrambi studenti alla Harvard Law School, fu lei e non lui a entrare nel board della Harvard Law Review. All’ingresso dello Hart Auditorium, al primo piano del Georgetown Law Center, fa mostra di sé un ritratto maestoso di Ruth – anche in questo caso il suo, non quello di Marty, che pure vi trascorse trent’anni. Ma lui non aveva problemi a presentarsi come l’uomo un passo dietro la grande donna.