La Brexit tra Crown’s prerogative e diritti fondamentali: nota alla sentenza della High Court of Justice sul caso “Miller”

L’articolato puzzle di cui si compone la vicenda Brexit si è arricchito di un nuovo tassello. Finora i protagonisti erano stati Governo, Parlamento e Corpo elettorale. Questa volta, a collocare un nuovo elemento nel gioco, è il potere giudiziario, che fa così ingresso in questa storica partita che vede in palio il futuro del Regno Unito e dell’Unione Europea. Non era per nulla scontato che dopo il voto dello scorso giugno, con il conseguente aggrovigliato dibattito circa le modalità di attivazione della procedura di cui all’art. 50 del TUE, sarebbero intervenuti i giudici dell’Alta Corte londinese con una pronuncia di grande rilevanza e impatto. Un tassello destinato a produrre effetti profondi almeno su due aspetti cruciali del sistema costituzionale britannico: lo spettro d’azione e i correlati limiti della Crown’s prerogative (ovvero la titolarità delle decisioni in materia di politica estera in capo al vertice del Potere esecutivo, come sostenuto già da John Locke nel Secondo trattato sul governo, laddove parlava di “Potere federativo”), ed il ruolo della Supreme Court, chiamata ora a pronunciare l’ultima parola, in virtù di un ricorso per impugnazione prontamente presentato dal Secretary of State for Exiting the European Union, in una vicenda in cui l’unica certezza è paradossalmente costituita dalla mancanza di certezze, come dimostrano le accese discussioni aperte da mesi tra i costituzionalisti d’oltremanica sui molteplici aspetti giuridici della Brexit.

Il cuore della decisione della High Court of Justice è il seguente: l’attivazione del percorso di fuoriuscita dall’Unione Europea, disciplinato dall’art. 50 del TUE, è un atto di natura duumvirale, ossia richiede una preventiva manifestazione di volontà del Parlamento in grado di autorizzare il Governo a comunicare alle istituzioni comunitarie la decisione adottata dal sistema costituzionale britannico.

Per capire i canoni fondamentali di questa pronuncia è importante soffermarsi, seppur brevemente, sulla premessa, per nulla ultronea o pleonastica, formulata dal collegio: consapevoli del rischio di una possibile strumentalizzazione politica della loro decisione, i giudici specificano che il loro impianto argomentativo ruota esclusivamente attorno ai principi della British Constitution, ed è privo di riferimenti all’opportunità politica di abbandonare l’Unione Europea, giacché tale ambito è naturalmente estraneo a valutazioni rientranti nelle funzioni di spettanza del potere giudiziario.

Passando al merito, la Corte osserva che, anche sulla scorta delle allegazioni delle parti, l’art. 50 TUE, nella sua formulazione, debba intendersi come irrevocabile. Pertanto, allo scadere del termine di due anni dal momento in cui le istituzioni britanniche dovessero notificare al Consiglio europeo la volontà di recedere dall’Unione, in caso non si addivenisse ad alcun accordo condiviso e salvo proroga votata all’unanimità dai Paesi membri, i trattati cesserebbero di trovare applicazione per il Regno Unito, indipendentemente dal repeal dello European Community Act del 1972. Per cui, di fatto, quest’ultimo verrebbe privato della sua efficacia e con essa verrebbero cancellati anche i diritti derivanti dalla normativa comunitaria che entrano a pieno titolo nell’ordinamento britannico in forza del rinvio operato proprio dallo statute in parola. Secondo la Corte, allo European Community Act deve essere riconosciuto il valore di constitutional statute, proprio in virtù di un contenuto giuridico con cui il Parlamento nel 1972 intese affermare una pluralità di diritti fondamentali in capo al cittadino, ovviamente legati all’appartenenza del Regno Unito alle istituzioni europee.

Da ciò deriva una cruciale conseguenza sul piano del rapporto tra Parlamento e Governo in relazione all’utilizzo dell’art. 50 del TUE. Per quanto non vi sia dubbio che tra le prerogative regie, oggi appannaggio dell’Esecutivo in omaggio al plurisecolare passaggio dalla monarchia costituzionale alla democrazia parlamentare, rientri a pieno titolo la gestione dei rapporti internazionali, la Corte chiarisce come esse trovino un limite inscritto sia nei principi della Common Law, sia, in modo più specifico, nello stesso principio della sovereignity of Parliament. In virtù di questi capisaldi del sistema giuridico britannico, il Governo non gode del potere di incidere in via diretta sul complesso dei diritti fondamentali definiti dagli statutes parlamentari. Naturalmente nulla vieta che il Cabinet, nell’esercizio delle sue funzioni, contragga o receda da impegni di carattere internazionale che comportino l’insorgenza, in capo al Regno Unito, di eventuali diritti e obblighi. Tuttavia, questi dovranno rimanere confinati nell’alveo dei rapporti tra Stati, senza avere ricadute sul piano dei diritti dei singoli, almeno in via diretta. La particolarità dei trattati europei, invece, sta proprio nell’aver istituito un sistema dal quale originano diritti propri dei singoli che vengono veicolati con effetti diretti all’interno degli ordinamenti dei Paesi membri. Nel caso britannico lo strumento che permette alla normativa europea di produrre effetti interni è costituito appunto dallo European Community Act del 1972 che, in quanto atto legislativo, potrà essere modificato o abrogato solo da un atto del Parlamento. Di conseguenza, è necessario che sia il Parlamento ad autorizzare preventivamente il Governo a procedere ai sensi di cui all’art. 50 del TUE. In caso contrario, infatti, e anche nell’eventualità di una ratifica parlamentare ex post, si finirebbe per violare il principio, qui argomentato, secondo cui l’Esecutivo non detiene il potere di incidere, anche solo implicitamente e per un tempo determinato, sul sistema dei diritti fondamentali.

Dunque, una sentenza che va apprezzata per la linearità di un impianto motivazionale, che scava sino alle fondamenta del sistema costituzionale britannico per individuare i valori sui quali operare il bilanciamento tra le funzioni spettanti ai due pilastri della forma di governo, alla ricerca dei reciproci confini tra discrezionalità politica e protezione dei diritti fondamentali. Tuttavia, pur così approfondita e articolata, la sentenza non appare pacificamente in grado di chiudere la questione, lasciando qualche margine di manovra alla Corte Suprema. In particolare, vi è un importante interrogativo che rimane tuttora oggetto di interpretazioni antitetiche, tanto nel dibattito politico che nella discussione dentro la scienza giuridica britannica ed europea: il problema della revocabilità o meno della procedura di cui all’art. 50 del TUE una volta che lo Stato membro abbia notificato la formale richiesta di recesso sulla base del proprio diritto costituzionale. Nella fattispecie in esame, tanto le parti in causa quanto la Corte hanno dato per assodato che, una volta innescato, il processo sia irreversibile e conduca inevitabilmente all’abbandono dell’Unione. Ove, invece, i giudici di ultima istanza assumessero un diverso approccio ermeneutico potrebbero trarre la conseguenza che il Parlamento avrebbe la possibilità di intervenire anche in un secondo momento a bloccare i negoziati, rendendo così meno necessaria la sua partecipazione nella fase iniziale. Giova qui ricordare che, ai sensi dell’art. 267 del TFUE, quando una questione pregiudiziale relativa all’interpretazione dei trattati è sollevata dinanzi ad una Corte interna di ultimo grado, questa è tenuta a sollevare la questione alla Corte di Giustizia affinché si pronunci circa l’effettivo significato delle norme comunitarie. In tal senso potrebbe apparire quasi paradossale che ancora una volta possano essere le istituzioni comunitarie ad intervenire, seppur indirettamente, sulla definizione di controversie interne all’ordinamento britannico e per di più su un tema, così spinoso e denso di ricadute concrete, il cui oggetto è costituito proprio da un voto del Corpo elettorale favorevole ad uscire da quel sistema giuridico di cui le Corti europee sono parte integrante.

Da ultimo, non si può non rilevare come i temi in questione e i termini del ricorso proposto alla Corte Suprema avverso la sentenza della High Court spingeranno il giudice di ultima istanza ben oltre i confini che sinora si era ritagliato ed entro cui si era tenuto, costringendolo ad imboccare con decisione la strada che porta verso l’assunzione di un ruolo assimilabile a quello di una Corte costituzionale continentale. Di fatto, l’appello proposto contro la decisione del giudice di prime cure altro non è che un conflitto di attribuzioni tra Governo e Parlamento circa la titolarità di un atto politico e giuridico che si inscrive a pieno titolo nella materia prettamente costituzionale. Qualunque decisione assumerà, sarà difficile continuare a sostenere l’assoluta specificità e atipicità della Supreme Court of the United Kingdom nel panorama dei giudici costituzionali, la sua perdurante alterità rispetto ai caratteri della giustizia costituzionale eurocontinentale o nordamericana.

Davvero carica di paradossi questa vicenda Brexit: il popolo britannico ha mostrato di volersi sentire meno europeo e più insulare mentre alcune istituzioni del Regno Unito potrebbero ritrovarsi ad assomigliare più di prima a quelle europee.