La confusione regna “sovrana”: riflessioni sul Brexit a pochi giorni dal voto del 23 giugno

A poche ore dal voto del 23 giugno su tutti i giornali si scrive già di una sicura uscita del Regno Unito dall’Unione europea (UE). Come noto, tuttavia, la faccenda è molto più complicata e il famoso termine dei due anni a cui si riferisce l’art. 50 del Trattato sull’UE (TUE) scatterà solo dall’avvenuta notifica, da parte del governo interessato, dell’intenzione di uscire al Consiglio europeo, “salvo che il Consiglio europeo, d’intesa con lo Stato membro interessato, decida all’unanimità di prorogare tale termine” (art. 50 TUE). Non si sa molto della “forma” che dovrebbe avere (avrà, per alcuni) tale notifica; di sicuro, come appare del resto chiaro dal Trattato, le istituzioni sovranazionali non possono assolutamente obbligare il Regno Unito a notificare e lo stesso Boris Johnson, uno dei principali protagonisti nelle settimane della campagna, ha da poco dichiarato “no need for haste over Brexit’”. Del resto si tratta di un passo cruciale, sulla cui ritrattabilità la dottrina è divisa[1], ma che ha delle importanti conseguenze per lo Stato notificante perché, come si chiarisce al par. 4 dell’art. 50: “Ai fini dei paragrafi 2 e 3, il membro del Consiglio europeo e del Consiglio che rappresenta lo Stato membro che recede non partecipa né alle deliberazioni né alle decisioni del Consiglio europeo e del Consiglio che lo riguardano”. Sicuramente la ratio dell’art. 50 TUE esclude la possibilità di usare la notifica come arma per negoziare condizioni di membership più vantaggiose, dal momento che “the Treaty drafters clearly did not want Article 50 itself to be used for the purpose of renegotiating EU membership or amending the Treaties in any way”[2] (S. Peers, “Article 50 TEU: The uses and abuses of the process of withdrawing from the EU”, EU Law Analysis, 2014).

Va inoltre chiarito che i negoziati che si avviano dopo la notifica non hanno contenuto libero, dovendosi realizzare “alla luce degli orientamenti formulati dal Consiglio europeo” e, secondo, il quadro delineato dall’art. 50: non sono, quindi, ammesse forzature unilaterali.

Non è nemmeno corretto pensare che dal voto del 23 giugno o dalle dimissioni di Cameron si possa automaticamente dedurre l’obbligo, per il Regno Unito, di notificare la decisione di lasciare l’UE. Il referendum, come si ripete da mesi ormai, non è vincolante e il Parlamento è sovrano. Certo, apre degli spiragli politici importanti ma non è vincolante, del resto sono particolari le fisionomie che lo strumento referendario assume nel Regno Unito (su cui si rinvia a questo rapporto della House of Lords).

Le dimissioni di Cameron sono cosa ovvia: lui è l’artefice di tutto questo, non si aspettava di vincere in maniera tanto netta la General election del 2015, sperava forse che un esito diverso avrebbe permesso a Clegg di giocare un ruolo determinante nel fornirgli una “scusa” valida per annunciare la rinuncia al referendum. Cameron non ha tratto alcuna lezione dall’esito tutt’altro che scontato del referendum sull’indipendenza della Scozia. Il Nostro non si aspettava nemmeno l’atteggiamento di Corbyn, che veramente poco ha fatto per aiutarlo nella campagna per il Bremain.

Si tratta di un risultato che risponde alla qualità di una classe politica assolutamente inadatta, capace solo di scorporare le questioni spinose dalla propria agenda.

A tutto ciò si aggiungano le discutibili scelte sulla titolarità del diritto di voto in questo referendum: potevano votare i cittadini del Commonwealth residenti nel Regno Unito, ma non i cittadini dell’UE, né i cittadini del Regno Unito residenti da più di quindici anni all’estero[3] (su queste questioni si veda anche la discutibile decisione Shindler, commentata da Gratteri e oggetto delle riflessioni di Tatham, nell’ultimo editoriale di Perspectives on Federalism).

Johnson ha detto “We can be like Canada”, ma proprio il Canada è patria della celebre Reference della Corte Suprema sulla secessione del Québec, in cui si è ricordata la necessità di una “clear majority” e di una “clear question” per poter dedurre dal risultato di un referendum l’obbligo di negoziare l’eventuale uscita della Provincia francofona dal Canada. Sul quesito va sottolineata la decisione – sulla scia di quanto suggerito dalla Electoral Commission – di sostituire il verbo “remain” a quello “stay” (utilizzato invece nel quesito del 1975, quindi solo tre anni dopo dall’entrata del Regno Unito) e di evitare una campagna “yes vs. no”, formulando quindi una domanda che non desse vantaggi a nessuna delle due alternative. Sulla questione della clear majority, difficilmente ai sensi del Clarity Act si potrebbe considerare il 51,9% come “clear majority” (e infatti in Québec alcuni hanno cavalcato l’onda)

Che scenari ora? Chi scrive non è certo dell’uscita del Regno Unito (si vedano, ad esempio, le risposte di Shaw e Lübbe-Wolff). Molto dipenderà dalle prossime settimane. Juncker ha chiarito che la Commissione gradirebbe un’uscita rapida (“as soon as possible”) e assicura che non vi saranno altri accordi, ma per alcuni sono frasi di circostanza, come forse ci si poteva aspettare. Da un lato, è giusto rispettare un voto popolare, dall’altro, come insegnano nel loro bel volume M-Méndez, F. Méndez e V. Triga, il referendum nella storia dell’integrazione concede spesso il bis. È avvenuto in Irlanda e Danimarca, ad esempio in occasione della ratifica di alcuni Trattati europei (si veda su questo il recente saggio di E. Özlem Atikcan).

C’è chi giura che in realtà il Regno Unito sia pronto a negoziare, cosa non si sa (forse le celebri, e già una volta respinte al mittente, quote sui lavoratori cittadini dell’UE?), viste le recenti concessioni fatte dal Consiglio europeo dello scorso febbraio (“New Settlement for the United Kingdom within the European Union”). In questo senso le dichiarazioni di Juncker potrebbero valere a chiarire, se qualcuno avesse dubbi a riguardo, che i negoziati si fanno in due. Uno stimolo in più in questo senso viene da Irlanda del Nord e Scozia, dove la maggioranza si è espressa per il “Bremain” e dove pare si sia (quasi) pronti ad un nuovo referendum per chiedere l’indipendenza da un eventuale Regno Unito fuori dall’UE. Il tutto assume contorni intriganti se si pensa che, secondo Mac Amhlaigh, per la modifica dello status del Regno Unito sarà necessario anche il voto del Parlamento scozzese…

E di negoziati in ogni caso sentiremo e leggeremo (sui terribili e ansiogeni giornali, che fanno tutto tranne che informare i cittadini) visto che sarà necessario, anche in caso di uscita, chiarire i futuri scenari. Varie le opzioni: a) relazioni UK-UE nel quadro dello Spazio economico europeo; b) relazioni UK-UE nel quadro di un accordo di libero scambio; c) potrebbero essere firmati degli accordi bilaterali settoriali; d) il Regno Unito potrebbe essere un semplice “Stato terzo” (si vedano queste opzioni ricordate da Jean Claude Piris e da Simone) Difficile prevedere anche quale sarà l’impatto sui cittadini e gli ex (?) cittadini dell’Unione in seguito ad una eventuale uscita, anche se non mancano le prime analisi giuridiche in questo senso (si vedano i post di Dimitry Kochenov, qui e qui).

I giornali stanno anche dando la notizia di un possibile secondo referendum: anche qui, tuttavia, non si tratta di una strada percorribile subito. Occorre prima chiarire se vi sia margine per possibili riforme o aggiustamenti sulla cui base riproporre il fatidico quesito.

C’è anche chi parla di una nuova fase per l’Unione, una fase costituente, da inaugurare come si sono (malamente) chiuse le vecchie: una Convenzione. Chi scrive ha un ricordo non positivo dell’esperienza delle Convenzioni. Personalmente credo che l’UE abbia già una Costituzione: vale la pena di ricordare come l’interprete dei Trattati europei, la Corte di giustizia, non abbia smesso di usare il gergo costituzionale, anche all’indomani delle sonore sberle olandesi e francesi al c.d. Trattato-costituzionale- si pensi, anche recentemente, alla saga Kadi e persino al discusso Parere 2/13). Si tratta, del resto, di una scelta coerente perché ben prima delle Convenzioni, nella notissima sentenza Les Verts, la stessa Corte aveva definito i Trattati come la propria “Carta costituzionale”. Tuttavia, l’UE ha bisogno di coinvolgere i cittadini, quei cittadini che non ne colgono il valore aggiunto e in questo senso, forse, va letto l’appello ad una nuova stagione “costituente”

Allo stesso tempo, Salvini e Le Pen evocano i fantasmi di altri referendum, brindando al risultato del voto e, soprattutto, dando un fondamentale contributo alla confusione mediatica, l’unica a regnare “sovrana” dopo il 23 giugno.

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[1] “The point is arguable either way. It could be argued that since a notification to withdraw is subject to a Member State’s constitutional requirements, the Treaty therefore leaves to each Member State the possibility of rescinding that notification in accordance with those requirements. On the other hand, it could also be argued that Article 50 only provides for two possibilities to delay the withdrawal of a Member State from the EU once notification has been given (an extension of the time limit, or a different date in the withdrawal agreement). There’s no suggestion that this is a non-exhaustive list. Therefore the notification of withdrawal can’t be rescinded” (S. Peers, “Article 50 TEU: The uses and abuses of the process of withdrawing from the EU”, EU Law Analysis, 2014).

[2] “Legally speaking, it’s just not possible to do this. It’s obvious from Article 50(2) that invoking Article 50 leads to negotiations on the UK’s departure from the EU, not about Treaty amendments or changes to other forms of EU law. While it is likely that if the UK left the EU, there would be a separate Treaty amendment agreed by the remaining Member States (at the very least, to remove mentions of the UK from the Treaties), the Treaty drafters clearly did not want Article 50 itself to be used for the purpose of renegotiating EU membership or amending the Treaties in any way.” (S. Peers, “Article 50 TEU: The uses and abuses of the process of withdrawing from the EU”, EU Law Analysis, 2014).

[3] O, meglio, come ricorda Gratteri,: “La cui ultima iscrizione nel registro elettorale del luogo di residenza nel Regno Unito risale ad oltre 15 anni addietro”.

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